Memorie d’Africa
18a puntata
(1.1.1936 – 4.10.1946)
di Giuseppe Scannella
Tra l’altro ne so qualcosa, specialmente quando facevo servizio in Ospedale e vedevo soffrire tantissimo degenti di ogni età con dolori che partivano dalla zona lombare, si acutizzavano a livello delle cosce e delle gambe fino alla caviglia, paralizzando spesso il sofferente. Lì per lì sto attentissimo a quanto questi mi dice, senza badare al come ed al perché di questo incontro, dopo di che mi saluta e se ne va nell’incognito così come è arrivato.
Da questo momento non vedrò mai più questo signore né tanto meno ne conoscerò la sua identità; di una cosa però sono certo, e cioè che da questo momento sono a conoscenza di una metodologia semplice, sicura ed immediata che porta alla guarigione della sciatica. Per quanto riguarda ancora il denaro in mio possesso, onde evitare brutte sorprese preferisco portarlo al sicuro dai Padri, ai quali racconto il tutto e le mie paure; in particolare, mi rivolgo a Padre Occelli e gli chiedo se può essere così gentile da tenermeli nascosti in sacrestìa.
Nel frattempo vengo a sapere che a Nairobi hanno bisogno di infermieri per accompagnare gli ammalati in Italia in seguito alla stipulazione dell’Armistizio tra gli Inglesi e gl’Italiani. Allora ritengo che questa sia l’occasione buona non tanto per rivedere l’Italia, quanto specialmente per risolvere una volta per tutte la pericolosità di una fama troppo divulgata sul mio possesso di molto denaro. Accertata la veridicità dell’informazione, dichiaro perciò ai responsabili la mia disponibilità e così, dopo alcuni giorni, vengo trasferito al Campo 351 di Nairobi.
Vi arriviamo dopo due ore e mezza di viaggio tormentato da una strada pessima, e subito veniamo assegnati alle baracche approntate appositamente per noi. Le gigantesche dimensioni di questo campo, contenente ben 12.000 prigionieri, danno immediatamente un senso di oppressione: una vera e propria città nella città, con tanto di lunghi viali, incroci, ponti, e via discorrendo. Anche la guida religiosa necessita quindi di una figura preminente, come quella del Vicario Generale d’Italia Mons. Giuseppe Trossi.
Qui i giorni passano uno dopo l’altro sempre uguali, tristi e monotoni: non si fa altro che sbucciare patate in gran quantità oppure badare in tutto e per tutto ad alcuni maiali di proprietà di un civile.
Per lunghi e tristissimi 15 giorni perciò l’attività più ripugnante è proprio quella di dar da mangiare a questi sporchissimi e maleodoranti animali, pulendo per terra e senza alcuna gratificazione morale.
Di novità interessanti, quindi, nessuna ! All’infuori del solito Ingegnere che mi viene a cercare financo qui e mi chiede ancora la solita somma.
Questa volta però senza mezzi termini lo rimando indietro dicendogli perentoriamente: “Finora le ho già dato troppo. Ora basta! Mi dispiace tanto, ma non posso più far niente per lei; mi lasci quindi in pace”.
CAP. XXXIX
Campo di Ruaraca: 1a operazione di sciatica
Trascorsa qualche altra settimana ancora, vengo ulteriormente trasferito nel campo di Ruaràca, non molto distante da Nairobi, dove alloggiano circa 800 operai di una Ditta tedesca impegnati in costruzioni edili.
Dopo aver sistemato le mie cose nella baracca assegnatami, ed aver scelto uno dei 4 letti di cui è dotata, mi reco all’Ufficio del Comando inglese per ricevere le disposizioni stabilite per me, le quali prevedono l’attività di Infermiere presso l’Ospedale, assieme ad un Dottore, una Dottoressa armena sulla cinquantina, un Sergente Maggiore e due altri infermieri italiani.
Riprendere la mia vecchia attività in campo sanitario mi gratifica certamente molto più della precedente esperienza nel campo di Nairobi; anzi fin dai primi giorni verifico con grande soddisfazione l’utilità del segreto insegnatomi dallo sconosciuto nel guarire le sciatalgìe.
Infatti, dopo appena un paio di giorni dall’arrivo in questo nuovo campo, mi accorgo di un povero abruzzese alloggiato nella baracca confinante con la mia che incede alquanto ricurvo appoggiandosi ad un bastone, in quanto affetto da una forma grave di sciatica. Alla mia spontanea domanda sul male che lo affligge, egli mi risponde che tutti i tentativi di terapia fatti negli ultimi tre mesi, sia da parte italiana che inglese, sono stati un fallimento e che ormai è rassegnato a vivere in queste condizioni data l’inguaribilità della malattia.
A questo punto allora nel mio intimo riordino i suggerimenti avuti dallo sconosciuto, preparo tutto l’occorrente e con fare deciso gli dico: “Sei fortunato ad avere incontrato me; io sono in grado di guarirti definitivamente senza grandi interventi o lunghe terapie. Se tu sei d’accordo, in pochi minuti ti libero da questo male“.
