Semi di senape
La sapienza si riconosce dalla gioia


Stavolta nasce da un’esperienza diretta il concetto che desidero formulare; a Main, sobborgo della città di Màdaba, ho conosciuto Padre Benedetto, un monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata. Un pellegrinaggio, compiuto in aprile scorso insieme a parte del clero nisseno, sotto la guida del nostro vescovo mons. Russotto, ha messo molti di noi a contatto della traboccante gioia di 12 monaci, fra uomini e donne. Essi vivono in una Nazione (la Giordania) a maggioranza musulmana e sono consapevoli che la loro presenza e la loro attività è, su un piano oggettivo, qualcosa assai limitata. Eppure questi dotti monaci che collaborano con Edizioni italiane di alto profilo scientifico sono lieti di vivere laggiù dove nel 1983 Giuseppe Dossetti, ex dirigente della Democrazia cristiana, poi sacerdote e monaco, ha desiderato aprire la via dei rapporti con l’Oriente.
La sapienza di tali monaci che studiano le Scritture e la cultura islamica, celebrano in arabo, condividono la vita con la popolazione locale, ha una qualità che li distingue: la gioia. Essa è un sentimento stabile e sereno che mette il cristiano in grado di offrire anche la vita per il martirio. La gioia sgorga da una sapienza di vita che non poggia su sublimità di linguaggio e potenza di persuasione, ma su una consapevole debolezza offerta a Cristo che si è immolato in croce. Per questo motivo san Paolo apostolo nella sua polemica con la comunità cristiana di Corinto accetta sì di considerare Cristo Logos e Sophia di Dio, purché tale mistero sia fondato sulla croce (cf. cap. 2 di 1 Cor).
San Paolo s’esprime sul mistero della sapienza divina e riconosce come tale disegno si sia realizzato nella storia; l’Apostolo delle Genti dà una spiegazione della sapienza come mistero del Dio che si svela nel tempo degli uomini. Ottenere la virtù della sapienza è raggiungere il vertice della conoscenza religiosa. «Noi annunciamo sia alle Genti sia ai Giudei Cristo potenza (dynamis) e sapienza (sophia) di Dio»: è la linea in cui si attesta Paolo per rendere intelligibile Dio (cf. 1 Cor 1, 23-24).
Senza trascurare le qualità della conoscenza (gnosis) umana, Paolo ribadisce che apice della conoscenza di Dio non è la speculazione teorica, ma l’assimilazione al mistero della croce. Unitamente al Cristo che soffre si può accettare con gioia di soffrire afflizioni e persecuzioni. L’episodio della prima evangelizzazione di Paolo perseguitato fra i pagani e gli ebrei di Antiochia di Pisidia, si conclude dicendo «i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo» (Atti 13, 52).
Del resto Paolo apostolo di fronte alla rivelazione del Risorto accetta di piegarsi alle cose modeste e umili; l’intera sua sapienza, che proviene dal dotto rabbinismo di Gamaliele, è convertita all’intelligenza dell’umiltà che rende il Dio crocifisso intellegibile. Paolo desidera essere fervente e sapiente nelle cose del Signore Gesù; nel cap. 12 della Lettera ai Romani il pio Israelita delle Diaspora, ora apostolo di Cristo risorto, offre un insegnamento luminoso sulla carità reciproca e sull’umiltà fra i cristiani. Per Paolo gli uomini perfetti e spirituali sono coloro che sono giunti alla piena conoscenza della vita secondo lo Spirito. La gioia è frutto dello Spirito Santo (Gal. 5, 22).
Il motivo della gioia è legato pure alla speranza escatologica, cioè agli eventi ultimi e al Giudizio finale. Per capire questo concetto prendo l’avvio dal ritorno in vita del figlio della vedova di Nain (Lc. 7, 11-17). Il fanciullo risorge e tutti i presenti sono presi da timore e nello stesso tempo lodano Dio. Si nota che la paura deriva dal vedere cose straordinarie (per un fanciullo sembrava ormai finita la vita), poi segue la meraviglia e la gioia che spinge a glorificare Dio (per aver visto un’opera di giudizio e di gloria).
Luca è in effetti l’evangelista che parla più volte della gioia, in specie nel cap. 15 del suo Vangelo; negli Atti degli apostoli si nota pure che la gioia distingue coloro che hanno sofferto in nome di Gesù. Quella paura (phobos) mista a meraviglia, che caratterizza i discepoli tutti nel vedere i segni compiuti da Gesù, in seguito al dono dello Spirito di Gesù risorto diviene motivo di gioia e sapienza. Non a caso la paura già nel giudaismo era un motivo per gioire, perché dà prova che giunge il Giudizio divino; questo concetto torna pure in Apoc. 12, 12: «esultate o cieli e voi che abitate in essi» e Apoc. 18,20 «Esulta o cielo su di essa [Babilonia distrutta], e voi santi, apostoli, profeti, perché condannando Babilonia Dio vi ha reso giustizia!». Si arriva ad una formula paradossale: gioire come se non si gioisse (1 Cor. 7,30), perché la gioia è motivo di prepararsi alla morte e alla vita eterna.
Se i cieli sono invitati a rallegrarsi per il Giudizio, tanto più l’uomo gioisce per l’avvento ultimo di Dio; perché in effetti grande è la gioia nel cielo per un peccatore che si converte! Il tempo di Pasqua è in verità un tempo dello Spirito Santo e la festa liturgica di Pentecoste segna questo traboccare di sapienza e gioia della Chiesa intera. Accogliamo allora la speranza che «Dio non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche d frutti, fornendovi di cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori» (Atti 14, 17).

Don Salvatore Falzone


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