Memorie d’Africa
(1.1.1936 – 4.10.1946)
di Giuseppe Scannella
16a puntata


Infatti, un pomeriggio il Tenente d’ispezione all’ingresso ferma i due che portano il solito tronco pieno di varie merci, dicendo: “Alt! questo tronco mi sembra d’averlo visto più volte, come mai è sempre lo stesso? Non è possibile! E’ la prima volta che questo viene portato all’interno del campo;”rispondono in coro i due portatori per evitare noie.
“Bene; allora buttatelo subito a terra!”ordina perentoriamente l’Ufficiale. Dovendo necessariamente ubbidire, il tronco viene buttato a terra spaccandosi e mostrando il suo strano contenuto. Allora il Tenente, soddisfatto del proprio fiuto e comprendendo in fondo la scarsa nocività di un tale comportamento, li lascia liberi di portarsi nelle proprie baracche tutto quanto a condizione che questa però sia l’ultima volta.
L’Ufficiale tuttavia, soddisfatto per il suo intùito, la sera stessa, mentre si trova a mangiare alla mensa assieme a dei Dottori italiani in servizio all’ospedale del campo, dopo aver raccontato la vicenda, dice: “Voi Italiani vi credete furbi, ma con me si scherza poco. Oggi ho scoperto un trucco elementare adottato dai vostri soldati, e vi assicuro che difficilmente può accadere qualcosa di simile quando io sono d’ispezione!“
Per tutta risposta uno dei Dottori italiani gli lancia allora la sfida di scommettere un intero stipendio mensile per un’altra bravata dei soldati italiani
sotto i suoi occhi senza che egli se ne accorgerà minimamente.
Stuzzicato davanti a tanti colleghi, baldanzosamente accetta la scommessa e così se ne torna ognuno al proprio alloggio.
L’indomani ognuno dei due Ufficiali, prende gli opportuni provvedimenti per vincere la scommessa: il Tenente inglese raccomanda ai suoi militari di aumentare la sorveglianza specialmente al rientro dei prigionieri italiani dall’esterno; il Dottore italiano dal canto suo convoca il Capo Squadra degli addetti alla panificazione, nei locali della mensa in un momento in cui non c’è nessuno. Una volta seduti uno di fronte all’altro, il Dottore gli chiede l’elenco dei prigionieri che vanno regolarmente fuori ai forni per preparare il pane; tra questi, guarda caso, c’è anche un soldato curato proprio da lui e dimesso di recente dall’Ospedale.
Orbene, il Dottore a questo punto, scandendo bene le parole, gli dice: ”Bada bene a quello che sto per dirti, cerca di porre molta attenzione a quello che dovrai fare perché ci va di mezzo non tanto il mio denaro quanto specialmente la credibilità di tutti noi Italiani davanti all’opinione degli Inglesi! Per una scommessa con un Ufficiale inglese, è necessario che, quando egli sarà d’ispezione, voi facciate entrare nel campo almeno 10 sacchetti di farina da 450 grammi ciascuno.
Quando sarà il momento opportuno, voi porterete appresso i sacchetti di farina e, non appena arrivati in prossimità dell’ingresso del campo, uno dei tuoi uomini dovrà chiedere una barella all’Ospedale per il trasporto urgente di questo soldato che è stato da poco dimesso dall’Ospedale con la motivazione che sta molto male. Non a caso infatti ho scelto proprio lui perché è molto magro e sempre pallido; tra l’altro costui dovrà lamentarsi in modo plateale. A quel punto, io ti manderò una barella con due infermieri; tu distribuirai sul fondo i sacchetti di farina e poi li coprirai opportunamente con il lenzuolo; sopra infine farai distendere il finto malato e quindi di corsa senza fermarvi per nessunissimo motivo verrete da me. Raccomando la massima segretezza e diligenza; quando sarà il momento più opportuno, me lo fai sapere la sera precedente.” Dopo alcuni giorni da questa intesa, il Dottore viene avvertito dal Capo Squadra dei panificatori che l’indomani è il giorno stabilito e che tutti sono stati avvertiti, infermieri compresi.
Alle ore 9 del giorno stabilito, ecco presentarsi all’ingresso il camion con i prigionieri, mentre uno di essi parte subito per l’Ospedale, concretizzando quanto era già stato deciso precedentemente. Arriva la barella coi due infermieri, viene eseguito tutto alla lettera, e senza fermarsi al controllo, corrono per l’Ospedale dove il Dottore aspetta ansioso. Non appena arriva il”malato“, viene fatto chiamare il Tenente inglese, al quale, una volta arrivato, non rimane altro che prendere atto della beffa ricevuta e della scommessa persa. Anzi, davanti ad una simile strategìa, egli promette che mai più farà controlli ai prigionieri italiani visto che sicuramente ne conoscono una più del diavolo. E infatti è proprio così, anche perché alle caratteristiche tipiche della fantasia degli italiani si aggiungono in questo frangente anche le condizioni di necessità e privazioni che fanno aguzzare maggiormente l’ingegno.
Mentre da una parte accade quanto già raccontato, un altro gruppo di buontemponi, bravi ammaestratori di animali, escogitano un altro ingegnoso modo per portare dall’esterno oggetti utilizzando dei cani ammaestrati appositamente, addosso ai quali vengono messi degli appositi costumini idonei a portare anche determinati oggetti.
Non appena arrivano in prossimità del reticolato, pronunciano la solita frase: ”Attenti, arrivano gl’Inglesi!”, ed i cani ammaestrati a queste precise parole, corrono passando sotto il reticolato stesso e rifugiandosi velocemente nelle baracche sotto i letti dei propri padroni, i quali in tal modo si trovano il tutto”a domicilio”senza problema alcuno.In poche parole, la vita nell’accampamento diventa sempre più interessante e ricca di avvenimenti di vario genere che, in definitiva, alleviano le amarezze della lontananza dalla propria casa.