Questi, anche se mi conosce appena pur di liberarsi di un male che lo affligge seriamente da tempo, mi dà il benestare ed io in pochi minuti eseguo il veloce ed insignificante intervento chirurgico suggeritomi dallo sconosciuto. Quindi gli raccomando di muoversi e camminare il più possibile e, con gran sorpresa di entrambi, dopo circa un mese l’abruzzese butta il bastone, raddrizzandosi sulla schiena come se non avesse mai sofferto di nulla.
Questa operazione di sciatica, la prima assoluta di migliaia della mia vita, mi ricolma di tanta soddisfazione non solo perché ho guarito un sofferente ma perché specialmente ho verificato la bontà del mio operare. Intanto, questo prigioniero”miracolato“, va a trovare un suo caro compaesano che si trova nel vicino Campo 360 di Antaruco, sofferente come lui da molto più tempo ed in condizioni ancora più gravi, visto che deve stare perennemente a letto immobilizzato.
Dopo gl’immancabili convenevoli, il loro dialogo s’impernia subito sulla vicenda che ha portato il mio compagno di campo alla completa guarigione, per cui è facile immaginare l’insistenza del suo compaesano nel chiedergli di fare da intermediario presso di me affinché io possa andare in quel campo a guarire anche lui.
Al rientro allora egli mi parla con parole drammatiche di questo suo compaesano e delle sue pessime condizioni fisiche, sollecitandomi ad accontentarlo. La mia pronta disponibilità a recarmi ad Antaruco tuttavia è ovviamente subordinata al permesso da chiedere al Comando inglese per un fine settimana. Il Venerdì successivo, dopo aver smesso il servizio, col permesso in tasca, ci avviamo verso la fermata della”Pidocchiera“, cioè la corriera che collega Ruaraca con Antaruco.
Questo automezzo di linea non è solo una vera e propria carretta ma merita a pieno titolo l’epìteto suddetto perché sembra che a muoverla non sia il motore ma bensì l’elevato numero di pidocchi lasciati dagli indigeni che se ne servono.
Ad Antaruco si arriva intorno alle 16; il saluto tra i due compaesani è più caloroso del solito mentre la mia conoscenza lo commuove al punto da fargli spuntare le lacrime. Tra una parola e l’altra passa circa un’oretta; un’altra ancora per mangiare, e così verso le 18 finalmente posso passare al piccolo ma portentoso intervento che lo fa immediatamente scattare in piedi con una commozione veramente indicibile. Dopo avermi abbracciato calorosamente e ringraziato con un caffè, mi forniscono una brandina a forbice per trascorrere la notte. Anche questa è una delle notti memorabili di questa”Avventura africana”in quanto finora mancavano solo le puzzolentissime e fastidiosissime cimici a rendermi impossibile il sonno. Infatti, subito dopo essermi sdraiato, dal tetto è un continuo stillicidio di questi schifosissimi parassiti che non mi fanno chiudere occhio fino al mattino successivo, quando ai primi bagliori di luce scatto in piedi con l’intenzione ferma di ripartire al più presto per Ruaraca.
Rientrato dunque al campo, riprendo la vita di tutti i giorni, anche se il dannatissimo raffreddore che mi tormenta ormai da oltre un anno e mezzo, tende a diventare ormai intollerabile. Da quando sono in servizio in questo Ospedale, cerco di tamponare alla meglio il naso che cola ininterrottamente inserendo nella narice del cotone di cui ho sempre piene le tasche del camice.
Un mattino però se ne accorge la Dottoressa e mi chiede informazioni in merito; al sentire la mia disperazione, mi consiglia una visita specialistica presso l’Ospedale di Nairobi. Qui giunto con una macchina dello stesso Ospedale e con la richiesta dei due Dottori che lavorano con me, attendo un bel po’ prima che un’altra Dottoressa possa farmi un’accurata visita. Questa tuttavia conclude con le seguenti parole: “Il suo non è un vero e proprio raffreddore, ma si tratta di allergìa al clima ed all’aria di questa zona. Non si preoccupi più di tanto, perché quando tornerà nella sua terra natìa le passerà ogni disturbo“.
Pur riportandomi appresso il mio problema insoluto, rientro comunque a Ruaraca tranquillizzato. Per cambiare ogni tanto aria e ambiente, tra l’altro, approfitto spesso dell’opportunità che mi vien data di recarmi nella capitale o per assistere a qualche partita di calcio, o per visitare la città stessa, ovvero ancora per andare a cinema. Infatti, una ditta tedesca, la Zurchiman, ogni volta che la nostra squadra deve recarsi in trasferta mette a disposizione dei prigionieri tifosi degli automezzi. Io ne approfitto e così mi reco a Nairobi dove non c’è possibilità di annoiarsi.
Di solito vado a cinema, ma non sempre riesco ad entrare in tempo visto che per i biglietti si fanno a volte code di un paio di ore; nel caso comunque che non ci riesca nel tempo a disposizione, faccio un giro per la città.
