Pino Provenzano scultore della natura


Nato a Milena nel 1945 e residente a Caltanissetta, Pino Provenzano ha esposto a Sutera le sue sculture di legno nell’auditorium comunale a partire dal 4 agosto. A giugno era presente alla XIII Biennale di Roma presso la galleria Cassiopea ed a maggio ad Acate, in provincia di Ragusa, nel castello dei principi di Biscari. Pino è stabilmente collegato all’associazione Arte e Tendenza di Caltanissetta (presidente Enzo Falzone), Arte e Cultura di Palermo, Arte più Arte di Roma (pres. Giovanni Maggi), l’Accademia Internazionale “Greci-Marino” del Verbano (sede a Vercelli). Presumibilmente concluderà l’anno con una mostra a Nizza, in Francia.
Ma perché tanto interesse per Pino? E perché tanto interesse, di Pino, per gli alberi delle nostre campagne?
Quando gli dissero che, se voleva, poteva andare in pensione oppure resistere ancora in servizio qualche anno, Pino non stette a pensarci su molto e scelse di dedicarsi a tempo pieno ai suoi hobby: scolpire le radici degli alberi e, quando le braccia indolenzite non reggevano gli attrezzi, dipingere. Il salto nella noia o nella depressione, spesso conseguente all’entrata nel club dei “nullafacenti”, incubo paventato dalla moglie, non si è verificato. Quando spalanca le porte del garage dove, in un angolo, sono ammucchiate un bel po’ di radiche di ulivo, i condomini di palazzo si raccolgono a guardare, commentare e suggerire. Pino ascolta, anzi non ascolta, apprezza la compagnia: ma decide da solo. Le discussioni più interessanti avvengono a casa, con la moglie, partecipe dei progetti e con la quale conviene soltanto se anche lui alla fine, nella materia grezza, intuisce le stesse potenzialità. Il deposito delle radici candidate a diventare oggetto di lavorazione, mentre aspettano la stagionatura che può richiedere anche otto anni, è a Milena, nella casa paterna, da cui partiva ragazzino per le sue escursioni che lo hanno educato, col tempo, ad un’intima conoscenza dei nostri alberi e delle pietre, modellandone gusti, abitudini, mentalità.
Ancora oggi cammina per le campagne in tutti i periodi dell’anno. Se è tempo di caccia porta il fucile, ma poi si lascia distrarre ad osservare le piccole cose; ed alla fine dal tascapane, anziché il coniglio, esce fuori più spesso una pietra, una radice d’albero o un tronco in cui ha già intravisto qualcosa. Perché la scelta dell’oggetto da lavorare è immediata, anche se poi dovrà aspettare degli anni per la stagionatura ottimale del legno.
Le radici più belle sono quelle di ulivo: più sono stagionate e più risaltano le venature che danno vita ai disegni originali della natura, che non è disposta a rivelarne alcuno prima che siano passati, almeno, tre anni. Ma neanche gli alberi di ulivo sono veramente eguali. Una radica di vent’anni è marroncina; se passa i cinquanta è rossiccia; se l’albero è cresciuto per almeno cinque anni accanto ad una sorgente o in acqua abbondante, la coloritura è molto chiara, quasi bianca.
Altra è la radica di noce, meno dura dell’ulivo ma più compatta. La sua lavorazione è faticosa, dopo molti sforzi è possibile asportarne solo una parte davvero piccola. Viceversa l’ulivo, benchè più duro, è delicato: se sbagli l’intensità del colpo va via un grosso pezzo e tutto il lavoro fatto è da buttare via. La compattezza della noce è tale che nessuno vuole tagliarne i tronchi con le attrezzature elettriche perché si rovinano le lame.
Altre radici che Pino ama usare sono quelle del mioporo, l’arancio, il mandorlo o la rosa. Le scalfisce con le sgorbie, su cui picchia con dei martelli di gomma che permettono di dosare l’intensità del colpo, ma anche di attutire i colpi qualora dovessero finire su qualche braccio o sulle dita (quello è forse il momento di passare alla pittura, come nei momenti di stanchezza da fatica). L’altro attrezzo è il trapano.
Nelle sue decisioni creative si lascia tentare solo dalla natura, quando la forma è tale che chiede da sé di uscire fuori ed essere modellata; altre volte è lui che imprime una forma a suo giudizio. Così escono fuori di volta in volta un serpente (il primo ad essere rappresentato, benché da piccolo lo detestasse), il cane (suo compagno di caccia), la colomba o la lepre spesso osservate; ma anche la scimmia o animali preistorici come lo stegosauro o il dinosauro, il picchio. Tra le cose sono soprattutto i castelli o i caseggiati nostrani; ma se in qualche parte dovesse immaginarvi qualche figurazione fantastica, non si fa problemi di compatibilità col resto della composizione. A volte la creazione è finalizzata ad una utilità pratica e diventa un portapenne o un portabastoni. Raramente tuttavia la radica assume una forma umana.
Finita la lavorazione, e soddisfatto l’artista, la radica è sottoposta ad un triplice trattamento per risaltarne i colori o favorire la conservazione. Dopo viene tenuta all’ombra per una decina di giorni.
Così, finalmente, è pronta per essere offerta alla gioia degli occhi con i suoi colori e chiaroscuri; e della mano.

Mario Tona
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