Cap. XXXVI

Grande pranzo di S. Giuseppe
Nasce un nuovo artista

M entre i primi mesi del 1942 rappresentano il periodo più delicato per noi prigionieri in quanto bisogna superare il problema dell’ambientamento nel nuovo sistema di vita, il fermento creato dalla realizzazione delle strutture sportive, religiose e di divertimento contribuiscono non poco a creare un clima di discreta accettazione delle privazioni imposte dal regime di prigionìa. In questo frattempo, la mia principale attività consiste sostanzialmente nel farmi conoscere da tutti quanti, Italiani ed Inglesi, come “ l’Orologiaio del campo N° 1“.
I proventi che da questa redditizia attività derivano, mi porta ad accumulare del prezioso denaro, utili amicizie e viveri in gran quantità. Una prova tra le tante è data da tutto quel ben di Dio che mi arriva dalla riparazione di alcune sveglie ed orologi appartenenti a militari del comando inglese che un bel giorno un Ufficiale mi affida col dubbio che non si possano riparare tutti e bene.
Nel momento in cui, però, se li vede da me restituiti in condizioni di buon funzionamento, costui mi offre come pagamento tanta di quella roba che ce n’è da mangiare per me ed i miei compagni di baracca per un mese e più:
? 10 sacchetti di farina 00 da circa mezzo chilo ciascuno;
? 8 chili di spaghetti e 2 di “capelli d’angelo “;
? 5 scatole di barattoli di salsa di pomodoro;
? 2 chili di formaggio pecorino;
? 5 chili di zucchero;
? e poi tanta altra roba come uova, burro, cacao, caffè, tè, e via di questo passo.
A questo punto, anzi, approssimandosi la ricorrenza del mio onomastico - 19 Marzo: festa di S.Giuseppe - mi viene la felice idea di fare una grande festa, invitando i miei numerosi amici, non solo per smaltire buona parte di quanto accumulato nella baracca ma specialmente per proporre anche qui la la festa dei “Panuzzelli di S.Giuseppe“, in uso nel mio paese natìo di Campofranco. In tale occasione, infatti, chi fa una tale promessa a S.Giuseppe prepara una tavolata ben imbandita con delle confezioni tutte uguali contenenti un particolare pane a quattro punte ricoperto di sesamo, qualche finocchio, un tipo di dolce fatto in casa per l’occasione, ed altri generi alimentari. Ognuna di tali confezioni viene offerta a ciascun invitato che, originariamente, doveva essere rigorosamente un poverello del paese, ma che col passare degli anni e con l’aumento del benessere, oggi può essere chiunque.
Tale desiderio inizia subito con il pensare alla grande: un numero elevato di invitati, un numero altrettanto elevato di portate, una eccezionale varietà di cibi, qualche strana novità per questo ambiente di privazioni. Partendo quindi da un minimo di 33 invitati, il primo problema da superare è quello di trovare un locale adatto a contenere tutte queste persone. Mi reco allora dai Cappellani Padre Ottavio Occelli e Padre Antonio Ricci per vedere se sono disposti a concedermi l’utilizzo della loro mensa, visto che a tutto il resto avrei provveduto io.
Dati gli ottimi rapporti esistenti tra noi, i Padri danno il loro beneplacito, a condizione di essere riavvertiti il giorno precedente la festa. Adesso bisogna pensare alle varie portate e poi ad avvertire gli addetti alla preparazione delle stesse; l’unica cosa che manca però è il vino, bevanda necessaria in qualsiasi occasione di un certo prestigio e che qui non esiste neanche in sogno.
Perciò, anche se non sarà possibile ottenere del buon vino di uva, penso che utilizzando altri frutti della terra si possa ugualmente ricavarne una bevanda simile. E così, dopo aver accuratamente pulito una tanica metallica da 18 litri, vi metto dentro banane, ananas, bucce di arance, di limoni e di patate, qualche altro ingrediente tra cui un barattolo di miele, la riempio d’acqua e faccio fermentare il tutto per 24 ore. Intanto provvedo a preparare un’altra tanica uguale alla prima destinata a contenere il liquido da filtrare ed un numero adeguato di bottiglie. L’indomani, travaso il liquido fermentato nell’altra tanica filtrandolo con delle garze grandi 40x40 cm., e, mentre decanta per qualche oretta, verso in ogni bottiglia un cucchiaio di tamarindo. Quindi riempio ogni bottiglia chiudendola con tappi di sughero ricoperti da un pezzettino di latta e fermati molto bene con del fil di ferro, proprio come le bottiglie industriali di champagne.
