Racconto per l’estate
La Pipa
di Antonino Morreale


Mio padre era ghiotto di pasta con le fave; fave verdi s'intende, tenere come piselli, con una bella grattugiata di ricotta salata sopra. Era un piatto irresistibile, per cui avrebbe rinunciato, che so, a una bella coscia di coniglio al sugo (beato chi poteva averla) o perfino alla testa del coniglio, che per lui era la parte più squisita. Gli piaceva spolparsela coi denti, succhiandone intingolo e midolla, manco fosse una caramella o un pezzo di cioccolata. A me invece, solo a vederla una testa di coniglio nel piatto, dava già allora un senso di orrore. Oh, i gusti sono gusti e non si discutono, ma torniamo alle fave verdi. La stagione buona per mangiarsele assaporandone la bontà è molto breve, dura si e no dieci o quindici giorni, perché una volta indurite cambiano sapore e nessuno le vuole più. Quell'anno la primavera era stata piovosa e già tutte le coltivazioni erano in ritardo sulla stagione. Poi, la chiusa che la mia famiglia possedeva vicino al paese era tutta alberata di mandorli e le pianticelle delle fave che crescevano alla loro ombra, erano sempre le ultime a maturare. Mio padre, che vedeva passare la stagione senza averne ancora assaggiata una, scalpitava d'impazienza.
Nella sua bottega di fabbro passava molta gente durante l'inverno. Per lo più contadini suoi clienti che andavano a comprare o a farsi riparare gli attrezzi per lavorare la terra. Alcuni erano degli habitué, ci andavano anche per scaldarsi un momento al fuoco delle due fucine, che erano sempre accese ed esalavano il loro nero e venefico fumo. Fra i tanti uomini che frequentavano la bottega, faceva di tanto in tanto capolino sull'uscio anche una donna che io conoscevo col nomignolo di «Cippa», una donnetta magra ed energica, con il volto bruciato dal sole e due occhi neri, lucidi e penetranti, capaci di sfidare qualunque sguardo. Aveva pressappoco l'età di mio padre; da bambini dovevano aver giocato assieme, perché lei si soffermava a parlargli confidenzialmente, anzi ricordo che gli dava del tu; lo chiamava «Pè», Giuseppe, come fosse un familiare. Allora io, bimbette, lasciavo la pedivella del mantice e invece di soffiare sul fuoco andavo ad sentire quello che si dicevano. Non ricordo neppure una parola, ma più che dai loro discorsi ero attratto dal regalino che la Cippa mi portava sempre dalla sua campagna. Un frutto di stagione, una primizia: un arancio, un po’ di fichi freschi e dolci come il miele, un pugno di piccole pere, un fico d'india o un «cucummaro», il tipico cetriolo siciliano. La prima cosa che la Cippa mi diceva appena mi vedeva arrivare era sempre la stessa: «Lo sai che siamo parenti?» Evidentemente ci teneva a quella parentela, visto che insisteva a ripetermelo ogni volta. Poi continuava: «Pure io mi chiamo Morreale come tè.» e mi metteva la mano sulla testa, carezzando amorevolmente i miei capelli a spazzola, mentre io la guardavo senza dire parola. Suo marito era morto giovane e lei non aveva esitato a prendere le redini della famiglia e la zappa in mano per coltivare la terra, poca ma buona, che possedeva nella contrada del «Lavatore», dove la sorgente d'acqua solfurea le consentiva di produrre tutto quel che voleva. Del marito della Cippa non rammento neppure il nome e ne ho un ricordo piuttosto vago, forse il più lontano della mia infanzia. Deve risalire al 1919, tutt'al più al 1920, il viaggio che facemmo con lui da Montedoro a Canicattì, città natale di mia madre. La novità della partenza e l'ansia di conoscere l'unica nonna ancora in vita, mi avevano messo una tale frenesia addosso che passai quasi tutta la notte sveglio. Mio padre, che andava per comperare ferro e carbone, aveva preso a nolo un carro e partimmo in piena notte per essere a Canicattì giusto all'alba. Eravamo in quattro; io, mia madre, mio padre e il carrettiere che era appunto il marito della Cippa. Appena fuori del paese, sulla via malamente rischiarata da una pallida luce lunare si sentiva il canto sgraziato di una civetta che sembrava accompagnarci lungo il tragitto. Ebbi paura, mi accostai a mio padre e infilai la testa sotto il suo mantello, protetto dal quale mi sentii più sicuro.
