Memorie d’Africa
(1.1.1936 – 4.10.1946)
di Giuseppe Scannella
15a puntata


Con la valigia mi avvio a piedi verso l’Ospedale, voltandomi indietro più volte fino a quando non vedo più la casa ed i miei. Quello stesso Ospedale che, nonostante tutto è stato per tanto tempo il luogo del mio lavoro, dove ho prestato la mia opera con dedizione ed orgoglio, ora mi riempie di paura e di angoscia, ancor più di quanto non ne ho provato nei momenti più drammatici. La notte, poi, con il suo tetro fardello di silenzio e buio, non passa più; mille brutti pensieri si mescolano alle ansie più tristi: tutto diventa opprimente.
L’assoluta ignoranza di quanto dovrò affrontare e delle condizioni di vita alle quali gli Inglesi ci sottoporranno; la preoccupazione per quanto accadrà alla mia giovane moglie con due bambini cui accudire in una terra che torna ad essere verso di noi occupatori più ostile di prima; una casa ed un esercizio ben avviato, con un capitale di tutto rispetto; e tante altre considerazioni che si allontanano per poi tornare ancora sottosfumature sempre diverse e più terrificanti.
Questa è decisamente la notte più triste e drammatica della mia vita, la notte che come un vero e proprio uragano tutto avvolge, sconvolge e travolge, fino a sentirmi sballottolato nel bel mezzo di un vortice dal quale sembra non uscirne più. Il suono della sveglia invece mi richiama alla nuova realtà di prigionieri di guerra in mano a quegli Inglesi che abbiamo combattuto fino a non molto tempo fa.
Dopo una colazione a base di caffè, veniamo messi tutti in riga per l’appello che secondo un certo ordine ci invita a salire sui vari camion in partenza per Addis Abeba.
Dopo quasi un’intera giornata di viaggio, arriviamo nella capitale dove ci fanno sistemare all’interno dell’ippodromo; in pratica veniamo sistemati a gruppi in baracche contenenti solo il letto per dormire. Consumata una modesta cena, si va a dormire fino allo spuntare del nuovo giorno: il 23 Giugno 1941; in attesa di essere trasferiti in un altro campo di ammassamento, ognuno di noi va in giro da una baracca all’altra alla ricerca disperata di qualche amico o conoscente con cui consolarsi in questo nuovo triste ambiente.
Purtroppo, nonostante abbia tessuto tutto quanto il campo, non trovo alcuna mia vecchia conoscenza; tuttavia, notando la presenza di qualche indigeno che al di là del reticolato ci osserva incuriosito, mi avvicino ad un giovane negro dall’apparente età di circa 16-18 anni per avere informazioni su quanto sta accadendo in città.
Questi, stuzzicato dal mio interesse e curiosità, mi riferisce quanto segue:
“La situazione è precipitata negli ultimi giorni a causa dell’insediamento del Comando inglese, in concomitanza del quale gl’indigeni hanno incominciato a fare rappresaglie contro gl’Italiani e le loro abitazioni. In particolare, approfittando della notte, circolano vere e proprie bande armate di abissini che, dopo aver buttato bombe a mano all’interno delle abitazioni italiane, entrano e si abbandonano ad ogni sorta di razzìa. Questa situazione si protrae ormai da alcuni giorni un po’ dappertutto, generando le lagnanze piuttosto vigorose del Comando italiano presso gli Inglesi, i quali, essendo già a conoscenza di tali fatti, hanno assicurato a loro volta un adeguato intervento presso le autorità abissine. Infatti, il Comando britannico, informa della cosa lo stesso Imperatore Ailé Selassié, minacciando una ritorsione alla tedesca nel caso dovessero continuare simili aggressioni ai danni degli Italiani. L’Imperatore allora, fa radunare la cittadinanza mediante i banditori che coi loro tamburi setacciano le vie della città, e pronuncia un discorso sostanzialmente a favore degli Italiani.
In particolare egli si sofferma su quanto questi stranieri hanno fatto durante gli anni di colonizzazione, su come hanno trattato in genere gl’indigeni, ammettendoli persino alle loro stesse mense, tutto il contrario di come invece erano stati dipinti ai suoi occhi dagli”amici”Inglesi. Altro che cannibali! All’Imperatore gli Italiani sono apparsi grandi costruttori di strade, ponti, palazzi, opere pubbliche e quindi meritevoli di rispetto. Pertanto, ordina a tutta la popolazione di cessare ogni forma di aggressione o rivalsa nei confronti degli Italiani, perché altrimenti sarà costretto a far fucilare 10 abissini per ogni Italiano offeso.”
Dalle parole di questo giovane sembra di capire che lo stesso Ailé Selassié si senta tradito dagli Inglesi i quali avevano offerto il loro protettorato al posto degli Italiani, presentando questi come popolo incivile, barbaro, incapace di assicurare pace e benessere. Con questo egli allude anche al tragico attentato del 29 Settembre 1937, durante il quale all’offerta di doni e viveri alle popolazioni locali da parte del Vicere Graziani gli abissini avevano risposto con bombe a mano, causando la morte del Luogotenente Generale. Un tale resoconto della situazione , comunque, aumenta in me la tensione non tanto per l’ammirazione verso di noi da parte dell’Imperatore d’Etiopia quanto per la preoccupazione di immaginare la mia casa invasa e distrutta da una di queste bande, con tutte le conseguenze immaginabili per i miei famigliari Il caso vuole che non appena saluto il giovane negro per riprendere il solito giro alla ricerca di conoscenti, incontro finalmente un commilitone amico col quale subito intrattengo una lunga discussione. Innanzitutto egli mi dice che si trova qui da due giorni e che anch’egli è preoccupato per il futuro; inoltre tra le prime notizie che mi dà ce n’è una che mi rattrista non poco.
In particolare mi racconta che la sera precedente un Sergente Maggiore di Fanteria proveniente da Catania mentre stava togliendosi la camicia per mettersi a letto nella propria tenda, viene freddato da un colpo di fucile sparato accidentalmente da un”Cucuia”che passeggiava nei pressi (il Cucuia è l’indigeno al servizio degli Inglesi).
Approfondendo le informazioni su questo militare ucciso, scopro che si tratta di un mio caro amico; perciò questa notizia mi rammarica molto, ancor più perché la sera prima di partire per il campo di concentramento, era venuto a casa mia e mi aveva affidato l’incarico di far pervenire ai suoi famigliari in Sicilia un libretto di risparmio.
Una sì grande fiducia in me era motivata dall’amicizia sincera nata tra noi, mentre l’incarico delicato di far avere il libretto ai suoi scaturiva dallo strano presentimento di non riuscire a tornare in Italia o comunque di rivedere i propri famigliari dopo il nostro rientro in patria. Perciò mi viene subito alla mente anche un altro particolare che quella sera rinsaldava maggiormente la nostra amicizia; egli infatti oltre a consegnarmi il libretto di risparmio, mi offriva anche una pistola accompagnando il gesto con queste parole: “Prendi anche questo bellissimo ricordo: è una pistola che ho tolto ad un Capitano russo in Spagna; adesso che siamo prigionieri degli Inglesi son sicuro che me la toglieranno.
L’affido a te; se ci rivedremo ancora me la ridarai, altrimenti te la tieni per te.
Io purtroppo ho il triste presentimento di non rivedere mai più la mia terra: pensa, ho superato la guerra di Spagna, ho anche affrontato serenamente questa dura Campagna d’Africa che non mi ha preoccupato più di tanto; ora purtroppo non capisco perché è sorto in me questo triste presentimento“. E aveva proprio ragione! In questo campo provvisorio di Addis Abeba restiamo circa tre mesi, nell’attesa di un nuovo trasferimento che ci viene annunciato il 30 Settembre dello stesso anno. L’indomani, 1° Ottobre 1941, la sveglia viene data all’alba: subito dopo la solita colazione a base di caffè e di corsa tutti in riga per il controllo. Con l’appello ci vengono date le istruzioni per raggiungere la Stazione Ferroviaria dalla quale partire alla volta di Dire Daua. Orbene, visto che la distanza da coprire a piedi sotto la sorveglianza di cucuia e militari inglesi è di circa 4 chilometri, escogito un metodo per non restare indietro nel portare il pesante fardello della mia valigia stracolma di attrezzi e oggetti vari. In pratica, non appena viene dato l’ordine di partire, mi porto in testa alla colonna in modo che, man mano che la stanchezza si fa sentire, possa rallentare o riposarmi qualche attimo. E’ difficile poter dimenticare la fatica enorme di questo trasferimento: il metodo adottato si rivela ben presto utile, ma alla distanza di circa un chilometro dalla Stazione, mi trovo ormai in coda stanco e sfinito. Mai ho tanto desiderato sedermi cinque minuti per riprender fiato e forze come in questo momento, ma il sentirmi puntata al fianco la baionetta di un cucuia che grida”camàn, camàn”, mi fa gelare il sangue e mi sprona a coprire questi metri in condizioni di stressante paura, al punto che non faccio in tempo ad arrivare in Stazione che ormai scarico gl’intestini addosso. Giunto alla Stazione, allora, affido momentaneamente la valigia ad un commilitone, e scappo per la ritirata dove mi pulisco alla meglio per poter rientrare nei ranghi il più presto possibile. Intanto secondo un certo ordine, i prigionieri vengono fatti salire su un treno adibito al trasporto del bestiame, a vagoni completamente chiusi, all’interno di ognuno dei quali vengono stipati ben 50 persone.
All’interno ogni vagone è del tutto spoglio di qualsiasi suppellettile, e siamo costretti a stare seduti sul nudo pavimento, mentre in un cantuccio abbiamo la possibilità di soddisfare i nostri bisogni fisiologici, immaginando facilmente con quali aromi e profumazioni varie.