Girovagando, una volta ammiro un enorme dente di elefante di almeno 4 metri di lunghezza sorretto alle estremità da due catene che lo sospendono a mo’ di arco su una delle strade principali; un’altra volta entro nella Cattedrale Cattolica per fare una visita al S.S. Sacramento; un’altra volta ancora mi piace ammirare i bei negozi di stoffe oppure entro nello studio di un fotografo e mi faccio fare una foto per ricordo.
In una di queste visite alla città, ne approfitto per comprare un taglio di stoffa per un abito di qualità da portare con vanto quando rimpatrierò, se Dio vorrà. Prima però ne parlo con un sarto del campo, e gli chiedo quanta stoffa è necessaria per un taglio completo; quindi, con una bella somma di denaro in tasca vado direttamente in un negozio di commercianti indiani dove precedentemente ho adocchiato un bellissimo tipo si stoffa. Entro pertanto deciso e ai due Indiani che mi vengono incontro manifesto le mie intenzioni con dei gesti da farmi capire. Questi mi mostrano diversi tipi di stoffa pregiata di pura lana finché non mi soffermo su una in particolare di un bel color grigio gesssato.
A questo punto faccio cenno di tagliarmi una sottile striscia di tale stoffa, estraggo di tasca il mio inseparabile accendino e lo accendo sotto la stoffa per vedere se brucia e come brucia, annusandone il caratteristico odore e palpandone alla fine la parte bruciata Mentre io eseguo con estrema naturalezza queste semplici operazioni imparate da giovane per verificare se effettivamente il tessuto è di pura lana o no, di sottecchi noto che ben 6 Indiani si avvicinano e qualcuno di loro portandosi il dito alle tempia sussurra qualcosa che si può grosso modo interpretare così: “Molto intelligente ed astuto, questo Italiano !“
A questo punto, soddisfatto del tessuto, ne faccio tagliare 3 metri e mezzo e ne chiedo il prezzo: a 100 scellini al metro, per questo taglio di vestito scucio dalla mia tasca in tutto la considerevole somma di 350 scellini (circa 1.750 lire italiane). Rientrato nell’accampamento molto presto, ho il tempo di portare il tutto al sarto il quale, dopo essersi complimentato per l’ottima scelta, mi assicura che entro un paio di settimane il vestito sarà pronto. Con encomiabile puntualità, dopo circa 15 giorni il sarto mi consegna un vestito veramente di lusso e rifinito bene; dopo averlo provato, gelosamente e con tanta delicatezza lo conservo in valigia nell’attesa che si compia finalmente il desiderio di rivedere la famiglia.
In definitiva, questo di Ruaraca quindi è un periodo non eccessivamente intollerabile, durante il quale non accadono avvenimenti eccezionali ma nel quale si va avanti con la speranza sempre crescente che finalmente possa aver fine questo triste periodo di privazione della libertà.
CAP. XL
L’Italia e l’Inghilterra firmano l’armistizio
Sono ormai trascorsi quasi 5 interminabili anni da quando i prigionieri italiani siamo stati strappati alle proprie famiglie e trascinati da un accampamento all’altro, sempre col desiderio vivo nell’animo che arrivasse il giorno del rimpatrio. Ora, con l’anno 1946 giunge notizia che il Governo inglese e quello italiano sembra che vogliano firmare un accordo per porre fine a questo stato di cose, irrobustendo in tal modo le nostre speranze. In effetti, un bel giorno arriva una circolare che sancisce di fatto un tale avvenimento, visto che permette a chiunque ne faccia esplicita richiesta di poter lavorare a fianco dei militari inglesi prendendo paga uguale alla loro. Evidentemente molti aderiscono a tale possibilità e quindi tanti vanno a lavorare nei vari uffici; altri nei panifici o laboratori di vario genere; altri ancora nei magazzini della sussistenza; altri infine in depositi o centri commerciali di notevoli dimensioni come ad esempio i Magazzini Zingone.
Questi Grandi Magazzini sono talmente grandi e così polivalenti da rappresentare un vero e proprio enorme mercato dove poter comprare di tutto, anche se in questo particolare periodo la preferenza è ovviamente per le merci a carattere militare. Gl’Italiani che trovano lavoro all’interno di questa gigantesca struttura commerciale, tuttavia, trovano subito il modo di mangiare a due ganasce, nel senso che, oltre alla regolare paga cui hanno da questo momento diritto, ne arrotondano la cifra con espedienti che senza mezzi termini si chiamano ”furti”a tutti gli effetti.
Il fenomeno ben presto si generalizza al punto che quasi tutti indistintamente escogitano ogni giorno sotterfugi per sottrarre qualcosa di utile e portarselo a casa di nascosto dai controlli.
