Semi di Senape
Paolo e i suoi alleati

Il viaggio del papa Benedetto XVI in Turchia e l’indizione dell’Anno paolino hanno fatto rivolgere l’attenzione della Chiesa universale alla terra d’origine di san Paolo. Di Tarso città filoimperiale e capoluogo della Cilicia, l’immagine storica è di un attivo centro commerciale e perciò cosmopolita; Cicerone che da proconsole è governante della Cilicia (51-50 a.C.) si mostra noncurante e Lucio Cassio in una lettera a Cicerone non nasconde la sua acrimonia verso i Tarsensi, chiamandoli «pessimi socii» (Cicerone, Ad familiares, XII, 13, 4).
Da questa ambiente in cui si colloca la comunità giudaica proviene Saulo che dopo la sua conversione sarà chiamato Paolo; un “compagno difficile” a motivo del suo carattere irruente e impulsivo, dalla personalità inquieta, se non instabile. Una difficoltà per gli studiosi che interpretano l’evoluzione di Paolo deriva proprio dal fatto che l’apostolo, recuperato sulla via di Damasco, non parla di questo episodio come di una conversione, in senso morale. La coscienza di tale evento è semmai nell’ordine di una illuminazione interiore, per quanto resta vero che Paolo perseguitasse i primi cristiani e che proprio il Risorto lo mettesse di fronte alle persecuzioni che ordiva e portava a termine.
Negli Atti degli apostoli al cap. 26 si legge la difesa espressa da Paolo di fronte ad Agrippa; da Luca, il cronista teologo, c’è riferito il terzo racconto della conversione di Paolo il quale non si considera affatto né un giudeo apostata, né un cristiano integralista. Paolo attesta d’avere compreso la fede ebraica e d’aver raggiunto la vetta della religione dei padri, conoscendo il Messia e ricevendo il dono della sua salvezza. Si può avvertire negli scritti del Nuovo Testamento come sia l’atteggiamento rispetto alla grazia divina, se poniamo un confronto con la Madonna; della Vergine Maria, nel Magnificat si legge che è cosciente della sua bassa estrazione; in Lc 1,48 «tapéinosis» significa scarsità; è lo stato oggettivo di Maria, cioè una condizione infima, di giovane «che non gode di alcuna considerazione agli occhi del mondo».
Invece nel discorso paolino di addio agli anziani di Mileto si legge «tapeinofrosýne» (Atti 20,19). Qui Paolo si riferisce al sentimento di umiltà, allo stato d’animo soggettivo, con cui ha servito il Signore Gesù. Non dimentichiamo che è Luca, l’osservatore degli eventi, a riportare il discorso che ricalca lo stato d’animo soggettivo di Paolo, seppure all’evangelista sia molto caro il lessico oggettivo dell’umiltà. Paolo nelle sue Lettere porta avanti il concetto dell’umiltà in rapporto all’edificazione della comunità che si costruisce con fedeltà reciproca.
Nel documento sulla Chiesa il Concilio Vaticano II riconosce che la beata Vergine Maria, riguardo alla cooperazione data all’opera della redenzione del Salvatore Gesù, è stata «generosa socia» in modo del tutto eccezionale (cf. Lumen gentium n. 61). Della coscienza di Maria, in quanto viene a conoscere l’opera della salvezza e accetta di allearsi alla redenzione del Figlio, possiamo dire che la sua profonda consapevolezza è unita allo stato di «impeccanza». La teologia cristiana esprime così che la Madonna non era estranea alla possibilità di peccare. A rigore solo Dio è impeccabile. Divo Barsotti, commentando il salmo 84, affermava: «in Maria si parla di impeccanza, non dell’impeccabilità, perché se fosse impeccabile ella non sarebbe più creatura» (Esercizi spirituali, Palermo 1965). È a partire dalla oggettiva condizione di «scarsità» creaturale che si innesta la condizione d’«eccellenza» quale Madre di Dio.
Al confronto, la condizione di Paolo è la «peccabilità»; l’apostolo, riconoscendo la trasformazione operata da Dio in lui, diviene consapevole del mistero della grazia. Paolo è più che l’Edipo della cultura greca; come ogni ellenista Paolo avverte il concetto che l’errore è una inavvertenza, un difetto di conoscenza, e che l’eroe greco a caro prezzo acquista la verità, come nelle tragedie dei classici; tuttavia l’esperienza della sua vita, di giudeo osservante e di missionario del Vangelo, lo conduce a maturare un concetto teologico del peccato, diverso da quello gnoseologico della cultura greca. Paolo nei suoi scritti non fa mistero sulla sua trasformazione (1 Cor 15,8-9), fino a divenire uomo nuovo in Cristo Gesù; sicché dei due popoli, (Israele e le Genti) avviene che si uniscono in un uomo nuovo (cf. Ef. 2,15). Egli mantiene comunque un certo riserbo sul significato più intimo della sua illuminazione; e di questo processo interiore in ogni caso non opera una rimozione psicologica; la faccenda di cui prova imbarazzante senso di colpa è solo la rottura dell’amicizia con Barnaba (Atti 15, 39-40).
Più di una volta, pure a causa del fatto di essere un difficile compagno, Paolo si trova solo e abbandonato nelle persecuzioni; le spedizioni missionarie risultano estenuanti. Al di sopra delle attitudini e delle motivazioni personali, Paolo riesce comunque a mettere il servizio del Vangelo, a fronte di ogni ipocrisia e slealtà.
Nei momenti di solitudine e di prigionia Paolo attesta che pochi collaboratori rimangono fedeli a lui; ad esempio Luca, Tito e Timoteo. Un secolo dopo la missione di Cicerone in Cilicia è proprio a Roma con il martirio di Paolo che si ribalta il giudizio sui «pessimi soci».

Don Salvatore Falzone


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