Ritenendo di aver fatto un buon lavoro, provvedo ora a parlare al cuoco dell’Ospedale - un caro amico che si chiama anch’egli Giuseppe - al quale chiedo il favore di prepararmi una torta per 33 persone. Dispostissimo ad accontentarmi, mi scrive la nota di tutto l’occorrente ed io vi provvedo con molta sollecitudine. Passo quindi a trovare un altro caro amico facente parte di un gruppo di prigionieri che vanno giornalmente a lavorare fuori l’accampamento, e gli chiedo il favore di portarmi per il 17 Marzo nove polli, spiegandone il motivo; anche questi offre la sua disponibilità e così gli do la somma necessaria per l’acquisto. Per ultimo, mi reco alla mensa dei Padri, per assegnare il lavoro più articolato ed impegnativo al cuoco, un altro carissimo amico di nome Abate; con lui passo quasi tutto il tempo delle mie giornate, visto che la mia disponibilità a servire le S.Messe mi porta a circolare nei pressi del suo ambiente di lavoro. Con lui parliamo a lungo di tutti i preparativi per questa festa da organizzare molto bene e alla quale già gliene hanno fatto cenno gli stessi Padri.
Dopo aver stabilito le quantità necessarie di carne, pasta, patate, formaggio, contorni e frutta, provvedo personalmente presso lo spaccio all’acquisto di tutto quanto manca a quello che ho già nella baracca. Al fine di non far brutta figura con quella specie di vino da me preparato un mese prima, il 17 Marzo verso le 10 mi reco dai Padri con una bottiglia di questa bevanda per avere un parere da uno di essi. Al mio bussare, viene incontro Padre Ricci; a lui mostro la bottiglia in atteggiamento di aprirla per provarne il contenuto; sollecitato da lui, mentre tolgo il fil di ferro che blocca il tappo non ho il tempo di trattenerlo perché viene letteralmente sparato come quello di una bottiglia di champagne.
Il liquido fuoriesce con uno spruzzo spumeggiante di color marrone che va diritto sull’abito bianchissimo del reverendo, macchiandoglielo tutto in modo disdicevole.
Mortificatissimo, chiedo sentite scuse per la sprovvedutezza del mio operato, ma ne ricevo sollecitazioni a non pensarci più, visto che sono cose che succedono a chiunque. Comunque, assaggiamo ambedue ciò che è rimasto, e con grande sorpresa concordiamo sull’ottima qualità di questo particolare vino-champagne, soddisfatti di poter avere tra due giorni sulla tavola anche questa gustosa bevanda. Per evitare comunque situazioni increscose del tipo testé descritto, una volta arrivato nella baracca, preferisco stappare delicatamente tutte le bottiglie e travasarle nuovamente nella tancica in modo da far perdere all’anidride carbonica tutto il vigore del gas; successivamente le riempio nuovamente, chiudendole col solo tappo, in attesa di svuotarle con soddisfazione il giorno della festa.
Il 19 Marzo 1942, onomastico mio e di alcuni miei amici, tutti e 33 gl’invitati alla festa da me organizzata con tanto entusiasmo, ci avviamo verso le 11,30 alla mensa dei Padri, portando ognuno le proprie posate e la propria provvista di pane. Il luogo della mensa non è altro che la baracca della falegnameria, dove le numerose panche soddisfano le esigenze di così tanti invitati. Verso mezzogiorno dunque tutti gli invitati sono ai loro posti in attesa che venga servito qualche boccone o comunque il solito piatto di tagliatelle fatte nel campo da noi stessi. Ma all’arrivo del primo piatto, spaghetti fumanti al pomodoro che risveglia ricordi lontani, si eleva dai convenuti un caloroso applauso generale, associato a qualche battuta di circostanza ed al quale fa sèguito la benedizione della tavola da parte di Padre Ricci.
Da questo momento è un susseguirsi di portate e di sorprese:
? 1° piatto: spaghetti al pomodoro al formaggio di prima scelta;
? 2° piatto: un quarto di pollo con patate;
? 3° piatto: bistecca con contorno di insalata mista;
? 4° piatto: frutta a base di ananas e banane;
? quindi torta, seguìta da caffè e tè.
Il tutto annaffiato dal “nettare“ prodotto dalle Cantine rinomate della ditta Scannella.