Pertanto, non è raro sentir circolare quello che ormai diventa un proverbio. “A Roma la Zingone veste Roma, a Nairobi la Zingone veste Nairobi“, nel senso che gli abitanti di queste due città han trovato il modo per vestirsi senza pagare. I metodi adottati sono tra i più diversificati, tanto che si arriva a far uscire dai magazzini perfino camion carichi di merce con bolle di richiesta militare portanti firme falsificate di notissimi Colonnelli. In piccolo, c’è chi entra con scarpe artigianali realizzate con cartoni e materiali di emergenza, e ne esce con scarpe di cuoio o pelle nuove di zecca, sporcate appositamente prima dell’uscita per non far scoprire il furto. Altri invece entrano seminudi e ne escono vestiti di tutto punto, oppure entrano con un vestito e ne escono con un altro indossato sotto il primo; si arriva perfino a smontare motobiciclette e portarsele fuori un pezzo o due alla volta. Indubbiamente questi raggiri non possono durare in eterno, visto che la Direzione ad un certo punto si accorge che molte cose non quadrano; perciò ad un severo e puntuale controllo generale, un bel giorno saltano fuori queste disfunzioni. Le più colossali sono quelle relative ad intere partite di merce che escono regolarmente dai magazzini con tanto di richiesta debitamente firmata da Colonnelli e con tanto di bolla di accompagnamento. Ciò è possibile perché alcuni Italiani hanno comprato dei camions di nostra produzione in svendita dopo la caduta dell’Etiopia in mano inglese, e li utilizzano per il trasferimento delle merci da un certo punto fino ai posti di appuntamento con mercanti indiani. In particolare, il metodo da tempo funziona a meraviglia, in quanto, una volta che il camion militare esce carico dai magazzini Zingone, viene portato fuori città in una zona appartata e defilata agli occhi indiscreti; qui un altro camion si colloca in modo che i cassoni risultino comunicanti, dando luogo al trasbordo di tutta la merce senza che alcuno possa immaginare la realtà delle cose.
Come già detto, questo andazzo di cose che sottraeva giornalmente quantità enormi di merce un bel giorno viene scoperto da un controllo più attento dei soliti. Scattano quindi le denunce circostanziate, che passano da un ufficio all’altro fino a quello del Generale Comandante del territorio di Nairobi. Questi immediatamente spicca un mandato di perquisizione da eseguire al più presto in tutto il Campo n° 351 della città, il cui Colonnello comandante conosce da tempo e molto bene quanto sia difficile prendere con le mani nel sacco questi prigionieri italiani. Il Comandante di questo immenso accampamento sa benissimo che oltre a tanti prigionieri modello ce ne sono anche tantissimi altri che già da civili erano poco raccomandabili; figuriamoci adesso in una situazione del genere se non ci può scappare qualcosa di grave. Perciò, non appena riceve l’ordine di perquisizione dettagliata a tutto il campo, il Colonnello declina ogni responsabilità per quanto di pericoloso possa eventualmente succedere durante le operazioni ci controllo, sottolineando fra le tante motivazioni almeno questa che da sola dovrebbe convincere a desistere dall’esecuzione di un tale ordine. “Il campo ospita gente che presso la Banca di Nairobi ha tanti e tali di quei depositi di denaro Che neanche la stessa Banca di Londra può vantarsi di possedere”.
Nonostante tali perplessità vengano immediatamente riferite in alto, un mattino prima ancora dell’alba il campo viene circondato da militari inglesi ed indigeni in assetto di guerra, tutti pronti in agguato in attesa di dare inizio all’operazione senza che nessun prigioniero sappia nulla. Invece, a causa del numero e dell’eterogeneità dei prigionieri contenuti nel campo, è inevitabile che in qualsiasi momento del giorno e della notte ci sia sempre e comunque qualcuno in giro, sia per necessità fisiologiche che per tanti altri motivi.
Per la qual cosa, sono diversi i prigionieri che in vari punti dell’accampamento notano qualcosa di strano e dei movimenti sospetti al di là dei reticolati; perciò danno subito l’allarme col classico metodo del”passaparola“. Sospettando controlli molto severi, in men che non si dica in ogni baracca qualsiasi oggetto sequestrabile sparisce come d’incanto dalla circolazione: d’altronde non si è nuovi ad operazioni di rapido occultamento mediante opera d’interramento, o utilizzando i cessi o gli assiti dei tetti, oppure ricorrendo ai bidoni della spazzatura. Infine, per nascondere invece gli oggetti più ingombranti si ricorre alle numerose piante o ai ponti esistenti in questa vera e propria città.
Alle ore 7 in punto viene aperto il cancello principale, viene dato l’ordine di stare ognuno all’interno della propria baracca compresi i lavoranti all’esterno, e ha inizio la perquisizione. Per lo scopo viene utilizzata una coppia di poliziotti della Military Police per ogni baracca ad iniziare dalle più distanti dall’ingresso: di ognuna viene controllato ogni angolo ed oggetto in essa esistenti.
Di oggetti di provenienza dubbia, evidentemente, nessuna traccia; gli unici oggetti particolari sono gli accendini o cosette di comune appetibilità che i proprietari volentieri offrono alle guardie; queste, accontentandosi con tali regalini, alla fine dichiarano di non aver trovato nulla, proprio nulla! In tal modo si conclude una vicenda che mal si concilia con il tanto sbandierato vanto degli Inglesi di avere grande”fiuto e capacità investigative“. Tuttavia però i prigionieri italiani non si distinguono solo per furti, sotterfugi, bravate o altro del genere ma anche per coraggio, bravura, capacità operative e tante altre qualità che abbondantemente sono venute a galla in queste ”Memorie”.