CAP. XXXII
DIRE DAUA, 1° CAMPO DI CONCENTRAMENTO

I l treno quindi parte da Addis Abeba col suo triste carico trattato da bestiame, alla volta di Dire Daua, dove arriva l’indomani 2 Ottobre 1941 verso le 10. Ai soldati di Sanità viene assegnato un padiglione in muratura, mentre tutti gli altri vengono sistemati in baracche di legno. Dopo aver messo a posto le proprie cose, si assiste ad una vera corsa verso le docce appositamente realizzate per la truppa: in un ambiente del genere e dopo un viaggio di questo tipo l’acqua sembra lavare anche il triste ricordo di un viaggio fatto come le bestie. In questo nuovo campo incomincio subito a darmi da fare, non tanto per passare il tempo, quanto per poter aumentare le amicizie e fare anche qualche soldo. In effetti, a tal riguardo, la sabbia mi dà una buona mano; le dimensioni estremamente piccole d’ogni granellino fanno sì che un orologio venga messo fuori uso in breve tempo. Perciò, non appena si sparge la voce della presenza di un orologiaio nel campo, incomincia la trafila delle persone che vogliono riparati i propri orologi. Così, utilizzando la branda come tavolo da lavoro, impianto il mio nuovo laboratorio di riparazioni, il quale incomincia da subito ad andare a gonfie vele.
Un giorno, verso metà mattinata, si presenta per l’ennesima ispezione un Tenente inglese proveniente da Malta, dall’età apparente di circa 25 anni, il quale dopo aver osservato ogni volta con un certo interesse questa mia attività , mi invita a presentarmi nel suo ufficio. Immediatamente lascio tutto in asso e assieme a lui mi reco nella palazzina degli alloggi degli Ufficiali inglesi; qui giunti, il Tenente tira fuori da un cassetto due orologi invitandomi a ripararli con molta diligenza e riguardo. Gli rispondo subito che farò del mio meglio, che per un’ottima riparazione sarà utile tenermeli sotto controllo per un bel po’ di tempo e che, non appena saranno pronti, sarò io stesso a riportarglieli. Intanto passano i giorni, finchè un mattino vengo chiamato al comando italiano, posto all’interno del campo stesso, dove vengo avvertito di tenermi pronto per partire alla volta del Kenia.
Essendomi ormai abituato all’ambiente ed avendo già fatto molte amicizie, la notizia non mi va giù, perciò mi reco immediatamente dal Tenente maltese per riferirgli che, a causa di questo nuovo ordine, non potrò accontentarlo nella riparazione dei suoi orologi. Questi allora scatta in piedi e mi ordina di seguirlo; in breve arriviamo nel padiglione del comando italiano e rivolgendosi al nostro Capitano, con tono perentorio gli dice:
“Prenda nota di quanto le sto per dire; questo soldato da qui non parte finché ci sarà nel campo un solo prigioniero!” Senza aggiungere altro lo salutiamo entrambi, e, mentre ci avviamo verso i nostri alloggi, il Tenente mi fa capire che ormai posso fare affidamento sul suo aiuto per qualsiasi mia necessità. Soddisfatto e contento di questa nuova protezione, riprendo con serenità la mia attività come se fossi a casa mia, conducendo ormai una vita pressocché civile, confortata perfino da comodità che pochi si possono permettere. Ad incominciare, ad esempio, dal pranzo che pago di tasca mia permettendomi di mangiare secondo i mei desideri e gusti; infatti all’interno del campo vi sono persone autorizzate dallo stesso comando inglese a gestire un vero e proprio ristorante. La sera, invece, preferisco prendere quanto passa la cucina della truppa: un brodo di carne con qualche altra cosetta che mi soddisfa ugualmente.
Questa dunque è la vita durante la permanenza in questo campo di Dire Daua , durante la quale tuttavia non mancano anche le note piacevoli e divertenti. Pur essendo infatti controllati sempre a vista dagli Inglesi e dai cucuia, alcuni Italiani, per la naturale avversità nutrita da sempre verso gli Inglesi e le loro nordiche abitudini, escogitano di tutto per innervosirli e dar loro comunque fastidio.
Una delle tante idee si rivela ben presto molto azzeccata e intelligente: contrastare l’alza bandiera inglese con un simultaneo sventolìo di bandiere italiane; ciò è possibile grazie all’aiuto indiretto dei numerosissimi falchi che infestano la zona. Infatti, essendo questi rapaci avidi carnivori e dalla vista acutisssima, si sfrutta questa loro prerogativa per una trovata che riesce molto bene fin dalla prima volta.
In particolare, si preparano numerosi pezzi di spago lunghi 4-5 metri ciascuno; ad una delle estremità vengono attaccate delle bandiere d’Italia, mentre all’altra vengono legati pezzi di carne.
Al mattino, il tutto viene coperto dalla sabbia ad eccezione della carne che viene posta in evidenza nello stesso momento dell’alzabandiera. A questo punto i falchi sempre in agguato, calano in picchiata, si avventano coi loro artigli sui vari pezzi di carne, e subito si librano nell’aria trascinandosi lo spago con all’altro capo la bandiera italiana.
