Semi di senape
La radice santa
Nel periodo dell’Avvento e del Natale si rivolge l’attenzione alla genealogia di Gesù; un’espressione biblica fa così: «in quei giorni uscì una radice dalla tribù…». È un modo di esprimere la speranza di liberazione di una famiglia, di una tribù o di un popolo. Ad esempio il libro di Giuditta, seppure non abbia un carattere storico, riporta il modo di concepire la speranza di un popolo per liberarsi dal dominio degli Assiri. Ecco gli elogi rivolti a Giuditta, che è riuscita con successo contro Oloferne: «Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra gente». Sono parole che poi nella tradizione cristiana sono riferite a Maria, la madre di Gesù e che nella liturgia sono proposte in festività esemplari, come la nascita della Vergine e la sua immacolata concezione. Il caso opposto si comprende subito: «uscì una radice perversa» dai dominatori siriaci; cioè, Antioco Epifanie (1 Mac 1,10).
Il senso dell’onore e la ragione di gloriarsi è vissuto nel mondo ebraico come una manifestazione della potenza di Dio; tanto che il termine ebraico kabod significa sia gloria sia peso, o meglio l’uomo che ha un valore “ha un peso” nella società e dunque merita onore. Tanto più di Dio la sua sovranità si manifesta come “possanza gloriosa”. È nel vangelo di Giovanni che meglio si racconta e manifesta la gloria (doxa) del Verbo incarnato. Questo mistero così grande nei vangeli sinottici è manifestato attraverso i racconti del Natale; nel quarto vangelo è raccontato in modo mistico e sacramentale. Durante un dibattito con i Giudei circa l’origine da Abramo, Gesù replica di onorare il Padre e di ricevere gloria da Lui:«io non cerco la mia gloria… chi mi glorifica è il padre mio» (vedi per intero Jo 8,48-58).
È un concetto diverso da quello derivato dal contesto della società siciliana, dove “onore” esprime più la salvaguardia rispettosa e prudente dell’integrità femminile e di conseguenza i comportamenti “onorevoli” che si adottano tra l’uomo e la donna. In una commedia agiografica su santa Rosalia, L’eroina d’Oreto di F. Orioles, leggiamo ad esempio «Lo so, che per la prole / necessario è tal nodo [il matrimonio]; / piace meglio a Dio / d’un petto verginale il bel candore; / dei fiori il primo fior dono è migliore» (III,10). Più avanti però della vergine siciliana che ha deciso di votarsi a Dio, si commenta : «Amico, / qualor di colpa è privo / d’una vergine il petto / è di Dio sacrificio, è tempio eletto» (III, 13). È una testimonianza di una mentalità del nostro ambiente sociale nel quale si inserisce il mistero della consacrazione a Dio.
Il mistero della salvezza ha comportato per l’uomo sia la liberazione dal peccato, sia la sua glorificazione; sono stati più i teologi greci orientali a comprenderlo e a svilupparlo che i teologi latini occidentali. In altre parole, nell’Oriente cristiano, influenzato dalla filosofia, è più sottolineato il mistero dell’uomo e della natura glorificati nel Verbo incarnato, mentre nell’Occidente, influenzati dal diritto, è prevalsa una comprensione del mistero di Cristo come redentore dal peccato e dalla corruzione in cui vive l’uomo. Queste differenze di accenti si sono trasmesse fino al Concilio Vaticano II.
Si può dire che la santificazione dell’uomo sia come un innesto praticato da Dio; sulla pianta selvatica, ad esempio la vite, si pratica un’incisione e si inserisce la gemma di una vite in grado di dare buoni frutti. In tal modo da una radice e da un tronco ancora tenero si ottiene una gemmazione nuova.
San Paolo porta l’esempio dell’olivastro che innestato diviene un olivo in grado si dare i suoi frutti (Rom 11,16-24). L’Apostolo delle genti usa tale analogia per spiegare il rapporto tra il mondo giudaico e i credenti venuti dal mondo pagano. Paolo trova che l’antica radice è una base di sostegno valida per la nuova linfa che circola nell’albero; come la linfa è vita per il cristiano, che sia di origine giudaica o romana, così la grazia di Dio è il dono della vita nuova.
A volte si è insegnato che la Chiesa sia il vero e nuovo Israele; questo non è del tutto vero se si intende escludere dal mistero della salvezza divina il popolo giudaico. C’è una festa, dal sapore natalizio, chiamata festa della presentazione di Gesù al Tempio; per tale occasione Sofronio di Gerusalemme, vissuto nel VII sec., concludeva così un’omelia: «Vedemmo con gli occhi il Dio fatto carne. E proprio per aver visto il Dio presente fra noi ed averlo accolto con le braccia dello spirito, ci chiamiamo nuovo Israele» (Discorso 3, sull’Hypapante 6,7). Bisogna accettare e credere che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, ma non in contrapposizione a quello ebraico che pur mantiene l’Alleanza, le Promesse e la Legge. Non esiste infatti un “vero Israele” in contrapposizione ad un “falso Israele”. Dispiace molto che nella tradizione cristiana siano stati alimentati sentimenti di antigiudaismo.
In età contemporanea a partire dal Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica ha compiuto dei passi in avanti nei riguardi dell’Ebraismo; rigettando l’antisemitismo, ha riconosciuto che il popolo ebraico è ordinato a far parte del popolo di Dio e che la Chiesa non può escludere gli Ebrei dal cammino di elezione. (cf. Nostra aetate, 4; Lumen gentium, 16; Dei Verbum, 14-16).
Tutto ciò ci conduce ad avvertire il mistero della salvezza come una dimensione radicale ed straordinaria. Nel mistero della santificazione, come espressione che nobilita, dà valore all’uomo ed introduce nella gloria divina, c’è pure una Edith Stein, una donna tedesca nativa di una regione, la Breslavia, popolata pure da orientali; una ebrea filosofo, divenuta dopo la sua conversione al cattolicesimo monaca carmelitana; una donna che è stata condotta a morire ad Auschwitz per la sua radice giudaica e che la Chiesa cattolica onora come vergine e martire.
Don Salvatore Falzone
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