Infatti, tra tanti esempi che si possono richiamare alla memoria, il seguente accade proprio in questo periodo e sempre nel Campo 351 di Nairobi.
Una delle tante circolari invita gli autisti di macchine militari che vogliono collaborare a presentarsi al comando; uno di questi riceve l’ordine di portare un Camion 34 alla Polveriera, attigua al capannone della Sussistenza, e caricarlo di armi e munizioni. Giunto sul posto, trova un Tenente addetto al carico dei vari automezzi il quale, quando il camion è pieno solo a metà, gli dà l’ordine di partire. L’autista allora, nel mostrare all’Ufficiale la portata del camion, gli dice tramite interprete che sull’automezzo si può ancora caricare molta altra roba. Il Tenente lo accontenta, ma ultimato il carico dà ordine a tutti di stare distanti dal camion almeno 200 metri, perché è una polveriera che rischia di esplodere da un momento all’altro. Il camion invece viene regolarmente portato a destinazione senza che accada nulla di grave, grazie al coraggio e alla bravura di questo autista.
Avvenimenti di questo genere varcano i confini del campo, perciò, è naturale che mentre mi trovo a Ruaraca, venga a conoscenza di quanto detto finora.
Intanto, col passare dei mesi arriviamo ai primi di Agosto del 1946, quando un mattino mi sveglio con un febbrone da cavallo (40°). Viene chiamato il Dottore dall’infermeria che, dopo aver appreso i disturbi da me lamentati ed un’attenta visita, diagnostica con prontezza: si tratta di appendicite! Dovendo subire un intervento chirurgico, visto che il nostro Ospedale non ha le attrezzature ed i locali adeguati, il Dottore mi fa la base per essere ricoverato in un Ospedale Civile della zona.
L’indomani mattina verso le ore 5 parto su un’ambulanza alla volta di Nieri, località a sud di Nairobi, alle falde del più alto monte africano, il Kilimangiaro (6.000 m.s.m.). Nonostante i disturbi di cui soffro dopo un tormentato viaggio di oltre tre ore, fa un certo senso vedere quest’altissima montagna sempre innevata, nonostante sia all’Equatore e per di più un vulcano. All’Ospedale mi viene assegnato il letto n°4 del reparto di Medicina; quindi un’infermiera mi dà un termometro per misurare la temperatura e dopo alcuni minuti il Dottore inizia a visitare i degenti.
Questi, non appena arriva vicino al mio letto alquanto sorpreso esclama. “Tu qui, come mai?” Ed io nel rivedere in queste condizioni il responsabile del reparto ospedaliero di Giren dove lavoravo quando ero a Gimma, il Dott. Luigi Cattaneo, sento dentro di me un sussulto di gioia che mi porta a salutarlo molto cordialmente e ad intrattenermi volentieri a parlare con lui delle ultime vicende. Dopo i convenevoli, il Dott. Cattaneo si rivolge all’infermiere dicendo. “Questo paziente deve passare immediatamente in Chirurgia perché dev’essere operato al più presto di appendicite !” E rivolto a me. “Vai pure tranquillo, ché a momenti vengo personalmente a parlare al Chirurgo”.
L’indomani, verso le 10,30 vengo portato in sala operatoria dove su una parete spicca un grande orologio di forma circolare che segna le 11 esatte nel momento in cui mi viene fatta la puntura anestetizzante lombare.
Subito dopo, mentre io vedo e sento tutto ciò che avviene accanto e sopra il mio corpo, il Chirurgo incomincia ad affondare nelle mie carni il bisturi.
Da questo momento fino alle 13, quando cioè si conclude l’intervento, non faccio altro che lamentarmi per l’intenso dolore che avverto, visto che probabilmente l’anestesia non ha del tutto addormentata la zona interessata.
La cosa però che mi infastisce maggiormente è l’atteggiamento miscredente ed antipatico del Chirurgo, il quale cerca continuamente di zittirmi sostenendo ch’io finga di sentir dolore.
Il periodo postoperatorio di convalescenza è tra i più brutti di tutta la mia esistenza, in quanto gli effetti deleteri dell’anestesia, associati al particolare ambiente ed alle successive vicissitudini, mi arrecano disturbi tremendi.
Innanzitutto sento lo stomaco e l’addome gonfi di gas; la testa sembra continuamente scoppiarmi; quando mi alzo dal letto per recarmi alla ritirata o alla porta devo necessariamente reggermi alle brande, muovendomi come un sonnambulo; in pratica credo che l’anestetico abbia causato qualcosa di strano al cervello.