Un pranzo di questo genere perciò lascia allibiti i commensali al punto che alla fine vengono esternate ammirazione, ringraziamenti e congratulazioni sincere da parte di ognuno. Infatti nessuno di loro si sarebbe mai sognato di mangiare così bene e così tanto in un campo di prigionìa, per cui esso resta nella memoria di tutti come un pranzo da nababbi. Dopo la soddisfazione d’essere riuscito con successo a realizzare una cosa di questo genere, un’altra ancor più grande è in arrivo di qui a poco, la quale mi procurerà riconoscimenti decisamente più lusinghieri e di prestigio. Alludo alla nuova qualità di scultore che casualmente scopro di possedere e che mi permetterà di essere riconosciuto ben presto sia all’interno del nostro accampamento che persino nella capitale Nairobi.
Siamo nel Giugno 1942, e nel campo n°2 si apre una mostra dell’artigianato relativa ad opere eseguite dagli stessi prigionieri. Per mera curiosità, visto che in vita mia non ne ho mai vista una, mi reco a visitarla, restando tuttavia deluso per quanto esposto; in effetti mi accorgo che le opere evidenziate presentano ben poco di artistico o comunque di difficoltà esecutive. Saputo dagli addetti che la mostra resterà aperta ancora per un mese, sorge spontaneamente nel mio incoscio la spinta a esporre qualcosa di mio, non tanto per sfidare le opere altrui quanto specialmente per vedere se effettivamente riesco a creare qualcosa di personale. Uscito dai locali della mostra mi dirigo allora con determinazione verso la cucina, dove chiedo al cuoco se posso scegliere un pezzo di legno da portarmi con me per realizzare una statuetta.
Scelto il legno che ritengo più adatto allo scopo, non appena rientro nella baracca, riempio d’acqua la tanica usata precedentemente per la preparazione del vino, vi metto dentro il legno o lo faccio bollire per oltre 2 ore. Questa preventiva operazione ritengo sia necessaria per ammorbidire il legno, data la particolare natura della maggior parte dei vegetali africani molto portati a scheggiarsi facilmente quando vengono scalfiti con attrezzi da taglio.
L’indomani, per poter iniziare l’opera, cerco di procurarmi uno scalpello che, per la natura e destinazione del campo, è ovviamente impossibile trovare.
Come in altre occasioni, allora, inizio col crearmi da me lo strumento di lavoro; l’idea risolutrice mi viene guardando un enorme chiodo lungo circa 15 cm. che sporge dall’assito del tetto. Con la semplice forza delle mani, muovendolo ripetutamente a destra e sinistra, lo estraggo dal legno; quindi mi procuro dei grossi ciottoli compatti e duri e mi metto a battere la punta fino ad appiattirla a mo’ di scalpello; per il taglio provvedo poi a molarne l’estremità con una pietra arenaria Con questo rudimentale attrezzo, mi metto subito all’opera, lavorando con molta lena per una quindicina di giorni durante i quali frequentemente sono costretto a ripetere sempre la stessa risposta a chi mi chiede cosa stia facendo e quale modello stia seguendo: “Sto per creare una statuetta dell’Arcangelo San Michele su un modello che è ben delineato nel mio cervello !“ Oltre alle varie sfumature, cerco di dare un certo dinamismo ed un’espressione particolarmente articolata sì da conferire al tutto l’evidenza della superiorità del Bene sul Male rappresentato da un Angelo che ha osato ribellarsi a Dio. Ipotizzando inoltre l’eventuale trasporto, data la delicatezza delle varie forme, cerco di studiarne la smontabilità in vari pezzi.
Dopo questo diligente lavoro progettuale ed esecutivo, al termine mi accorgo di esser riuscito a creare una bella statuetta e ad esserne soddisfatto per la qualità ed il livello di fattura.
Anche se le dimensioni non sono elevate - altezza cm.30, larghezza e profondità cm. 25 - le perfette proporzioni conferiscono all’insieme un senso di realismo plastico veramente eccezionali; se poi si aggiunge anche una certa plasticità costituita dalla tunica plessata e lavorata dell’Arcangelo, dal mantello svolazzante, dalla lunga lancia pronta a colpire il Démone schiacciato dal piede sinistro, dalle belle ed elaborate ali, il tutto d’un brillante color rosso bordeaux, allora si comprende come abbia motivo d’essere veramente contento nello scoprirmi scultore dalle discrete capacità e valentìa (vedi