Questo gioco offensivo, una volta avuto successo, viene ripetuto spesso con grande stizza dell’apparato inglese che deve putroppo far finta di niente. Comunque, non è soltanto in questo modo che ci si diverte; tra i prigionieri ci sono molti”attori”nati; persone, cioè, che non sono mai stati veri attori di teatro ma certamente hanno la vena dell’imitatore, del prestigiatore, del comico o del tragico. Perciò, con l’autorizzazione sempre del comando inglese, viene allestito una specie di piccolo teatro, all’interno del quale quasi tutte le sere viene rappresentata qualcosa o di comico o di drammatico, Tali rappresentazioni riscuotono grande successo non solo perché chi si esibisce lavora veramente bene, con abilità e tecnica da professionista, ma anche perché consente, anche se per brevi lassi di tempo, di dimenticare le condizioni in cui ci troviamo. Il tempo tuttavia non passa mai; pertanto, durante le ore di ozio preferisco fare un giro per il campo. Ed è proprio durante una di queste passeggiate che un giorno mi imbatto in un àscaro conosciuto a Gimma, di nome Alì, anch’esso prigioniero degli inglesi in quanto al servizio degli italiani. Questi, non appena mi vede, mi riconosce subito per primo, portandomi tutti i dettagli del mio negozio e tanti altri particolari che puntualizzano nel tempo la nostra conoscenza.
Dopo avermi detto che si trova in questo campo da parecchio tempo, mi avverte che ormai a giorni lo lasciano libero di andare a casa, e che è disposto a farmi qualche eventuale favore. Io ne approfitto subito per raccomandargli di portare, quando sarà il momento, una lettera a mia moglie con la promessa di denaro sia da parte mia che della destinataria. Dopo appena un paio di giorni da quest’incontro, verso la fine di Novembre, Alì mi viene a trovare per dirmi che l’indomani finalmente va a casa; io gli preparo la lettera e dopo alcune ore gliela consegno con dei soldi e con la raccomandazione di farla pervenire a tutti i costi a mia moglie, la quale poveretta è senza mie notizie ormai da mesi.
Per essere certo che ciò avvenga, pur ricevendo da lui solenne assicurazione, gli dico che nella lettera raccomando a mia moglie di dargli del denaro per il favore ricevuto, per cui è nel suo interesse consegnargliela di persona. Per me, questa occasione è indubbiamente l’unico mezzo più sicuro di altri per inviare mie notizie a Lilla che, nel frattempo credo stia attraversando momenti d’indicibile angoscia non tanto per la solitudine in cui si trova quanto specialmente per le preoccupazioni relative alla mia sorte di prigioniero. Tra l’altro, circolano notizie che questo di Dire Daua sia il campo di concentramento in cui vengono convogliati in un primo momento tutti gli Italiani, sia militari che civili, uomini e donne, anziani e bambini. Pertanto, con la lettera esprimo l’augurio e la speranza che in caso di deportazione di lei e dei bambini, essi possano essere portati in questo stesso campo prima che io venga trasferito altrove, Infatti, da alcuni giorni ho notato un certo avvicendamento tra gli Ufficiali inglesi, e la sostituzione del Tenente maltese”mio protettore”con un altro, al quale però sembra non sia stata trasmessa alcuna raccomandazione sul mio conto; quindi ormai mi aspetto anch’io un trasferimento quanto prima. E infatti, tale sospetto trova conferma ed applicazione immediata proprio la prima Domenica dopo questi avvenimenti. Subito dopo la sveglia, sono già pronti nello spiazzo per essere trasferiti dei prigionieri avvertiti precedentemente; un soldato di fureria mi si presenta dicendomi di prepararmi in tutta fretta perché c’è l’ordine anche per me di associarmi a quegli altri per il trasferimento ad altra destinazione.
Pur non essendo stato avvertito in tempo, forse appositamente, non potendo comunque rifiutarmi, in fretta e furia raccolgo le mie cose, preparo alla meglio il bagaglio , e vado a mettermi in riga assieme agli altri, in attesa che arrivino gli automezzi per il trasporto.
A nulla serve l’interessamento del Cappellano che, nel frattempo, con la motivazione di aver bisogno di questo buon serviente alla S.Messa, cerca di convincere il comando a differire la mia partenza. Perciò, verso le 8,30 del 12 Dicembre 1941, mi trovo in partenza con destinazione ignota.
Il caso vuole tuttavia che al disagio fisico e morale per questo nuovo trasferimento, non si aggiunga anche il dolore e l’amarezza di sapere che da qualche ora o forse da qualche giorno sono arrivati in questo stesso campo di Dire Daua anche i miei famigliari: una tale coincidenza mi sarà nota solo dopo molti anni, esattamente dopo il rimpatrio dalla prigionìa.