Per quanto riguarda il gonfiore causato dalla presenza di gas, io stesso suggerisco all’infermiere di mettermi una sonda nell’intestino, la qual cosa in effetti dà subito l’effetto sperato; per i disturbi cerebrali, invece, nonostante le continue sollecitazioni ai vari dottori, solo al terzo giorno mi viene iniettata una fiala per via endovenosa, che finalmente mi rimette in sesto.
CAP. XLI
E finita! Finalmente si torna a casa
Durante la degenza nell’Ospedale di Nieri finalmente arriva la tanto sospirata notizia del ritorno a casa; perciò, la permanenza in corsìa dura ancora alcuni giorni prima che mi trasferiscano al Campo di Antaruco in attesa del rimpatrio.
Non sono ancora trascorsi otto giorni dall’intervento chirurgico che già il regime alimentare torna ad essere quello di prima se non peggiore, a base di roba inscatolata e certamente non adatta al mio intestino. Per la qual cosa manca poco che non debba tornare in Ospedale per i gravi disturbi che accuso; ciò nondimeno, marco subito visita e vengo così ricoverato nell’ospedaletto del campo stesso. Qui almeno sono tenuto sotto controllo e l’alimentazione per fortuna è pià adeguata di quella che viene propinata a tutti gli altri prigionieri, restandovi fino a quando non arriva l’ordine definitivo del rimpatrio.
Le mie condizioni fisiche e le vicissitudini del periodo post-operatorio mi tengono talmente impegnato sui problemi che da essi scaturiscono, che ritengo di avere sempre la testa in pallone. Infatti, non solo non ricordo nessun dettaglio relativo ai preparativi per la partenza, ma al momento della consegna degli indumenti personali mi manca il cappotto; per fortuna che, segnalandolo in tempo, me ne viene dato un altro di color cachi.
Verso la fine di Agosto del 1946, finalmente si parte alla volta di Nairobi, da dove la sera stessa si riparte in treno per Mombasa; vi giungiamo l’indomani mattina verso le 10 e subito veniamo convogliati in un apposito campo di ammassamento in prossimità del porto.
La permanenza in questo campo provvisorio è subordinata all’arrivo della nave con la quale partiremo alla volta della sospirata Patria. Adesso la vita trascorre indubbiamente in modo più lieto e divertente, tra bagni, giochi vari, pesca ed altro, ma col pensiero rivolto costantemente ai nostri cari che rivedremo, si spera, quanto prima.
Verso la metà di Settembre arriva la nave che ci porterà in Italia, e quindi con i soliti automezzi veniamo prelevati dal campo e portati al porto per l’imbarco. Non esistono parole sufficienti ed adatte ad esprimere la gioia e la felicità dei nostri animi; ognuno di noi si abbandona a manifestazioni tali che a volte sfociano in isterismi veri e propri. Giunti al porto, col solito ordine, si effettua l’imbarco ed ad ognuno viene assegnato il proprio posto. Essendo ora di mangiare, con nostra generale meraviglia ci viene dato un pranzo costituito da: un primo piatto di semolino, da un secondo costituito da tre pezzettini di carne, un contorno di spaghetti scotti come colla ed un pezzetto di ananas.
La nave lascia gli ormeggi intorno alle ore 14, ma deve impiegare oltre due ore per uscire dal lungo e sinuoso porto di Mombasa, raggiungendo l’Oceano Indiano mentre è in condizioni proibitive di navigazione. Le onde che si abbattono sulla fiancata destra sono talmente alte da superare la stessa coperta della nave, la quale ondeggia paurosamente come una culla; perciò, se tanti miei compagni manifestano segni vari di disturbo, io appena reduce da un’operazione d’appendicite e ancora debilitato, non solo incomincio a vomitare ma probabilmente perdo anche i sensi. Infatti, da questo momento in poi non ricordo assolutamente nulla né della navigazione né del resto, in quanto solo dopo molti giorni mi accorgo di essere ricoverato nell’infermeria della nave e di essere già in prossimità del porto di Messina. Trovo la forza di recarmi sopra coperta per salutare finalmente la mia isola natale, la quale con un meraviglioso tramonto mi dà il più bel benvenuto da me sperato in questo memorabile 3 Ottobre 1946. Anzi, il Capitano è così gentile che in prossimità dell’’isola di Stromboli, fa rallentare la nave al fine di consentire a tutti di ammirare ed a qualcuno in particolare di filmare le scene stupende ed uniche della lava che si tuffa nelle acque del mare.
Infatti, essendo l’isola un vulcano attivo, la lava man mano che scende verso il mare trascina di tutto ed incandescente com’è, non appena precipita nell’acqua crea un fenomeno di evaporazione immediata a causa dell’elevatissima temperatura, il cui effetto finale è uno stupendo susseguirsi di altissimi zampilli spumeggianti di acqua come fosse una gigantesca fontana.
