Memorie d'Africa (1.1.1936 - 4.10.1946)
di Giuseppe Scannella - 3°


La mattina del 12 Dicembre 1935 alle ore sei squilla la tromba della sveglia; scendiamo con i nostri zaini nel cortile dove ci viene offerta la colazione mentre si sale sui camion.
Quando un camion si riempie, parte immediatamente per il porto dove poi si attende l'arrivo degli altri per un ulteriore appello di controllo e man mano che si viene chiamati, si sale sulla "LIGURIA" .
Questa è una nave opportunamente adatta al trasporto di grandi masse di passeggeri, come siamo noi, che al suo interno presenta lunghi corridoi ai cui lati ci sono colonne di quattro cuccette per riposare.
Siamo infatti in settemila a salire su questa nave, appartenenti a tutti i vari corpi: artiglieria, fanteria, genio e sanità; ed in più l'equipaggio.
Terminato l'imbarco il piroscafo parte alla volta di Tripoli dove si dovranno caricare tende da campo, muletti e medicinali.
Ora, anche se sfugge l'ora della partenza, la nave lascia le coste Siciliane verso sera, per cui anche il chiaroscuro delle prime ombre getta un po' di malinconia nel petto ma anche qualche speranza nel futuro che ci attende.
Purtroppo però la prima triste esperienza la facciamo la sera stessa di quel giorno. Infatti, finita la cena, ognuno va alla sua cuccetta e si mette a dormire. Verso mezzanotte mi sveglio con uno strano malessere allo stomaco che mi fa correre per i gabinetti; passando accanto ad un gruppo di soldati che giocano a carte sento qualcuno suggerire: "Carta" ed un soldato sulla propria cuccetta che "se la sta facendo addosso" .
Non faccio caso a tali particolari e proseguo per i gabinetti, ma l'amara sopresa di trovarli tutti occupati da commilitoni affetti da diarrea mi costringe a lasciare purtroppo il mio puzzolente fardello sul corridoio. Solo dopo essermi liberato comprendo il significato di quel suggerimento " carta " riferito non alla richiesta tipica del gioco a sette e mezzo ma alla mancanza di carta igienica.
La notte passa così, senza poter chiudere occhio, rimuginando se la causa è stata il mal di mare ovvero l'immissione di qualche sostanza particolare (tipo olio di ricino) nel cibo della sera atto a pulire gli stomaci dei soldati che si preparano ad affrontare situazioni alimentari nuove e perfino anche critiche.
Al mattino, recatomi sul ponte di coperta, resto sorpreso nel vedere a qualche chilometro dalla nave all'àncora il porto di Tripoli: da lontano sembra una bella città con un grande porto, ma le dimensioni e l'eccessivo peso della nostra nave ne sconsigliano l'avvicinamento.
Qui restiamo fermi per ben tre giorni, in quanto bisogna caricare molta roba: tende d'accampamento, materiale sanitario, muli (che per la statura inferiore ai nostri chiamiamo comunemente muletti), da adibire ai trasporti di altura, rifornimenti per gli automezzi, e quant'altro servirà nella cosidetta Campagna d'Africa.
In questi tre giorni di permanenza al largo del porto di Tripoli, pur avendo la possibilità di scendere con apposite zattere sulla terraferma, preferisco restare sulla nave, visto che chi ha fatto l'esperienza di recarsi a Tripoli me lo ha esplicitamente sconsigliato. Infatti il mare mosso di quei giorni non favorisce di certo una gita in zattera.
Il 16 Dicembre siamo in vista del Canale Di Suez (vedi Cartina), e non posso trovare le parole adatte per descrivere le strane sensazioni che si provano nel vedere continuamente attorno alla nave pesci e squali di tutte le forme e dai comportamenti più strani: pesci comuni che saltellano sull'acqua; altri simili alle sarde che sembra volino (qualcuno li ha battezzati angioletti);
da 5 a 6 cetacei alla volta che con i loro zampilli sul dorso somigliano a delle fontane; e tante altre forme di vita marine molto attraenti che ci incuriosiscono.
