Semi di Senape
Vivere nella gioia del Natale. Sempre.
La gioia cristiana è come una vocazione per la vita intera; l’hanno sperimentata i pastori che hanno preso in parola gli angeli quando portavano il lieto annunzio; l’ha provata Maria nel divenire Madre di Gesù; l’ha provata Giuseppe nel custodire la santa famiglia.
Nel periodo natalizio la liturgia ci trasporta in un clima di incanto realistico; non c’è evasione surreale per i guardiani di gregge a Betlemme che si recano alla grotta; in fondo, che cosa hanno verificato? Che l’annunzio degli Angeli «Gloria in excelsis Deo» è concretamente rappresentato dall’inizio di una vita; il grido di esultanza comincia da un vagito innocente.
Occorre una vita a volte per slegare le bocche e far affiorare l’esultanza sulle labbra e la lucentezza negli occhi: questo l’hanno vissuto i pastori che dopo aver visto le cose annunciate dagli angeli, lieti sono tornati nelle loro case.
A dire il vero il clima consumistico attuale ci ha abituato ad una visione scintillante del Natale; volendo interpretare il contesto letterario dei Vangeli e l’ambiente sociale e storico, svanisce via in un soffio lo scintillìo vaporoso dei nastrini. Occorre l’umile buon senso dei pastori; essi in un certo senso sono andati a vedere il Bambino Gesù perché non avevano nulla da perdere; cioè non mettevano beni personali a rischio, recandosi con le greggi nel caravanserraglio di Betlemme; eppure si sono mossi umilmente per contemplare il fatto – «un bambino deposto nella mangiatoia». I loro sguardi non erano scettici o sprezzanti.
Essi come categoria sociale erano malvisti nel Giudaismo; erano considerati uomini non degni di fede; perciò la loro testimonianza in un tribunale valeva assai meno di un fanciullo osservante. Eppure i loro occhi e le loro labbra sono state pervase dalla gioia.
Neppure con la sapienza dei migliori esperti e interpreti si è voluto persuadere Erode; costui è un uomo che avendo da perdere molto, se fosse vero che un Re è nato per spodestarlo, reagisce con malvagi stratagemmi. Tutta la sua malizia si manifesta quando tenta di carpire ai cosiddetti re magi il dono delle rivelazioni e delle profezie. Avendo poi constatato che nella sua insidiosa trappola i tre nobili venuti dall’Oriente non sono caduti, scatena una vendetta iniqua.
La Chiesa considera la strage degli innocenti come il primo spargimento di sangue a causa delle fede; le creature inconsapevoli, perseguitate a causa della religione, sono chiamati santi innocenti; ad essi un re locale ha tolto la gioia di crescere e vivere; ad essi Dio ha riservato, in una forma che Lui solo conosce, un destino di grazia.
Dalle cose umili comincia la gioia e la sapienza; i tre sapienti, sulle orme dei pastori, rendono onore a colui che i popoli attendevano. Nell’orientamento naturale del loro studio, una volta scoperta la sapienza nella persona di Gesù Bambino, i re magi hanno piegato le ginocchia e hanno sollevatogli occhi verso la Divina sapienza.
È un gesto che anticipa la profezia secondo cui tutti i «confini della terra si piegheranno»; «confine» sta per popolo in questa figura retorica che si chiama personificazione. È come un affacciarsi di tutte le etnie e le categorie sociali sull’orlo della mangiatoia.
È indubbio infatti che la pace tra popoli e nazioni procede anzitutto da un ristabilimento della giustizia sociale.
La profezia del profeta Isaia sul Principe della Pace si riferisce al Cristo che con l’intera oblazione della sua vita ha mostrato ciò che è buono compiere, a partire dai più piccoli. Nella struttura della rivelazione proprio i piccoli sono stati presi in considerazione da Dio, amati perché nella beatitudine della povertà si manifesta la sapienza.
Al vertice umano del prodigio di Betlemme si trovano Maria e Giuseppe suo sposo; proprio il fatto di non avere da sé, cioè in forza delle loro abilità o in ragione della loro pietà, rivendicato un esito per il loro fidanzamento, li ha resi degni di ricevere mirabili grazie divine nel loro matrimonio.
Questo grande mistero dell’Incarnazione del Verbo divino crede e trasmette la Chiesa lungo i secoli. Eventi che nella loro misura storica e geografica sono modesti.
Vivendo così, nella gioia obbediente al piano divino, Maria è divenuta la Madre del Figlio e Giuseppe lo Sposo della Vergine. Accettando una vocazione singolare e irripetibile, le loro aspirazioni umane sono state elevate da Dio a più alto significato di redenzione.
La Chiesa venera san Giuseppe Custode del Redentore: la sua premurosa e fedele guardia per la madre e il bambino l’ha reso il padre della divina provvidenza, perché come ha provveduto nella vita per i suoi più cari familiari, così custodisce e provvede quei beni che abbisognano alla Chiesa che è difatti l’eredità più cara che il Cristo, Figlio della Vergine, ha voluto istituire.
Nella gioia è vissuta Maria che premurosa si è recata dalla cugina Elisabetta per prodigare le cure del caso. La carità è un bene che per sua natura è effusivo; non si può tenere per sé; così la sapienza, pacifica e verace, è un bene che non si custodisce gelosamente per sé.
Sotto l’impulso dello Spirito Santo Maria, già piena di grazia prima del divino concepimento, effonde il suo premuroso affetto per la sua parente; Elisabetta, colma di Spirito, dopo aver concepito Giovanni, è tra le cose più care. L’intima gioia di accudire e la familiare fatica di generare si intrecciano in un bozzetto realistico che sant’Ambrogio ha commentato così: «se c’è una sola madre di Cristo secondo la carne, secondo la fede, invece, Cristo è il frutto di tutti, poiché ogni anima riceve il Verbo di Dio, purché, immacolata e immune da vizi, custodisca la castità con intemerato pudore» («Commento su san Luca», 2, 26-27)
Questo è il nucleo della gioia: l’impegno di vivere secondo il mistero di elezione, superando di far valere un desiderio come piacere personale. La responsabilità della gioia comporta di affidarsi a ciò che Dio dispone per l’anima e, accettando serenamente la Provvidenza divina, crescere di gioia in gioia, come di gloria in gloria.
Don Salvatore Falzone
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