L’indomani mattina, 4 Ottobre 1946 (S. Francesco), alle ore 6,00 entriamo emozionati e felici nel porto di Napoli; l’emozione anzi si trasforma ben presto in commozione nel vedere sulla banchina ammassate ma schierate ordinatamente ai due lati delle scale di uscita della nave migliaia di persone appartenenti a varie Organizzazioni umanitarie pronte a offrirci pane, caffè e viveri in genere. Sceso a terra, non conto più gli oggetti che prendo avidamente da quelle pie mani che me li offrono: ricordo solo che riempio la camicia, le tasche, ogni angolo del vestito con almeno una trentina di panini che divoro avidamente prima di partire per il campo di smistamento. Qui giungiamo tra le ore 8 e le 9; ci viene offerto subito del caffè e ancora del pane, dopo di che si effettuano i raggruppamenti per Regione di appartenenza. Mentre si completano queste operazioni, ritengo opportuno far conoscere ai miei famigliari con un telegramma il mio arrivo a Napoli; purtroppo però verrò a sapere in seguito che tale comunicazione non è mai arrivata. Verso le 10 circa a tutti i Siciliani ci vien dato un vettovagliamento per i tre giorni di viaggio consistente ancora una volta nelle solite gallette e scatolette di carne; quindi partiamo con i camions alla volta della Stazione Ferroviaria. Scesi dagli automezzi veniamo ancora una volta incolonnati, ed in fila per tre al passo militare ci avviamo verso l’interno della Stazione.
Alle ore 14 del 4 Ottobre 1946 il treno parte alla volta della Sicilia.
CAP. XLII
L’“Avventura africana”
si conclude riabbracciando i famigliari
L’odissea a questo punto sembra giunta al termine, ma le condizioni del convoglio fanno presagire che dovremo soffrire ancora non poco, prima di poter mettere la parola”fine”a questa lunga e tormentata avventura. Infatti, salito sul treno, purtroppo non c’è posto dato che è pieno come un uovo; perciò devo accontentarmi di stare in piedi nel corridoio vicino allo sportello d’entrata.
Il lungo ricovero sulla nave ed un’abbondantissima colazione fatta al porto di Napoli non sono affatto riusciti a rimettermi del tutto in sesto; mi sento ancora molto debole e intontito. Perciò viaggiare in queste condizioni significa avere il colpo di grazia; tra l’altro uno dei più grossi problemi da affrontare è: come e dove orinare. In definitiva, un tale bisogno fisiologico ci fa chiudere gli occhi su tutto quanto in tempi normali viene ritenuto indecente ed incivile; perciò si utilizza il tazzino usato per l’acqua da bere, svuotando ogni volta il contenuto fuori dal finestrino. Dopo due lunghissimi e snervanti giorni di viaggio in condizioni bestiali, arriviamo finalmente a Termini Imerese, dove tutti quelli che dobbiamo proseguire per Agrigento, siamo costretti a scendere.
Pur essendo appena le 11 del mattino di questo 6 Ottobre 1946, veniamo avvertiti che per tutta la giornata nessun treno arriverà da Palermo con destinazione Agrigento, al che siamo costretti a sollecitare il capostazione a mettere un treno appositamente per noi. Questi, comprendendo appieno le nostre esigenze di rivedere al più presto i famigliari, chiede telefonicamente al Capo, ompartimento della zona di dargli l’autorizzazione a formare un treno straordinario per noi. Forse sollecitati dal nostro schiamazzo, ci viene accordato un treno che, con nostra soddisfazione, parte subito dopo.
Giunti però alla stazione di Roccapalumba il treno viene fermato definitivamente, senza possibilità di proseguire. A questo punto la rabbia e l’ira di tutti si trasforma in aggressione sul povero malcapitato capostazione il quale, guarda caso, è il mio paesano Melo Varagona. Allora mi butto nella mischia e facendo scudo con la mia persona prendo le difese di costui dicendo a tutti che è un mio carissimo parente. Per sua fortuna i protestanti si allontanano ma mi suggeriscono in massa di intervenire affinché possiamo tornare a Termini Imerese dove almeno c’è la possibilità di andare a cinema o passare comunque il tempo in modo meno noioso di questa isolata e minuscola stazione. L’amico Varagona, intuendo il cattivo verso, acconsente a tale richiesta e così si fa ritorno a Termini.
Date le mie condizioni fisiche, preferisco restare in stazione dove sdraiatomi su un sedile della sala d’aspetto prendo sonno fino all’indomani pomeriggio quando, alle ore 16, finalmente arriva il treno da Palermo per Agrigento.
L’ultima corsa per salire ha uno sprint particolare: ormai assaporiamo la felicità dell’incontro con i nostri famigliari e questo ci rende solleciti in tutto.
Giunti alla stazione di Acquaviva, tra quelli che scendono per Casteltermini c’è anche mio cugino Pietro il quale, nella confusione porta con sé il mio cappotto cachi: destino che debba arrivare nel mio paese senza cappotto!
La stazione successiva di Sutera è quella in cui debbo scendere perché da qui parte la corriera che va a Sutera passando prima per Campofranco.
L’autista però deve aspettare un po’ prima di partire perché mi intrattengo a cercare il cappotto che ovviamente non c’è più; rassegnato quindi salgo sulla corriera e prendo posto accanto ad una signora.