CAP. XXXIII
Gìggica - Berbera - Mombasa

D opo quasi un’intera giornata di viaggio verso le ore 16 si arriva a Gìggica, distante appena 160 chilometri da Dire Daua, dove ci fanno scendere dai camions per il pernottamento.
Il campo non è altro che una vecchia caserma italiana utilizzata ora dagli Inglesi come stazione di passaggio nei trasferimenti dei prigionieri. Per la posizione geografica di questa località, sita come tante altre a circa 1.700 metri sul livello del mare, la temperatura e l’umidità notturne sono proibitive; perciò, onde poter sopportare alla meglio l’intenso freddo della notte, quelli che han pernottato qui prima di noi hanno divelto porte e finestre per fare del fuoco.
Pertanto, appena entriamo in questi enormi stanzoni freddi ed umidi, proviamo immediatamente una senzazione di gelo che fin da ora attanaglia le ossa. Infatti, mai in vita mia ho trascorso una notte così fredda! Nonostante abbia rinunciato alla brandina a forbice in legno per alimentare un po’ il fuoco, l’intenso freddo non permette di riposare; perciò l’alba del nuovo giorno arriva come una liberazione. Una tale situazione, tra l’altro, viene favorita purtroppo da un’alimentazione che gl’Inglesi forniscono sotto forma di cibi preconfezionati e quindi non sufficientemente calorici.
Alle ore 6 in punto, ordine di salire sui camions, e subito dopo partenza per la nuova destinazione , dove giungiamo dopo altre 10 ore circa di viaggio. Quasi tutti vengono portati all’interno del nuovo campo, mentre noi della sanità siamo invitati a scendere dai camions per spostare delle lamiere prelevate dalle nostre costruzioni nelle varie località d’Etiopia, e trasportate fin là. Per invogliarci a fare in fretta, ci vien detto:
“Prima finite e meglio per voi sarà, visto che al termine del lavoro avrete una pagnotta!”
L’idea di mettere tra i denti qualcosa di più decente di quanto solitamente ci danno, ci mette le ali ai piedi e così in un batter d’occhio le lamiere vengono portate dove ci è stato indicato.
Mentre consumiamo la pagnotta promessa, ci viene ordinato di risalire sui camions per un’altra destinazione: Bérbera. Dopo qualche ora di viaggio ci si ferma in prossimità del mare e qui per la curiosità di ammirarne la bellezza, nel momento in cui con la mano sinistra alzo il tendone, sento sfilarmi dal dito la fede nuziale. Salto allora dal camion per raccattarla, ma devo desistere a causa della baionetta puntata alle spalle da parte di uno dei soliti cucuia che grida:”camàn, camàn = andiamo; va là”; perciò devo rinunciare, anche se a malincuore. Intanto arriviamo a Bérbera col buio, per cui non riusciamo a vedere quasi nulla di questa capitale della Somalia Britannica, suo principale porto ed emporio, sita in fondo ad un’amplissima insenatura del Golfo di Aden.
L’imbarco su una nave carboniera viene completato verso la mezzanotte, ed a noi della Sanità, in tutto una cinquantina, tocca andare nella stiva.
Dopo aver mangiato alla men peggio, ognuno di noi cerca un giaciglio su cui dormire: io scelgo una panca, altri dei tavoli, altri ancora i gradini che portano al piano superiore. Anche se lo stomaco è quasi vuoto, la stanchezza ha il sopravvento su tutti , perciò sprofondiamo in un sonno che si protrae per tutta la notte fino ad oltre le ore 9,00 dell’indomani, Domenica 14 Dicembre 1941. Con noi è stato imbarcato anche il Cappellano Militare il quale ci avvisa che verso le ore 10 sul ponte di coperta celebrerà la S.Messa.
Tutti quanti accogliamo l’invito sia quelli che desideriamo osservare i precetti della Chiesa che gli altri desiderosi di prendere almeno una boccata d’aria. Il Cappellano ovviamente calibra l’omelìa sulla nostra situazione; in particolare, tra le altre riflessioni di circostanza, egli così parla: “Carissimi soldati, offriamo a Dio il sacrificio di questa privazione di libertà per ottenere il perdono per i nostri peccati. Cerchiamo anche di perdonare questi nostri fratelli che ci tengono prigionieri, anche se non meritano tanto. Vedete infatti come ci trattano: io penso che durante una guerra si può nutrire odio, ma non è tollerabile aggiungere ad esso anche il disprezzo.”
Queste parole e tante altre ricche di significato vengono scolpite nella mente di ognuno di noi in modo indelebile.
Terminata la celebrazione, ci danno da mangiare, dopo di che la giornata trascorre chiacchierando ed ammirando l’Oceano.
L’indomani mattina all’alba veniamo svegliati dalla notizia che si sta entrando nel porto di Mombasa. Allora tutti quanti ci precipitiamo sul ponte per assistere all’ingresso di un lungo e tortuoso canale al termine del quale la nave finalmente attracca verso le ore 11. Una volta inquadrati sulla banchina, veniamo avviati verso il luogo di ammassamento in condizioni veramente precarie: affamati, sporchi e sudati. Non appena però incominciamo a muoverci ecco che si abbatte su di noi una pioggia torrenziale che dura esattamente fino a quando stiamo per entrare nel campo di destinazione; essa sembra inviata appositamente dal Padreterno in considerazione del fatto che da quando siam partiti da Dire Daua non abbiamo avuto alcuna opportunità di badare minimamente all’igiene personale.
Tuttavia, marciando militarmente, è facile immaginare cosa succede con questa pioggia: ad ogni passo cadenzato è una fontana a spruzzo quella che fuoriesce dagli stivali, mentre i vestiti è come se non ci fossero.
Giunti all’accampamento, la prima cosa che si cerca è un po’ di cibo per placare i forti stimoli della fame; ma nulla da fare. Il caso vuole che un amico ad un certo punto ci porta una manciata di riso con la quale tamponiamo alla men peggio i crampi allo stomaco. Intanto, il tempo passa a sistemare le proprie cose nelle baracche assegnate, in una delle quali ci troviamo in 4 amici a trascorrere la notte imminente. Ancora con l’umidità della pioggia addosso, con gli stimoli della fame persistenti e con una stanchezza indescrivibile, ci accovacciamo in un angolo della baracca vuota, tutti addossati l’uno all’altro per mantenere il calore dei corpi, e così ci addormentiamo senza accorgercene. Dopo una notte di sonno profondo, al risveglio ci interroghiamo se siamo ancora vivi e se abbiamo avvertito il continuo viavai di topi sui nostri corpi. L’affermazione unanime di essere scampati ancora una volta dlla morte o comunque a guai seri, ci rincuora e ci fa sperare in bene. Dopo esserci scrollati dai pantaloni chili di terra, ci rechiamo in cucina per la cosiddetta colazione: un po’ di caffè all’inglese (acqua colorata) ed una fettina di pane. Mi separo quindi dagli altri e faccio un giro di perlustrazione per il campo, dove numerose piante di cocco, alte non meno di 20 metri, rappresentano certamente un bel colpo d’occhio ma anche un serio pericolo per chi dovesse sostarvi alla base. Una conferma di questo pericolo mi viene data da uno dei tanti prigionieri che mi racconta della morte istantanea di un Brigadiere dei Carabinieri causata dalla caduta sul suo capo di una noce di cocco.
Dopo il rancio, alle 14 si riparte alla volta della Stazione ferroviaria , da dove il treno si mette in movimento dopo circa un paio d’ore. Siamo ormai da tempo in territorio keniota, posto sotto il protettorato inglese; questa ferrovia attraversa il Kenia in direzione sud-est nord-ovest, congiungendo Mombasa con la capitale Nairobi, distante 550 chilometri circa.
Il 24 Dicembre 1941, vigilia di Natale, verso le ore 14 arriviamo alla destinazione definitiva: Gilgil, località sita a circa 100 chilometri ancora a nord-ovest di Nairobi. Giunti al campo, quattro militari inglesi, di cui due Sergenti, ci fanno scendere dai camion 25 alla volta per fare un’attenta perquisizione personale ed un’ispezione diligente ai bagagli di ciascun prigioniero.
A questo punto, contenendo la mia valigia parecchio denaro, seguo con attenzione le modalità delle perquisizioni, dopo di che facendomi coprire da alcuni miei compagni, nascondo i soldi dentro le scarpe.
Giunto il mio turno, uno dei Sergenti mi ordina di aprire la valigia all’interno della quale si nota immediatamente la scatola contenente gli orologi nuovi portati via dal negozio di Gimma. Questi non appena vede i circa 30 orologi fiammanti, chiama i suoi commilitoni e li invita a scegliere ciò che vogliono; alla fine se ne scelgono uno ciascuno, mentre il Sergente Maggiore mette le mani anche su una stupenda aquila d’argento che i nostri Generali portavano sulla borsa a tracolla. Alla sua richiesta, io gli faccio cenno che può prendersela, ma pretendo che mi paghino almeno gli orologi; egli allora mi promette che mi farà avere il corrispettivo subito dopo le feste natalizie e, pago di quanto prelevato dal mio bagaglio, dà ordine di non ispezionare più nessuno del nostro gruppo. Entriamo così nel campo di concentramento definitivo, dal quale uscirò dopo ben cinque lunghissimi anni.

