Racconto per l’Estate
LA CANDELA
Non so quanti anni avessi quando andai al funerale di Sarò Buti, ma vi assicuro che era la prima volta che assistevo ad un funerale. Costumava da tempo immemorabile che, alla morte di un cristiano, o un parente o un incaricato distribuisse davanti al sagrato della chiesa, una candela a testa a tutte le persone che partecipavano alla cerimonia, fossero parenti, amici o estranei.
La candela si accendeva quando la salma usciva dalla chiesa, portata a spalle da uomini robusti e vento permettendo, restava accesa per tutto il tragitto, fino all'ultima casa dell'abitato in direzione del cimitero.
A quel tempo il mio paese non aveva ancora la luce elettrica. Di sera le case erano illuminate da lumi a petrolio, che spesso un membro della famiglia portava con se da una stanza all'altra per le proprie necessità, lasciando gli altri al buio.
In quei momenti bisognava aver pazienza ed aspettare che il lume fosse ricollocato sul tavolo o meglio ancora su una apposita scansia che, essendo più in alto, illuminava meglio il tetro ambiente.
Beato chi poteva spendere e di lumi ne aveva due. Sull'economia della casa infatti, oltre al valore del lume, a volte un vero capolavoro in vetro o ceramica, incideva anche il consumo di petrolio.
In quelle condizioni di miseria e disagio, anche un mozzicone di candela aiutava in qualche modo a passare la serata e, qualcuno ne faceva incetta durante i funerali.
Ricordo un vecchietto vestito di nero, calvo e magro come un osso che, dopo averne afferrata avidamente una ed averla nascosta nella tasca interna della giacca, corse a prenderne un'altra facendosi largo a gomitate tra la folla che diceva: «Una a me, una a me!».
In un batter d'occhio ne prese quattro, quattro viaggi, quattro candele, tante gomitate. Quando vide che la distribuzione era finita svicolò dietro la casa della Maestra Rina e Don Gesué se ne tomo a casa soddisfatto.
La condotta di quel vecchio mi parve un insulto, una mancanza di rispetto al morto, come se avesse defraudato uno che non poteva più difendersi. Odiai quel vecchio e tutte le volte che l'incontravo per le vie del paese lo maledicevo, e lui non sapeva perché.
Non è che tutta la gente andasse ai funerali solo per portarsi a casa una candela o il mozzicone che ne rimaneva dopo le esequie, ma a quel tempo la miseria era tale, in quasi tutte le famiglie, che non c'è da meravigliarsi se qualcuno lo faceva davvero.
Gli adulti erano in genere buoni cristiani e non mancavano del senso di pietà per chi lasciava questo mondo; non altrettanto i ragazzi sotto i dieci anni, quanti forse ne contavo io allora.
Non so chi mi avesse suggerito quella volta di andare al funerale. Certo non mio padre, che lavorava nella sua officina dal mattino presto fino a sera tarda; e neppure mia madre poverina, che tra rattoppare calzini, lavare, stirare e rivoltare abiti, impastare il pane e fare fuoco nel forno per sfamare nove persone, tante quante eravamo in casa, non le rimaneva tempo di pensare a queste cose.
Forse anch'io ci andai per la candela, ma non ne sono certo. Però ricordo bene che mi chiesi a che servisse una candela accesa ad un morto che non aveva più bisogno della luce. Ricordo anche però che tornai a casa raggiante, col mio mozzicone di candela spenta.
Lontano dal mio paese ormai da decenni, ci tornavo ogni tanto per una breve vacanza.
Una volta, ormai in pensione da più di quindici anni, ci andai che era autunno inoltrato. Il due di novembre entrai nell'unico negozio del paese, comperai un pacco di lumini, uno di candele e mi avviai verso il cimitero. Là sono sepolti tutti i miei.
Percorsi a piedi tutto il lungo stradone polveroso e, come quella prima volta di settant'anni prima, mi chiesi di nuovo a che servisse accendere lumini e candele di fronte alle lapidi dietro cui ci aspettano i nostri morti. Cercai una risposta senza trovarla, mi proposi di parlarne ad un amico sacerdote, ma poi non ne feci nulla.
E' chiaro che un morto non sa che farsene di una candela accesa: «Servono a noi» pensai. Forse quelle fiammelle rappresentano almeno la speranza, se non la certezza, che non tutto finisca con la morte del corpo, e simboleggiano la parte incorruttibile, immortale della vita umana. Proseguii per il cimitero, fidando che la mia convinzione avesse un fondo di verità.
Dopo essermi soffermato a pregare davanti alle diverse tombe dei miei familiari, volli fare un giro nella parte vecchia del cimitero.
Osservavo con mestizia le tombe gentilizie ormai semi diroccate degli antichi signori del paese, qualche croce ancora sparsa qua e là nel campo centrale ed infine i più miseri loculi ricavati nel muro di cinta. Guardai le fotografie ingiallite dal tempo, con le immagini spesso irriconoscibili.
Leggendo nomi, cognomi e date di nascita e di morte, provavo a ricordare le persone come le avevo conosciute in vita, ma talvolta quei ricordi erano vaghi, sfumati.
Poi all'improvviso un nome che non avevo mai dimenticato: Sarò Buti. Riemerse il ricordo del suo funerale e con mia sorpresa, appena un metro più in là, vidi la foto e il nome di Pietro Cane, il vecchietto che sul sagrato della chiesa aveva fatto man bassa di candele, senza poi partecipare alle esequie.
Il loculo di Pietro Cane era trascurato, in basso, a livello del terreno, invaso da ciuffi d'erba.
Forse non aveva più parenti e la cura dei suoi resti mortali era affidata, più che al custode, al buon cuore della gente.
Il mio rancore era già sbollito da decenni, misi due candele sugli appicchi, una al Buti ed una a Cane e le accesi.
Antonino Morreale
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