Questa, dopo avermi osservato con attenzione, mi rivolge subito la parola esclamando: “Mi scusi, ma lei non è Giuseppe Scannella, il marito di Lilla Di Prima da Sutera?” Alla mia risposta affermativa, lei si alza e mentre mi abbraccia mi dice. “Io sono tua cugina Maricchia (Maria) Marino; sono contenta di rivederti”.
Questo primo lieto incontro mi fa già pregustare la gioia dei successivi con i miei cari. Il breve tratto che congiunge la stazione con il mio paese viene coperto dalle notizie che ci scambiamo vicendevolmente, finché giungiamo nella piazza principale di Campofranco. Prima ancora ch’io scenda, mia cugina indicando due bambini fermi lì vicino assieme a tanti altri della stessa età, esclama con sorpresa. “Guarda, quelli sono i tuoi figli Vincenzino e Ninfuccia”. Data la fortùita circostanza, scendiamo ambedue dalla corriera e mia cugina Maria avvicinandosi ai bambini chiama i miei figli per nome, dicendo loro. “Questo è vostro padre!”
A questo punto con una gioia intima incontenibile e con immensa commozione li alzo ambedue da terra, li bacio teneramente e me li pongo sulle braccia, uno a destra e l’altra a sinistra. Saluto la cugina, ed entro subito in Chiesa a ringraziare il Signore per avermi dato la grazia di rivedere il mio paese ed i miei famigliari. Uscendo e tenendo ora per mano i miei figli mi avvio con un cuore che mi batte forte forte verso la casa paterna.
Giunti nel piccolo spiazzale”lu bagliu”di Via Enna, a poche decine di metri da casa, trovo seduta a sferruzzare la mia mamma Ninfa che, per la sua cecità, non si accorge del mio arrivo ma il sesto senso ed i suoni fin troppo familiari la fanno sobbalzare, e così ci abbracciamo e baciamo con una commozione che fa sgorgare abbondanti lacrime di gioia ad ambedue. L’arrivo nella casa paterna mi tuffa in un profondo ed indicibile sentimento di felicità ed al tempo stesso di mestizia nel non trovare papà Vincenzo, deceduto purtroppo durante la mia prigionìa. Stesse emozioni e comportamenti seguono l’incontro con le mie sorelle, mentre quello con mia moglie si tinge di drammatico in quanto non appena lei mi abbraccia perde i sensi per l’intensa emozione e gioia.
La notizia del mio rimpatrio si sparge ben presto per tutto il paese, per cui inizia un continuo andirivieni di parenti, amici, conoscenti e anche curiosi di sentire le mie disavventure. Quando, dopo molti giorni di queste visite, tutto torna alla normalità, incomincio a riordinare le mie idee e propositi per intraprendere una nuova vita ed un nuovo lavoro per assicurare da vivere a tutta la famiglia.
Così si conclude definitivamente questa mia ”Avventura Africana”che solo dopo circa 40 anni dai fatti deciderò di raccontare con le presenti < Memorie >.
Tuttavia, fin dai primi giorni dal rimpatrio spesso torno a rivivere con la memoria tutto quanto ho vissuto in quella terra lontana e spesso traggo le seguenti considerazioni partendo dalla convinzione che la mia Campagna d’Africa credo sia stata voluta dal Signore per:
essere di sprone ed esempio ai compagni d’arme o di prigionia nel vivere una vita intensamente cristiana, con il cuore e la mente rivolti sempre a lui nella preghiera e nel Sacrificio della S.Messa;
dare l’esempio di buon soldato di Sanità, dedito al proprio dovere specialmente nei momenti difficili, senza badare al pericolo, teso ad aiutare chi è nel bisogno;
salvare sempre delle anime, come nel caso dei 5 negretti battezzati nella zona di Wondo (vedi Cap. XI di queste memorie).
Questa, secondo me, è stata la mia missione in terra africana!
Infatti non a caso sono insorti sempre impedimenti di vario genere nell’attuazione di altri piani, quale ad esempio, quello di insediarmi definitivamente con la famiglia in Etiopia.
La prima casa si è incendiata; la seconda, dopo appena un anno e mezzo rasa al suolo; la terza, strappata con forza e con molta amarezza dagli Inglesi!
Sia quindi fatta sempre la volontà di Dio.
Giuseppe Scannella
(Finito di scrivere nel mese di Ottobre del 1988 in Campofranco, CL)
FINE – 18
Le precedenti puntate sono state pubblicate nei numeri di: 1 - Gennaio-Febbraio, 2- Aprile, 3 - Maggio-Giugno, 4 - Luglio, 5 - Agosto-Settembre, 6 - Nov.-Dic. 2006; 7 - Genn.-Febbr., 8 - Marzo, 9 - Aprile, 10 - Maggio-Giugno, 11 - Luglio-Agosto, 12 - Settembre-Ottobre, 13 - Nov. Dic. 2007; 14 – Genn.-Febbr., 15 - Marzo-Aprile; 16 – Maggio, 17 - Giugno 2008.
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