Dopo qualche giorno la nave giunge a Port Said; quì si ferma non solo per i soliti controlli da parte degli addetti ma specialmente per far salire a bordo il pilota inglese che dovrà guidare la nave nell'attraversamento del Canale.
Durante il percorso noto alcuni episodi caratteristici che vale la pena annotare. Molti di noi si divertono a gettare monete nel Canale forse con la speranza di avere fortuna; sulla strada che costeggia il Canale gl'Italiani ivi residenti sono contenti di accompagnarci dalla riva per tutto il percorso; anche una strana donna locale, forse portatrice di handicap, di nome Maria Uva è solita accompagnare le navi che transitano per il Canale; e tanti altri episodi di cui la memoria ormai ha perso le tracce (vedi foto n° 1) .
Finito l'attraversamento, dopo circa sei ore, si entra nel meraviglioso Mar Rosso, e la nave si avvicina subito alla costa per fermarsi a Port Sudan, onde poter fare rifornimento. Approfitto per scendere dalla nave e sono subito attratto da improvvisati venditori del luogo che cercano di smerciare di tutto, anche se la merce proposta è molto semplice. Sono pertanto attratto da alcuni oggetti che compro subito per portarli poi come ricordo in Italia: due cofanetti portagioie rivestiti di conchiglie variopinte; una stella di mare; un fungo marino; due collane di coralli.
Verso le 16 si riparte alla volta della Somalia e giungiamo nel Golfo di Aden dopo alcuni giorni di ulteriore navigazione. Qui il mare oltre ad essere cristallino, assume colorazioni uniche e suggestive; anche le varie forme di vita marine contribuiscono a dare interesse particolare agli eventuali passeggeri. Un pomeriggio, ad esempio, dal ponte di prua vengo attratto da un'enorme manta dalle dimensioni eccezionali, quasi 2 metri di diametro.
Il mattino successivo, invece, salito sopra coperta per vedere dove siamo sono subito colpito dallo strano colore della costa somala: essa ci appare d'un bianco niveo, proprio come se fosse nevicato. E visto che il fenomeno interessa tutta la regione costiera, a perdita d'occhio, corro dall'amico Di Vita per renderlo partecipe dello strano panorama.
Tornati sopra coperta, tuttavia, non riusciamo ancora a renderci conto della cosa, finchè un marinaio dell'equipaggio non ci mette al corrente del fatto che lì il Governo italiano ha realizzato le più grandi saline del continente, intitolandole ai caduti della 1a guerra mondiale di Redipuglia.
Il 1° Gennaio, al tramonto, entriamo nell'Oceano Indiano e la navigazione prosegue per altri tre giorni costeggiando la terraferma somala.

CAP. IV

PRIMI CONTATTI CON IL CONTINENTE AFRICANO
Il 3 Gennaio 1935, verso le ore 13, finalmente arriviamo in prossimità del porto di Mogadiscio, ma per i pericoli continui d'insabbiamento del porto, la nave è costretta a gettare le àncore al largo.
Dopo circa un' ora, inizia lo sbarco mediante barconi che, appunto per le ridotte dimensioni rispetto alla nave, possono entrare nel porto. Il problema in effetti è dovuto al fatto che, essendo il mare un oceano aperto, la forza viva del suo moto ondoso porta continuamente a riva enormi quantità di sabbia che per successivi accumuli obbliga le draghe ad asportarla continuamente per permettere l'ancoraggio almeno a modesti barconi. Inoltre un altro grosso problema con cui dobbiamo fare subito i conti è costituito dal forte vento che ininterrottamente dalle 13 circa fino a notte inoltrata solleva anch'esso grandi quantità di sabbia sottilissima del deserto somalo depositandole dappertutto, anche nei posti più reconditi ed impensabili.
Da quando nel 1889 la Somalia è divenuta Colonia Italiana, Mogadiscio ha assunto un ruolo importantissimo per tutte le spedizioni militari italiane verso l'interno dell'Africa Orientale (vedi Cartine).