CAP. XXXIV
Gilgil (Kenia): Campo 353 - Baracca n. 78

E ntrare in questo enorme campo di prigionìa N° 353 di Gilgil, ci fa una certa sensazione perché non immaginiamo ancora il sistema di vita e le condizioni ambientali cui saremo sottoposti né tantomeno la durata di tale stato di privazione della libertà. La prima cosa che si nota è senz’altro costituita dalle dimensioni veramente eccezionali: qui trovano posto ben 4.000 prigionieri distribuiti in tre campi riuniti, separati soltanto da un semplice reticolato. Di questi, il primo è il più in vista, mentre il terzo, essendo su un piano sottomesso rispetto agli altri due, è il più defilato e poco visibile.
Ogni campo presenta un numero imprecisato di baracche, all’interno delle quali ci sono gruppi di due letti sovrapposti a castello; per sopperire poi alle necessità più gravi o urgenti, c’è anche un complesso ospedaliero suddiviso in due sezioni: quella gestita da personale italiano e l’altra da personale inlgese (vedi foto n° 62).
Io vengo assegnato al Campo N°1 - Baracca n°78, dove scelgo subito il letto inferiore vicino all’ingresso. Preso posto, immediatamente slaccio le scarpe troppo strette per i soldi nascosti, che trovo tutti bagnati di sudore ma per fortuna non rovinati. Mentre sistemo il tutto alla meglio, veniamo chiamati per il rancio: una cucchiaiata di riso con un po’ di verdura, 2 patate, 2 pezzettini di carne ed una fettina di pane.