foto n. 65).

Perciò, dopo averla pulita per bene con uno straccetto imbevuto di olio per dare una certa lucentezza ad un legno di per sé abbastanza luminoso, avvolgo la statuetta in un panno e la presento al responsabile della mostra; questi, che ad una mia precedente domanda di presentazione di un’opera mi aveva risposto: “ la porti pure, purché non sia da buttar via! ”, non appena vede l’opera in tutto il suo splendore, resta veramente sbigottito.
E’ il 29 Giugno 1942, lo stesso in cui i miei tre famigliari rientrano finalmente a Campofranco, dopo sei lunghi mesi trascorsi in un campo di concentramento e ben 40 giorni di navigazione attorno a tutta l’Africa. Tali informazioni mi giungeranno tra qualche mese con una lettera commoventissima di mia moglie, dopo che ella, rientrata in Sicilia e rimessasi fisicamente e psicologicamente dalle tristi vicende subìte, riuscirà a sapere dove mi trovo. Questa pertanto è da ricordare come una data memorabile nel contesto della mia vita e di quella dei miei famigliari.
Un giorno, mentre mi trovo nei locali della mostra, vengo avvicinato da un Inglese il quale mi fa la favolosa offerta in sterline equivalente a circa 12.000 lire italiane per avere la statuetta di S. Michele, tanto è rimasto colpito dai pregi della scultura. Ringraziando per il lusinghiero apprezzamento, rifiuto gentilmente l’offerta, con la motivazione che ho deciso fin dall’inizio di portarla con me in Italia quando rimpatrieremo. Egli allora per convincermi a cedergliela, mi ricorda che nel trasporto le parti sporgenti inevitabilmente saranno soggette a frantumarsi; al che io gli faccio vedere smontati uno per uno tutti i 14 pezzi di cui è costituita la scultura, la qual cosa accresce ancor di più l’ammirazione di quest’Inglese per la mia opera.