Di estensione pari al doppio dell'Italia - 702.000 Kmq. - ma con una popolazione di appena 1.300.000 abitanti circa, la Somalia Italiana si presenta come un grande piano sedimentario e alluvionale coperto da deserto sabbioso, solcato da due grandi fiumi, l'Uèbi Scebèli ed il Giuba, e popolato da ovini, bovini, cammelli ed una ricca fauna selvatica .
Il Governo italiano nutre grandi speranze nel campo della colonizzazione industriale, in quanto la regione, ed in particolare la capitale, sono un ottimo sbocco del ricco retroterra dell' Haràr e del Gàlla e Sidàma; il Villaggio Duca degli Abruzzi ed il nuovo interessante progetto di un porto moderno , ne sono una prova .
La capitale Mogadiscio, con i suoi 50.000 abitanti di cui quasi la metà Italiani, è naturalmente il massimo centro commerciale del Paese e viene chiamata comunemente "Porta Oceanica dell'A.O.I.".
Affacciata sullo spumeggiante Oceano Indiano, la città si presenta d'un chiarore acceso a causa delle bianche costruzioni a terrazza; la diga foranea, il maestoso Viale Vitt. Emanuele e tante altre importanti opere pubbliche in progetto , faranno diventare questa città un altro fiore all'occhiello dell' A.O.I. .
L'entusiasmo, quindi, e l'ansia di conoscere questa strana terra si trasformano ben presto in stupore e meraviglia già fin dal momento in cui ognuno di noi mette piede su questo immenso Continente.
La vastità di questo paesaggio accecante per la chiarezza della sabbia che riverbera i raggi del sole, quì più scottante che altrove, viene interrotta subito dall'avvicinarsi degli indigeni incuriositi per il nostro arrivo.
Nudi come Dio li ha fatti, neri come la pece, uomini e donne ci appaiono come in una scena da film irreale: tutti dalla pelle lucidissima per via di una sostanza prelevata dalle piante e cosparsa sulla pelle per attutire il calore del sole, hanno corpi molto affusolati e slanciati; gli uomini specialmente presentano un atteggiamento tipico dei felini africani, inclinati lievemente in avanti sempre pronti a correre o slanciarsi verso qualcosa o qualcuno.
Per noi, ignoranti delle abitudini di questi popoli, è uno spettacolo decisamente troppo strano per non restare lì come allibiti. Le donne madri portano a loro volta la prole dietro le spalle: alcune hanno il piccolo in posizione eretta con il visino poggiato sulla spalla in modo da poter allattare direttamente dal seno che, per tale abitudine si è talmente stirato da raggiungere persino la spalla; altre invece tengono il piccolo inclinato, sempre dietro le spalle, in modo che il visino intrufolandosi sotto l'ascella della madre possa allattare direttamente al seno cadente.
La visione di tutte queste strane novità è certamente per noi motivo di stralunante stupore e di commenti tra i più disparati.
Comunque, una volta effettuato lo sbarco di tutti gli uomini, veniamo trasferiti con i camion all'interno della Fortezza della Marina Monte Etna chiamato il Lazzaretto; al suo interno ci sono già alcuni accampamenti, ai quali adesso si aggiunge il nostro che realizziamo immediatamente mediante tende: in ognuna di esse alloggiano 25 soldati.
Prima che si faccia il rancio della sera, notiamo una strana realtà: il sole sorge alle ore 6 e tramonta dopo 12 ore esatte, alle 18. Dopo aver consumato il rancio, si va a dormire ponendo una coperta direttamente sulla sabbia ed utilizzandone un'altra per coprirsi.
L'indomani, già fin dal momento della sveglia dobbiamo di nuovo fare i conti con un'altra triste realtà: la sabbia, che troviamo dappertutto; ben quattro dita sulla coperta superiore, dell'altra su quella inferiore, sulla nostra stessa faccia, nel caffè del mattino, in mezzo ai pasti durante il giorno. In pratica, ci si muove sulla sabbia, si dorme sotto la sabbia, si respira sabbia, si mastica sabbia!