Foto n. 62 – Gilgil: Campo n° 353

Dopo aver letteralmente divorato il tutto, l’eccessiva stanchezza e la tensione accumulate durante il giorno mi portano a sdraiarmi sul letto e a prender sonno per un paio d’ore.
Svegliatomi, scambiamo quattro chiacchiere e delle opinioni tra amici fino a quando non ci si mette a letto per la notte. L’indomani, 25 Dicembre 1941, viviamo il primo S.Natale in prigionìa, con molta tristezza nei nostri cuori pensando alle altre analoghe felici circostanze ed alle famiglie lontane. L’unica nota positiva per noi credenti è costituita dalla celebrazione della S.Messa e dalla partecipazione al sacramento della Comunione impartita dal Cappellano Militare italiano. Con un giorno così eccezionale inizia quindi questo periodo triste della mia vita, durante il quale non smetterò mai di pensare a Lilla, Vincenzino, Ninfa e a tutti i miei famigliari in Sicilia.
Come in un film, per contrasto con l’attuale situazione, mi passano velocemente davanti agli occhi della memoria le scene più belle e caratteristiche dei giorni trascorsi in serenità e gioia: i momenti più belli della luna di miele; la nascita dei miei bambini; i dispetti della scimmietta; il ricorso ai dischi di opere liriche o di”Dodici mamme, Dodici bimbi”per far addormentare Vincenzino; le sue monellerie che spesso ci facevano disperare (come quella volta, ad esempio, in cui aveva nascosto il martellino da lavoro dentro lo stivale; ovvero quando in pochi minuti Lilla dovette cambiarlo ben tre volte da capo a piedi perché si divertiva ad inzaccherarsi durante un temporale sotto una gronda); e tanti altri di cui serbo un bel ricordo. Per mia fortuna la conoscenza di un mestiere d’oro come l’orologiaio, che ormai conosco molto bene, oltre a darmi grandi soddisfazioni finanziarie, mi consente di trascorrere questi tempi interminabili senza annoiarmi o rattristarmi più di tanto. Riprendo perciò fin dai primi giorni il solito lavoro di riparazione degli orologi guasti, che, per le aumentate dimensioni del campo, diventano sempre più numerosi. Anche al Comando inglese la notizia di un bravo orologiaio nel campo interessa gli Ufficiali che hanno altrettanto bisogno per i loro segnatempo.
Un giorno, infatti, vengo chiamato al comando inglese, che si trova al di fuori del campo, perché un Tenente ha da farmi riparare degli orologi; mediante un interprete egli mi dice:
“Ho saputo che sei un bravo orologiaio; ti affido questi orologi perché non funzionano. Vedi se si possono riparare, in caso positivo ti raccomando di fare un buon lavoro; quando saranno pronti me li riporti.” Saluto, torno alla mia baracca e mi metto all’opera; dopo una settimana gli orologi sono riparati e controllati, per cui torno a riportarglieli. Giunto nel suo ufficio, trovo l’Ufficiale accovacciato sulla sedia come gli Indiani; mi chiede subito quanto mi deve, ricordandomi però che non potendo dare denaro ai prigionieri, egli mi farà dei buoni per lo spaccio.
Nel confermargli ugualmente la mia soddisfazione, approfitto della circostanza per dirgli anche quanto segue:
“Signor Tenente, con l’occasione mi permetto di dirle che al momento dell’ispezione preliminare da parte di un Sergente Maggiore, mi sono stati sottratti 4 orologi nuovi portati dal mio negozio di Gimma, con l’impegno che me li avrebbero pagati entro breve tempo. Intanto sono trascorse alcune settimane senza che io abbia ancora avuto né soldi né notizie in merito. Io non conosco questi suoi subalterni, ma l’interprete presente all’ispezione, sì.” Dopo aver ascoltato con attenzione, il Tenente mi assicura il suo interessamento, e così tranquillizzato, me ne torno nella baraccca. Trascorsi alcuni giorni, egli mi manda a chiamare, dicendomi che dei 4 orologi solo uno è stato rintracciato; al che, visto il suo gentile interessamento, io gli rispondo che mi va bene anche così.
Che non l’avessi mai detto! Batte violentemente il pugno sul tavolo e mi dà del bugiardo, al che io, per la dignità che ha sempre contraddistinto il mio modo di fare, gli rispondo per le rime, pretendendo ora il pagamento di tutti e quattro, e accusando indistintamente gl Inglesi di mancanza di parola e dignità. A questo punto, senza aspettare altra risposta, saluto e me ne torno in baracca. L’ufficiale inglese allora, fa chiamare uno”Staff”(graduato simile al nostro Maresciallo), e dopo averlo messo al corrente della questione, gli ordina di provvedere alla conclusione di questa vicenda.
La sera stessa vengono a trovarmi lo Staff e l’interprete, rimproverandomi quasi quasi del mio comportamento davanti al loro superiore; non avendo nulla da nascondere, rispondo allora con le seguenti parole: “Intanto io non credo di aver agito male, come state sostenendo, in quanto ho solo approfittato della circostanza per ribadire un mio diritto. L’interprete sa benissimo che la vigilia di Natale, un Sergente Maggiore mi ha assicurato che mi avrebbero pagato entro pochi giorni i 4 orologi nuovi sottrattimi dalla valigia.
Siamo al 10 Gennaio e ancora non vedo nulla; sono forse io in torto o loro?” Il Maresciallo convinto da un tal discorso, mi assicura il suo interessamento stringendomi la mano e salutandomi cordialmente. Intanto, venuto a sapere che un caro amico di Sutera, Antonino Nicastro (comunemente chiamato, Nino Ventaglio) versa in gravi condizioni fisiche e si trova ricoverato all’ospedale nel reparto Medicina, l’indomani decido di buon mattino di fargli una visita. Dopo esserci affettuosamente salutati, vengo a sapere dal Dottore che si tratta di una”polmonite doppia”con forti riserve sulle possibilità di guarigione, dato che purtroppo mancano le medicine appropriate.
Infatti è già tanto che gli Inglesi permettano la conduzione di un ospedale all’interno del campo con personale italiano. Allora, grazie al fatto che nel nostro comparto Sanità ci conosciamo tutti quanti, insisto col Dottore su un maggiore impegno nel fare il possibile per salvare questo mio caro amico, chiedendo eventualmente le medicine all’ospedale inglese.
Dopo che il dottore mi promette solennemente che farà tutto il possibile, torno al capezzale dell’amico moribondo per qualche minuto ancora; tuttavia però, prima di lasciarlo, sollecito anche l’interessamento dell’infermiere, invitandolo a chiamarmi in qualsiasi momento in caso di necessità o di urgenza. Da questo momento non smetto più di raccomandarlo anche a Dio nelle mie preghiere ed ai dottori quando vado ogni tanto a trovarlo in corsìa. Per quei misteri soprannaturali di cui questa mia vita in Africa è pervasa, anche questo mio caro amico col tempo si ristabilisce, guarendosi del tutto e tornando alla vita normale.
Tornando da una di queste visite a Nino Ventaglio, un mattino vedo uscire dalla nuova cucina della truppa lo Staff inglese il quale venendomi incontro mi ferma e mi invita ad entrare nel locale. Appena entrati, chiude diligentemente la porta, tira fuori il portafoglio e mi dice in modo che io possa ugualmente capire la sua lingua:
“Se ti accontenti, ti pago con scellini; dimmi adesso quanto vuoi per i 4 orologi”.
Non conoscendo l’inglese, allora scrivo su un pezzo di carta:
“60 scellini in tutto, cioè 3 sterline inglesi“.
Il sottufficiale inglese, interpretando 60 scellini per ogni orologio, comincia a deporre sul bancone scellino dietro scellino fino a contarne ben 240, cioè 80 sterline in tutto.
Avendo io capito subito l’equivoco, sto al gioco fino a quando non finisce di mettere le monete sul tavolo; a questo punto ritiro solo 60 scellini e tutto il resto glielo ridò con gesti che gli fan capire la mia sincerità ed onestà.
Questi, nel vedersi restituita tutta questa somma, mi abbraccia fortemente e mi bacia pronunciando nella sua lingua una frase che pressappoco suona così: “Sei stato molto bravo e sincero, ti ringrazio tanto; d’ora in poi fammi sapere tutto ciò di cui hai bisogno, ché ci penso io!” Ci salutiamo, ed io me ne torno alle mie attività ancora una volta soddisfatto di aver fatto una nuova valida amicizia, tanto che, a poca distanza di tempo da questa circostanza, un bel mattino me lo vedo spuntare nella mia baracca con una bottiglia di”anisette”e apposito bicchierino, con qualche dentifricio e tanti altri oggetti di comune utilità.
Col passare del tempo, frattanto, ci si abitua sempre più al regime di vita del campo dove, per passare i tempi morti si realizzano giochi e attività d’ogni genere, mettendo in evidenza le capacità nascoste di molti dei prigionieri.
Anche i vari sports sono significativamente rappresentati, visto che tra i 4.000”ospiti”ci sono molti bravi giocatori: c’è chi pratica il foot-ball, chi il tennis, chi la pallavolo, chi la pallacanestro, e chi altro ancora.
Intanto, viste le esigenze si incomincia a pensare alla realizzazione di campi sportivi adeguati con tanto di tribune (vedi foto n°63), poi anche alla costruzione di un vero Teatro ed infine perfino di una grande Chiesa a tre navate con un campanile di circa una ventina di metri.