CAP. XXXVII
La fama di scultore varca i confini del campo

L e soddisfazioni ed i meriti ottenuti con la partecipazione a questa 1a Mostra dell’Artigianato in questo Giugno del 1942 m’invogliano a ripetere l’esperienza nella prossima edizione del 1943, per cui mi dò subito da fare per realizzare una nuova opera che possa evidenziare ancor di più e meglio queste mie nascoste qualità di scultore, alle quali aggiungere anche se possibile quelle di pittore.
L’attenzione si concentra fin dall’inizio su un’immaginetta datami dai Padri durante la Settimana Santa, rappresentante Gesù in croce agonizzante.
L’espressione dolorosa e, al tempo stesso, solenne del volto di Cristo mi affascina tanto da orientarmi per una scultura di grandi dimensioni, che metta in evidenza non solo la drammaticità del momento ma anche la sublimità dell’espressione, evidenziate dai molti particolari da ricavare sempre dallo stesso materiale. Pertanto, avendo già provato a scolpire il legno, anche per questa seconda opera credo sia utile adoperare lo stesso materiale di prima; perciò, vado in cucina e scelgo un grosso tronco dalle dimensioni desiderate, di color castagno e molto leggero. Non potendo ammorbidirlo mediante cottura, come ho fatto con la precedente statuetta, per il fatto stesso che non ho a disposizione un recipiente di tali dimensioni, inizio col dare una sgrossata e fare una bozza di massima. Quindi lo dispongo opportunamente sul tavolo da lavoro per farlo stagionare a lungo. Un giorno viene a trovarmi Padre Ricci che, al vedere questo tozzo pezzo di legno mi chiede cosa devo farci; al che rispondo: “ Un primo piano di Gesù mentre esala l’ultimo respiro”.
Egli allora mi si avvicina sussurrandomi all’orecchio:
“Caro Scannella, ti consiglio di spaccarlo per cucinare e far da mangiare”.
Queste parole proferite da un Sacerdote che stimo molto, più che ferirmi nell’intimo mi danno nuova forza e vigore ad intraprendere un lavoro con maggiore impegno e maestrìa del precedente.
Utilizzando ancora una volta il solito rudimentale scalpello ricavato da un chiodo del tetto, dopo molti mesi durante i quali questo legno ha avuto modo di stagionarsi a sufficienza, mi metto all’opera.
Siamo nell’Aprile del 1943; ormai dopo la precedente esperienza, scolpire il legno diventa per me sempre più facile e così, giorno dopo giorno, dopo circa 75 giorni l’opera è terminata.
Anche questa volta, più osservo la scultura sotto vari profili, e più mi accorgo d’aver eseguito un altro capolavoro.

Continua – 16

Le precedenti puntate sono state pubblicate nei numeri di: 1 - Gennaio-Febbraio, 2- Aprile, 3 - Maggio-Giugno, 4 - Luglio, 5 - Agosto-Settembre, 6 - Nov.-Dic. 2006; 7 - Genn.-Febbr., 8 - Marzo, 9 - Aprile, 10 - Maggio-Giugno, 11 - Luglio-Agosto, 12 - Settembre-Ottobre, 13 - Nov. Dic. 2007; 14 – Genn.-Febbr.; 15 Marzo-Aprile 2008.


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