La prima adunata viene presidiata da un capitano che senza mezzi termini così esordisce: " Soldati italiani, io mi chiamo Capuzzo, vengo in Africa come Capitano Medico , mentre in Italia ero Console della Milizia e Professore all'Università di Verona. Ho rinunciato a tutto per partecipare alla Campagna d'Etiopia, nella quale sarò aiutato dai sottufficiali quì presenti, sergente maggiore Vitrano e sergente Papa . Badate bene , nessuno di noi sa quanto tempo trascorreremo in questa terra, ma vi assicuro che se voi non mi darete grattacapi, mi comporterò come un padre. Nell'attesa di formare una intera Armata, costruiremo delle baracche di legno, andando a prelevare il legname e quanto è necessario dai depositi esistenti al porto. Si incominci dopo il rancio" .
E così iniziamo quet'opera che ci vede seriamente impegnati non solo nei sei chilometri da fare (tra andata e ritorno) dall'accampamento al porto, ma specialmente nella fatica di portare tutto il materiale. Di questi lavori mi resta a tutt'oggi il ricordo del martello che utilizzo per riparare gli orologi, contraddistinto dalla punta rotta.
Inoltre per una migliore difesa dai grossi insetti e dall'umidità notturna, costruiamo anche delle brande a forbice che consentono perfino di dormire in modo più comodo.
I giorni quindi passano tra varie attività in accampamento, libere uscite in città e passeggiate sulla spiaggia: per recarsi in città bisogna fare 4 km. all'andata e 4 al ritorno, mentre il mare è più vicino e rappresenta un motivo di svago più sentito .
Frequentemente però è lo stesso Capitano che ci accompagna al mare, invitandoci a tuffarci in acqua nudi e divertendosi anche a fotografarci, mentre altri giorni ci conduce nel deserto per catturare uccelli, lucertoloni ed altri animali strani del posto per poi imbalsamarli e spedirli in Italia .
Di questi avvenimenti mi resta qualche vecchia foto che qui appresso accludo ( vedi foto n° 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8 ).
Queste quindi sono le attività che caratterizzano questo primo periodo di vita africana, fino a quando Capuzzo è il nostro comandante; di lui tornerò a parlare più avanti. Un altro particolare importante è rappresentato dalla recita del S.Rosario che io porto avanti ogni sera assieme ai miei compagni di tenda: per loro è senz'altro un qualcosa da raccontare perfino ai loro famigliari quando scrivono a casa.
La Domenica un Sacerdote, don Alfonso Liguori, viene a celebrare la S.Messa all'interno del campo stesso, avendo io il piacere di servirla, mentre qualche volta si preferisce andare in Cattedrale per assistere ai Vespri che si celebrano la domenica alle 16 .
La Cattedrale di Mogadiscio è in effetti una bella chiesa gestita dai Padri Missionari della Consolata di Torino. La prima volta che entro in questo tempio, mi stupisco del fatto di vedervi tante mulatte, visto che il colore della pelle delle donne somale è di un nero piceo.
Allora, per pura curiosità, chiedo ad uno dei padri spiegazione del fenomeno, ed egli mi risponde che quasi tutte sono figlie di padri italiani i quali, tuttavia, hanno preferito abbandonare le loro mamme quand'esse erano ancora piccole ; i Missionari allora le hanno accolte come orfanelle ed oggi però, per ironia della sorte, molte di esse vengono facilmente sposate da soldati, sottufficiali ed ufficiali italiani per via di una recente legge che favorisce con l'assegnazione di un posto governativo quelli che sposano queste donne.
Comunque in questo periodo è il mare che attira molti di noi; io ne sono letteralmente preso forse perché nato e vissuto in un paesino lontano da questa meraviglia della Natura, ma forse anche perché mi affascina la bellezza, la potenza e la vistosità di quelle onde spumeggianti che spesso arrivano anche oltre i quattro metri di altezza, portando a riva tonnellate di conchiglie e forme di vita marine.
Perciò, ora mi piace tuffarmi in acqua per sfidare quasi questo gigante d'acqua che viene contro per poi lasciarmi andare dolcemente dall' onda stessa , ora invece preferisco restare in vigile attesa sulla spiaggia pronto a " rubare " velocemente all'onda quante più conchiglie posso, prima ch'essa se le riporti al largo.
