Semi di senape
Il nuovo Giobbe


Nel tempo della Quaresima la riflessione spirituale della Chiesa è rivolta alla passione di Gesù. Ora, nel libro di Giobbe si legge un passo imbarazzante; Elifaz rimprovera Giobbe dicendo «Tu distruggi la religione e abolisci la preghiera innanzi a Dio» (15,4). Giobbe, pur turbato da pesanti prove, fa appello a Dio e invocandolo come difensore. È paradossale, ma vero; la preghiera di Giobbe nasce da una autentica provocazione, o almeno da un modo di invertire le forme convenzionali della pietà e della religione. Ribatte verso Dio «Ha acceso contro di me la sua ira e mi considera come suo nemico» (19,11); pur esasperato dalle sofferenze, Giobbe si abbandonerà a Dio. Nella pericope 19,11-29 abbiamo un’anticipazione di questa finale resa: «Io lo so che il mio Vendicatore è vivo e che ultimo, si ergerà sulla polvere!» (19,25). Il passo, nel suo insieme, è proposto tra quelli per la liturgia dei defunti; inoltre si può riferire ad ogni cristiano e a maggior ragione a Gesù.
Bisogna premettere qualche osservazione per interpretare l’esperienza di Giobbe come una prefigurazione del mistero di Cristo; anzitutto, mantenersi fedeli al significato letterale e considerare come veridica l’esperienza di fede che in Giobbe ci è riportata a sintesi e modello di drammatiche vicissitudini interiori; poi, considerare che il problema del male sconvolge la devozione e la pietà meno avvertite; infine emancipare la stessa religione, messa da Giobbe in stato di accusa.
In atto di protestare l’uomo di Uz dice: «Mi uccida pure non me ne dolgo; voglio solo difendere la mia condotta davanti a lui!» (13,15) Il verbo jhl che significa «aspettare, attendere con trepidazione» acquista nel libro di Giobbe varie sfumature semantiche, in base alle situazioni descritte; implica in ogni caso di non disperare durante l’attesa. Il versetto, dall’originale ebraico, si può tradurre in due modi: «ecco, egli mi uccide, io non lo sopporto!»; e ancora «ecco egli mi uccide, io non l’aspetto!» (cfr E. Jenni – C. Westermann, Dizionario teologico dell’Antico Testamento). Proponiamo, ora: «ecco mi uccida pure! non dispererò! motiverò il mio comportamento dinanzi al suo volto».
C’è un senso minore, esistenziale, per così dire, del verbo jhl; una persona minacciata fino alla morte entra in grave trepidazione; e c’è pure un senso maggiore, che chiamiamo teologico, secondo cui Giobbe è pronto in ogni momento a rendere conto a Dio della sua vita, fosse pure ucciso con violenza!
La supplica rivolta a Dio dall’uomo, ingiustamente calunniato, ha vibrazioni estreme, nel salmo 7: «giudicami, Signore, secondo la mia giustizia, / secondo la mia innocenza, o Altissimo». Questa forza del giudizio umano di fronte a Dio si può concepire solo a partire da Cristo; l’esperienza di Giobbe prefigura quella di Cristo ma è solo l’esperienza di Cristo crocifisso che dà senso pieno a quella di Giobbe.
L’atto di rendere ragione o di motivare il proprio comportamento non è in forza di un merito; al verbo ebraico jhl che significa «attendere» si contrappone il verbo jkh che significa «motivare», un termine del lessico giuridico che fa parte di un tipico contesto processuale in cui l’imputato è chiamato a difendere la sua condotta (come del resto in Gb 13,6 e 32,12 e in altri dibattiti giudiziari tra Giobbe e i suoi avversari). Jkh significa di per sé «stabilire ciò che è giusto» e perciò «provare, ribattere, giustificare».
Tornando a Giobbe, anche se Dio lo uccidesse, proprio in forza di questo atto estremo sarebbe in grado di giustificare la sua vita dinanzi al volto di Dio. Noi possiamo comprendere questo passo di Gb 13,15 riflettendo sulla morte di Cristo. In una relazione equa tra il Padre e il Figlio si innesta un circolo, uno scambio d’amore che propriamente si chiama Spirito di santità. Nel linguaggio paolino, la libera rinunzia alle prerogative della divinità diviene, per il Figlio Gesù, autentico radicamento nella condizione umana, fino alla «morte di croce» che costituisce una completa abnegazione di sé; non c’è complicità con il peccato dell’uomo, ma prossimità al peccato universale. Il Signore Gesù che accetta di essere trattato da uomo maledetto, respinge così la maledizione che incombeva sugli uomini a causa del peccato d’origine.
Il Vendicatore che si erge vivo sulla polvere è sì il Cristo vero difensore divino, in quanto si rende in tutto simile agli uomini, fuorché nel peccato, come insegna la Lettera agli Ebrei. Nella condizione estrema di derelizione si compie la stessa immolazione della vita del Figlio. Colui che da Ultimo si aderge, non è tanto ultimo, nel senso di una posizione terminale o di un avvenimento che accade alla fine, ma è il Risorto che dà compimento a tutte le vicende umane. L’uomo nuovo, anzi novissimus è Gesù Signore che ricapitola la storia umana; si legge in un testo del Concilio Vaticano II che il Signore è il fine della storia umana e che «nel suo Spirito vivificati e coadunati, noi andiamo come pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana» (cfr Gaudium et spes, 45) .

Don Salvatore Falzone


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