Foto n. 63 – Gilgil: Tribune affollate per una partita di calcio

Il tutto viene ovviamente ben visto dalle autorità inglesi non solo perché tutto ciò tiene impegnati i prigionieri in attività non sovversive, ma anche perché ciò accresce agli occhi dell’opinione internazionale la bontà del regime coattivo degli Inglesi.

CAP. XXXV
Laboriosità e sotterfugi per viver meglio

U na massa di 4.000 uomini, con la conoscenza di un mestiere o di una professione, fanno del Campo N°353 di Gilgil una città variegata sia dal punto di vista fisico che intellettuale, capace quindi di manifestazioni in tutti i campi dell’attività umana. Perciò è facile imbattersi ora in quello spilungone di ufficiale di Marina, il più alto di tutto il campo sì da sembrare una pertica; ovvero ancora in quello strano pensatore, col viso sempre fisso a terra, ma il più bravo esecutore di caricature; ovvero infine in quel pugile che non trova alcuno che possa batterlo.
Ma a parte questi aspetti particolari della personalità di ognuno, ciò che ci accomuna è innanzitutto il carattere tipico delle genti mediterranee ed in particolare dell’Italiano: per sua natura, uomo intelligente, attivo, artista, scherzoso, altero, leale, religioso, e via discorrendo.
Pertanto, quando un bel giorno il Cappellano Militare esprime l’idea di costruire una chiesa che consenta le celebrazioni religiose in un ambiente degno di tal nome, tutti quanti i prigionieri unanimemente si offrono per realizzarla. Da quel momento in poi, per alcuni mesi, il campo diventa un vero e proprio formicaio: molti uomini sono intenti a preparare le fondamenta; molti a scavare la terra per ricavare l’argilla; molti altri ad impastare l’argilla per i mattoni; molti altri ancora a disporre le formelle dei mattoni al sole in modo da farli asciugare; molti altri infine alla costruzione.
In poco tempo si assiste con meraviglia di tutti alla erezione di una Chiesa di notevoli dimensioni, a tre navate, con un campanile di 20 metri di altezza (vedi foto n. 64).