Comunque sono indescrivibili le emozioni che si provano davanti a un Oceano che con la sua immensità e la sua forza ti entusiasma e ti affascina ma al tempo stesso ti fa sentire così piccolo da paragonarti al granellino di sabbia.
Anche le abitudini di vita dei Somali ci attirano, non tanto per come si comportano quanto specialmente per certe usanze del tutto nuove ed immaginabili per noi italiani e per di più cattolici.
Infatti, appartenendo per buona parte alla religione Maomettana, i Somali musulmani usano la strada o l'ambiente in cui si trovano come tempio per pregare, per cui la prima volta ch'io rientro al campo dai Vespri in Cattedrale, resto allibito nel vedere la seguente scena: sull'alto della torre di una Moschea, un santone d'un tratto incomincia a pregare Maometto ad alta voce, con la faccia rivolta verso il sole che sta per tramontare .
All'istante, qualsiasi persona interrompe l'attività qualunque essa sia, si prostra in ginocchio per terra sulla pubblica strada, e si mette anch'essa a pregare inchinandosi con la faccia per terra; cessata la preghiera, ognuno riprende quanto stava facendo prima.
Le sorprese non mancano mai in questo periodo, anche dal punto di vista degli incontri piacevoli, come quello che faccio un giorno per le vie della città.
Mentre cammino guardando ciò che mi circonda, aguzzo la vista e vedo nientemeno che un carissimo compaesano: Pietro Testa; ci salutiamo, ci scambiamo i rispettivi indirizzi dei campi in cui ci troviamo e iniziamo a discutere del più e del meno. Vengo addirittura a sapere che nel campo dove si trova lui, a circa 6-7 Km. dalla città in pieno deserto, ci sono altri compaesani di Campofranco per cui gli prometto che un giorno andrò a salutarli.
Un altro giorno, in un pomeriggio come tanti altri mi reco al mercatino dei negri, subito fuori dal recinto, per comprare delle banane; ormai praticamente mi nutro solo di quelle in quanto tutto il cibo che la cucina ci dà è pieno di sabbia e per poterlo assaggiare sono costretto a lavarlo con l'acqua stessa della pasta.
Nonostante tale operazione preventiva, alla fine si raccoglie ugualmente almeno un cucchiaino di sabbia.
Giunto alla bancarella dopo aver acquistato delle banane, vedo uscire da un " tucul " (la caratteristica abitazione africana costituita da pareti di legno rivestite e coperte da un impasto di fango e paglia visibili sullo sfondo della foto n° 8), alcune persone che portano n morto al cimitero sopra una specie di barella improvvisata chiamata tàlamo.
Io ed altri soldati, incuriositi, li seguiamo a distanza fino a destinazione, dove ci sono altri indigeni ad attenderli. Due di loro, alla vista del corteo, scendono nella buca per attendere il talamo che, una volta arrivato, viene subito poggiato sulla superficie della buca; quindi, i due prelevano il morto e lo depongono in fondo alla buca.
A 50 cm. circa dalla superficie c'è un gradino per sostenere le assi di legno destinate a sorreggere la sabbia di copertura la quale a sua volta viene coperta da uno strato di paglia atta a creare una certa protezione dalla pioggia o comunque un minimo di impermeabilizzazione.
La cerimonia continua con il deposito di una pietra da parte di ogni presente al funerale, in segno di partecipazione al dolore ed al lutto dei famigliari del morto ; subito dopo uno di questi si sposta dal gruppo e appoggia sulla tomba una scodella piena di quanto il defunto consumava ogni giorno, ivi comprese le sigarette. La cerimonia infine si conclude con un banchetto e danze da parte dei partecipanti in onore del defunto.
La scodella con le cibarie viene portata per tre giorni perché gl'indigeni credono che il loro congiunto morto se ne cibi ancora, mentre in realtà gli alimenti vengono mangiati dagl' uccelli rapaci e le sigarette vengono prese dai vari soldati.