Dopo un paio di chilometri abbandonammo la provinciale e imboccammo la trazzera, una scorciatoia dal fondo mal concio e sassoso. Il carretto cominciò a traballare e mia madre voleva tornare indietro. Mio padre non si lasciò convincere e il viaggio proseguì barcollando a destra e a sinistra; dopo mezz'ora raggiungemmo il Gallo d'Oro. Non c'era nessun ponte per scavalcare il corso d'acqua, ma il torrentello vi faceva scorrere pigramente appena un palmo d'acqua. Dove la trazzera attraversava il letto del fiume, c'era una robusta massicciata di pietre, ma ai suoi lati si erano formate due grandi «nache» con il fondo fangoso dove l'acqua raggiungeva anche il metro d'altezza. Il mulo che trainava il carretto, forse per il buio o perché mal guidato, deviò a destra e il carro si inclinò paurosamente da un lato. Le grida di spavento di mia madre, che aveva paura di cadere in acqua, intimorirono anche me, mi aggrappai a lei e non la mollai fin quando mio padre, toltisi i pantaloni e sceso in acqua, mi prese a cavalluccio e mi trasbordò sull'altra riva del fiume; poi fece lo stesso con mia madre. Ricordo la confusione, gli strilli, le imprecazioni del carrettiere contro il mulo e le sferzate sulla groppa per incitarlo a tirare il carro infossatesi nel letto del fiume. Su consiglio di mio padre, anche il suo amico carrettiere si tolse i pantaloni e scese in acqua per alleggerire il carro poi, preso il mulo per la cavezza provò di nuovo a incitarlo, mentre mio padre spingeva da dietro. Fatica inutile, il carro non si mosse neanche di un centimetro. Tra preghiere e imprecazioni venne finalmente l'alba e con essa anche dei contadini che si prestarono gentilmente a darci una mano. Due alle ruote, due da dietro, quattro scudisciate al mulo accompagnate da urla, ed il carro si disincagliò uscendo dalla naca. Il viaggio proseguì lentamente, traballando, ma arrivammo incolumi a Canicattì. La Cippa aveva trefigli, tutti più grandi di me, uno dei quali aveva già più di vent'anni e la nomea di brigante. Tutti lo chiamavano Cippo, lo stesso nomignolo della madre, di cui non ho mai saputo il significato. Allora solo a vederlo mi tremavano le gambe, ma a pensarci bene, ora che sono vecchio, devo dire che non aveva per nulla l'aspetto di un brutto ceffo, anzi era un bei giovane di statura media, con i capelli e i baffi rossicci, di facile colloquio con gli altri adulti. Ma io, a quel tempo, avevo la testa piena di racconti di malefatte brigantesche e il Cippo non poteva che mettermi paura, solo a vederlo. Si diceva che fosse stato per qualche tempo in carcere e questo non faceva altro che alimentare in me, paura e diffidenza. Dopo la morte del padre, forse per fedeltà alla parentela a cui sua madre teneva tanto, rimase cliente di mio padre. Così d'inverno, se per la pioggia non andava a lavorare nei campi, veniva anche lui a scaldarsi al fuoco delle fucine e a chiacchierare con gli altri contadini. Al tempo delle fave verdi ne portava sempre qualche sacca a mio padre, perché sapeva che ne era goloso.
Quell’uomo, un giorno di-fine aprile, venne in bottega per ferrare il mulo e mio padre gli disse: «Niente fave quest'anno!». «Chini su li curnicchia; sa ci manna lu carusu!» Rispose il Cippo. Lu carusu ero io, avevo otto anni e mezzo; era il 1923. La proposta di mandarmi a raccogliere le fave mi mise in agitazione. Mi sarei trovato faccia a faccia col Cippo senza nessuno attorno e ne avevo paura, ma non dissi nulla a mio padre. Così il mattino dopo, con un gran tascapane a tracolla, partii per «Portella dei Lupi», una contrada abbastanza lontana dal paese. Sapevo qual era la sua chiusa, perché l'anno prima c'ero stato con mio padre a raccogliere fave e piselli. Quando arrivai mi guardai attorno, sbirciai l'interno del pagliaio per vedere se c'era il Cippo, mi parse che non c'era e mi misi al lavoro di buona lena. Quando rimisi a tracolla il tascapane ormai pieno, fui attirato da un'enorme pianta di carciofi. Non era una pianta sola ma un gruppo, una accanto l'altra sembravano una sola enorme pianta. Carciofi spinosi grossi come pigne spuntavano tra le foglie; non ne avevo mai visti di così grossi, e fui tentato di raccoglierne uno, ma non avevo un coltello e dovetti rinunciare. Ma mentre frugavo nella macchia vidi luccicare la canna di un fucile simile a quello che portavano i carabinieri. A casa nostra non c'erano armi, e non so perché in quel momento mi venne voglia di prenderlo e tenerlo per qualche istante in mano, come se fosse un giocattolo.
Ricordo che feci appena in tempo ad afferrare la canna. Un fruscio di frasche bloccò i miei movimenti, poi sentii una mano robusta che mi afferrava per il collo, stringendolo come una morsa. Cercai di voltarmi e vidi, di sbieco, la faccia incollerita ma ghignante del Cippo. Mi tirò fuori dalla macchia con uno strattone, poi mi si piantò davanti a gambe larghe, puntò l'indice tra il naso e la bocca e mi disse: «Pipa o sei morto!».
Non capivo da dove diavolo fosse spuntato fuori; ero come impietrito, incapace di parlare. Allora il Cippo mi afferrò per i capelli e scuotendomi disse: «Capisti?». Terrorizzato dal suo sguardo non risposi, ma feci segno di si con la testa.


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