Foto n. 64 – Gilgil: Chiesa costruita dagli stessi prigionieri

Il tutto in tempo record perché la si vuol inaugurare per la Pasqua di questo stesso anno 1942.
Con la circostanza della presenza casuale tra noi del Vicario Generale dei Cappellani d’Italia e di altri due Cappellani, si cerca di dare all’inaugurazione un tono di eccezionale solennità: si fa trasferire da un altro campo un bravo maestro di musica, si provvede all’impianto di un organo, e si prepara nel contempo anche un nutrito gruppo di validi cantori.
Se il giorno di Natale del 1941 è stato un giorno molto triste, il giorno di Pasqua del 1942 invece è un giorno veramente gioioso e festante che ci fa dimenticare tutto il resto.
Anche io partecipo vivamente alla cerimonia religiosa di inaugurazione della Chiesa, assieme ad un sergente ed un soldato delle parti di Bolzano; tutti e tre ci vestiamo come i sacerdoti: il sergente da diacono, io da suddiacono e l’altro da accolito. La S.Messa di questa Pasqua non ha niente da invidiare a quelle che si stanno celebrando nelle migliori Cattedrali del mondo: il maestro all’organo, i cantori che inneggiano a Cristo risorto con cori a voci miste, e la chiesa straripante di persone attente, commosse e soddisfatte di una realizzazione di questo genere. Anche per la costruzione del Teatro l’intero campo si prodiga attivamente sia nel realizzarne la struttura fisica che nel prepararne gli attori e le scene da eseguire sul palcoscenico. L’inaugurazione di questa nuova opera avviene in presenza anche degli stessi inglesi, i quali non riescono a comprendere come abbiano potuto entrare nel campo le donne esibitesi nella rappresentazione teatrale. Incuriositi e preoccupati, infatti, dopo le generali e sincere ovazioni da parte di tutti i presenti alla qualità delle interpretazioni, alle scenografie e ai costumi esibiti, alcuni graduati inglesi si precipitano negli spogliatoi per controllare le identità delle donne.
Ma con grande sorpresa notano che non sono altro che prigionieri truccati molto bene e bravi nell’imitarle in tutto sì da trarre in inganno anche gli spettatori più attenti.
Anche gli accoppiamenti e le gradazioni dei colori sono tali da suscitare stupore ed ammirazione; d’altronde, non essendoci colorifici, si è fatto ricorso esclusivamente a sostanze naturali, quali foglie, fiori e terre particolari prelevate all’interno del campo stesso o all’esterno, dove giornalmente molti prigionieri sono costretti a recarsi per sopperire alle varie necessità dell’intero accampamento.
Questi lavori esterni. in particolare, interessano vari settori:
• i forni, per la preparazione delle enormi quantità di pane necessario a sfamare più di 4.000 persone;
• i campi agricoli coltivati a frutta e verdura, per lo stesso motivo del precedente;
• i boschi circostanti, per procurare la legna necessaria alle varie costruzioni e riparazioni;
• e infine tante altre attività di interesse generale.
Anche da parte dei prigionieri c’è un certo tornaconto personale ad andare a lavorare all’esterno del campo, non tanto per evadere dalla solita routine ed al solito ambiente di vita, quanto specialmente per poter acquistare ai mercati indiani tutto ciò di cui si ha bisogno. Infatti, grazie alla possibilità di comunicare con strutture esterne, molti di questi prigionieri, ne approfittano per portarsi, di nascosto dagli inglesi, nelle proprie baracche di tutto: dalla carne allo zucchero, dalla pasta alla farina, dal burro ai liquori; insomma qualsiasi cosa possa servire, visto che fuori costa molto meno che all’interno del campo.
Col passare del tempo, intanto, indipendentemente da questi fatti, il comando inglese decide di fare periodiche ispezioni nelle baracche, per tenere sotto controllo tutte le attività dei prigionieri e il loro ambiente di vita.
Gl’incaricati alle ispezioni restano quindi allibiti nel trovare le baracche trasformate in veri e propri empori, con le merci accuratamente sistemate su appositi scaffali o appese ai tetti.
Non appena il Comando viene a conoscenza di una simile situazione, dà ordine di perquisire accuratamente ogni prigioniero che rientra dall’esterno.
Una tale restrizione, pertanto, crea scompiglio e disagio nei prigionieri, per il fatto stesso che viene così a mancare l’unica forma di approvvigionamento di generi alimentari in alternativa alla cucina del campo fin troppo scadente e magra; inoltre la possibilità di portare dall’esterno anche qualche altro oggetto di utilità, rende la vita di prigionìa meno pesante e più facilmente sopportabile. Perciò, ognuno di questi prigionieri adibiti ai lavori esterni, fa di tutto per escogitare sempre nuovi trucchi e sotterfugi per farla in barba ai controlli inglesi.
E così, quelli che sono adibiti al trasporto della legna, nascondono in mezzo ad essa ciò di cui hanno bisogno; c’è anche qualcuno più furbo che, dopo aver riempito le cavità interne di una grossa canna di bambù, si presenta all’ingresso del campo zoppicante e appoggiandosi a questo bastone improvvisato, fingendo di avere un piede pestato da un masso; qualche altro ancora, dopo aver indossato due paia di pantaloni, chiude con uno spago alla base quello interno, riempendolo di tutto quello che gli necessita; altri infine, dovendo portare nel campo un grosso tronco d’albero, ne svuotano prima l’interno, riempendolo di beni d’ogni genere, e poi cammuffandolo alla meglio per sfuggire al controllo.
In pratica, si inventa di tutto per poter superare senza problemi l’ispezione all’ingresso del campo e portarvi i generi di prima necessità sopra specificati.
Comunque la trovata del tronco svuotato che funge da contenitore per l’introduzione dei vari oggetti è quella che sembra abbia la migliore riuscita, tanto che, per poterlo usare ripetutamente, si cerca un complice proprio in una delle guardie dell’accampamento stesso. In particolare, uno dei prigionieri che conosce a mala pena la lingua usata dai cucuia, una sera ne avvicina uno di quelli che sono a guardia del recinto del 3° campo, visto che questo è il più defilato di tutti e tre, e gli fa questo discorso: “Visto che questo tuo lavoro ti porta a fare una vita quasi simile alla nostra di prigionieri, ti faccio una proposta che è da stupidi rifiutare. Se tu mi fai un piccolo favore durante le ore notturne, quando cioè nessuno si può accorgere di ciò che fai, io ti prometto un compenso pari al doppio della tua paga mensile. Il lavoro che dovresti fare è quello di trasportare un tronco d’albero lungo un paio di metri ed abbastanza leggero ai piedi delle piante che si trovano ad una trentina di metri dal recinto.”
Una tale proposta che richiede un modesto impegno ma viene pagata profumatamente accalappia subito questo povero indigeno il quale dall’indomani si mette all’opera con una certa alacrità.
E così questo tronco fa la spola tutti i giorni tra l’accampamento e l’esterno dove viene regolarmente riempito di ogni tipo di oggetti, portato a spalla da due dei tanti prigionieri, e ogni sera puntualmente riportato dal cucuia all’esterno.
Questa cuccagna, però, non dura a lungo, in quanto anche tra gli Ufficiali inglesi c’è qualcuno che ha la vista acuta ed il cervello fine.

Continua – 15

Le precedenti puntate sono state pubblicate nei numeri di: 1 - Gennaio-Febbraio, 2- Aprile, 3 - Maggio-Giugno, 4 - Luglio, 5 - Agosto-Settembre, 6 - Nov.-Dic. 2006; 7 - Genn.-Febbr., 8 - Marzo, 9 - Aprile, 10 - Maggio-Giugno, 11 - Luglio-Agosto, 12 - Settembre-Ottobre, 13 - Nov. Dic. 2007; 14 – Genn.-Febbr. 2008
Nicolò Falci


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