Intanto nella Fortezza, i vari accampamenti vanno formando sempre più, ogni giorno che passa, l'aspetto e le dimensioni di un'Armata; sono infatti presenti ormai tutti i corpi di cui è costituito l'Esercito Italiano: Sanità, Artiglieria, Fanteria, Genio, Sussistenza, Milizia, Trasmissioni, ecc.
La nostra Compagnia di Sanità viene chiamata 1° Reparto Autoportato (vedi foto n° 14), perché il suo compito è quello di portare via i feriti dalla prima linea, mentre la Divisione prende il nome di Divisione SS ossia Divisione speciale agli ordini del Generale di Corpo d'Armata Sua Eccellenza Geloso (siciliano della provincia di Palermo) e del Generale di Divisione sua Eccellenza Maletti .
Le attività del campo continuano quindi ad essere sempre più frenetiche ed impegnative in vista delle prossima spedizione verso le regioni interne.
In mezzo a questi impegni militari, cerco di mantenere la promessa fatta allo Zio Pietro anche perché ho tanto desiderio di rivedere i paesani impegnati anch'essi in questa avventura lontani da casa.
Perciò un bel giorno, chiedo il permesso di una giornata e parto alle 6 del mattino alla volta del deserto dove mi attendono le incognite della lunga strada da fare sulla sabbia e il pericolo d'incontrare animali pericolosi ed a me sconosciuti.
Così, dopo ben 5 ore circa di marcia, arrivo finalmente al campo di destinazione; chiedo informazioni dei miei paesani ad una Camicia Nera e questi mi accompagna ad una tenda (solo noi abbiamo realizzato le baracche in legno) dove, con gioia e stupore, trovo: l'amico Testa, Falletta Calogero (soprannominato, Maccarruni), Domenico Buscemi ed altri compaesani .
Essendo circa le 11.00 ci si appresta a preparare la pasta: chi impasta, chi prepara la salsa, chi mette la pentola sul fuoco, ecc. Entro mezzogiorno è tutto pronto e si mangia. Durante il pranzo si parla del più e del meno scambiandosi varie notizie.
Dopo il caffè sono costretto a salutarli in quanto devo impegnare altre cinque ore per il ritorno e non volendo arrivare col buio, devo ripartire subito.
Decidono di accompagnarmi per un pò di strada, poi dopo circa un chilometro, proseguo da solo inoltrandomi nel deserto verso il mio campo. Subito prendo in mano la corona del S.Rosario e inizio a recitarlo. Grazie a degli arbusti che al mattino ho preso come riferimento, riesco a trovare la strada del ritorno.
Sotto la sfera infuocata del sole la sabbia arde e la strada scorre monotona e silenziosa al ricordo di quelle poche ore passate in compagnia. Il deserto, si sa , nasconde mille pericoli i quali non tardano a presentarsi: dopo circa tre ore di cammino, in prossimità di un cespuglio vedo uscire due sciacalli. Non avendone mai visti il mio cuore comincia ad impazzire e per la paura impugno la baionetta per difesa.
Qualche istante dopo spariscono ma io non ancora tranquillizzato decido di attendere ancora qualche minuto. Mi guardo attorno e dopo essermi assicurato che non ci siano altri pericoli riprendo il mio cammino. Dopo aver percorso un pò di strada incontro un negro; non conoscendo le sue intenzioni il mio cuore incomincia a palpitare per la seconda volta. Io ho paura di lui ma lui in realtà ha più paura di me ed avendo visto la baionetta saluta e gira alla larga proseguendo per la sua strada.
Poco più avanti, la mattina avevo lasciato una collina per riferimento ma purtroppo al suo posto ora mi si presenta una pianura. Non avendo bussola mi sento perso ma ecco che il mio autocontrollo prende il sopravvento: mi guardo attorno e scorgo una collina circa mezzo chilometro più a sinistra.
Immediatamente mi avvio verso essa perché se riesco a raggiungerla posso dominare buona parte del deserto in modo tale da poter vedere il monte su cui si trova la Fortezza della Marina.
La salita risulta più faticosa di quanto non pensassi a causa del fatto che ad ogni passo in avanti ne segue mezzo indietro.
Giunto in cima, getto uno sguardo e finalmente scorgo la sommità del tanto sospirato monte. Prendo quella direzione e dopo un' ora circa di viaggio arrivo a destinazione prima che diventi buio ( ore 18.00 circa ) .
Entrato nella baracca trovo tutti che mi attendono per recitare il rosario, ma stanco e affamato preferisco prima consumare la cena che Ferdinando ha preso per me durante la distribuzione avvenuta alle 16.30 circa. Consumo avidamente il rancio e subito dopo iniziamo a recitare il rosario al termine del quale per la stanchezza mi metto a dormire.
L'indomani dopo essermi lavato, aver fatto colazione e messo un pò di ordine nella baracca, chiedo il permesso di andare a lavare i panni e, dopo averlo ottenuto, mi avvìo . Il posto dove si lavano i panni si trova a circa tre chilometri dal campo e si trova a meno di un chilometro dalla costa.
Qui si trovano decine di ventole mosse dal vento stesso le quali hanno una duplice funzione: fungono da pompe per estrarre l'acqua da falde sotterranee e da generatori di corrente elettrica.
L'acqua estratta dalla pompa viene immessa in vasche quadrangolari di metri 4x4, aperte superiormente, alte due metri e con pareti di cemento armato spesse circa un metro. A noi è concesso di lavare in cima al muro a patto che l'acqua sporca non vada a finire all'interno della vasca.
Arrivato trovo qualcun altro che ha già finito di lavare e sta mettendo a posto i suoi indumenti e non appena se ne va salgo io e mi metto a lavare.
Mentre lavo lo sguardo va a finire sul fondo della vasca dove c'è di tutto: federe, mutande, fazzoletti, saponi, ecc., che vi sono caduti casualmente durante i vari lavaggi di panni. Non volendo lasciare tutta quella roba, decido di tuffarmici dentro e di andare a prenderla; uscito, raccolgo il tutto e faccio ritorno al campo.
La giornata passa senza particolari eventi, dedicandomi alla riparazione di orologi (vedi foto n° 15).
Ogni volta che riparo orologi tutti i miei compagni mi attorniano per osservare attentamente quello che faccio, tanto che un giorno il mio amico Di Vita mi chiede di insegnargli questo bel mestiere .
"E' una parola!" rispondo io; " Se tu vuoi imparare, quando dirò al padrone di un orologio che non si può più riparare, tu gli domandi se te lo può vendere, dopo di che avrai l'opportunità di incominciare ad imparare a smontarlo e rimontarlo".
Nonostante la sua buona volontà, passano i mesi senza esito positivo e allora gli consiglio amichevolmente di lasciar perdere.
Intanto cominciano a portarmi anche macchine fotografiche che si inceppano a causa della sabbia che penetra negl'interstizi, bloccando l'obiettivo. Man mano che le riparo comincio ad appassionarmi di queste graziose macchinette e decido di acquistarne una anch'io.
Un giorno scendo in città, mi reco da un rivenditore e compro una AGFA 6x9 carica di rullino e con l'autoscatto incorporato.
Euforico comincio a scattare le prime foto in città per provare se funziona tutto regolarmente e per vedere la qualità della macchina. Esaurisco in breve tempo il rullino e lo porto dal fotografo per farlo sviluppare e ristampare; approfitto poi dell'occasione per comprarne un altro.
Dopo qualche giorno torno per ritirare le foto e il fotografo nel consegnarmele mi domanda se sono del mestiere ; al che, sorpreso, gli rispondo: " No, non sono fotografo. Ma perché mai lei mi fa questa domanda ?"
- "Perché le sue foto sono fatte talmente bene che eguagliano quelle di un professionista", conclude lui. Allora io orgoglioso di questo complimento, pago e me ne torno nell'accampamento.
Durante questo periodo accadono tante cose di cui mantengo tuttora vivo il ricordo e che ormai sono dei veri e propri aneddoti; uno di questi, ad esempio, fa riferimento alla barba.
In particolare succede che i soldati tutte le sere chiedono il permesso di poter restare fuori fino alle ore 23,00 ma in effetti alcuni di loro metodicamente rientrano non prima delle 4,00 del mattino.


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