Semi di senape
Nuovi preti per nuove parrocchie
La comunità ecclesiale è ben più di quella parrocchiale; quando attende nuovi sacerdoti si può rinnovare l’immagine di una comunità ecclesiale, e in modo specifico l’immagine di una parrocchia.
Diciamo subito che il termine parrocchia trae origine da paroikía che significa «gruppo di case vicine»; non a caso poi molti di noi immaginano la parrocchia come una casa (l’edificio di culto) tra le case (gli edifici civili e le abitazioni private). Siamo soliti considerare le abitazioni domestiche come gli ambienti dove ciascuno può trovare la sua dimensione privata, anzi intima, della vita. Il termine oikeíosis significa «intimità» e nientemeno san Basilio Magno sostiene che è lo Spirito Santo a creare «intimità» tra noi e Dio (De Spiritu Sancto, 19,49).
In Gv 14,2ss Gesù avverte i discepoli che nella casa del Padre suo sono pronte molte dimore in cui essi saranno accolti. Una scena poi è fondamentale: Gesù pone sua Madre a vivere tra le cose più intime e più care, quando dalla croce l’affida al discepolo Giovanni; si legge nel vangelo che «il discepolo la prese con sé». Nel testo originale si ha l’espressione eis tá ídia che significa: «la prese nella sua casa» ma pure «la prese tra le sue cose più care» (cfr. Gv 19,27b).
C’è una relazione tra abitazione e intimità, tra la dimora personale e la «cosa più cara». Questo ci fa pensare che tra l’apostolo che riceve nell’ultima cena il sacerdozio e Maria che riceve dalla croce la comunità dei fedeli ci sia un rapporto di valore teologico. In altre parole, la comunità ecclesiale è autentica nella misura che si sviluppano queste due dimensioni: quella sacerdotale, che riguarda tutti i fedeli, e in modo specifico i preti, e quella territoriale che riguarda l’ambito sociale e geografico in cui vivono i fedeli, come ad es. le parrocchie. Nei nostri comuni si vede sia la parrocchia come comunità sociale e religiosa, sia come ambito di attività condotte dal parroco con i fedeli. È bene dire che lungo i secoli i nomi presi dalle comunità ecclesiali locali sono stati diversi: pieve, rettoria comunìa… ma pur cambiando parroci titolari o confini territoriali le comunità ecclesiali, guidate dai sacerdoti che insieme cooperano alla guida del vescovo capo della Chiesa, non cambiano nella loro essenza.
Dà molto da pensare che il termine «parrocchia» nei testi biblici faccia capolino con un vocabolo paroikía che significa «esilio»; in At 13,17 si legge: Paolo, entrato nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, ricorda ai fedeli che «Dio esaltò il popolo durante il suo esilio in terra d’Egitto». Del resto anche gli altri apostoli e discepoli vivono come in esilio durante la prima fase di espansione missionaria della Chiesa. È questa, una condizione strutturale di chi segue Dio e il suo popolo. Nell’Antico Testamento si legge pure che Abramo visse come pellegrino, nomade, straniero. Abramo potremmo dire visse «da parroco», cioè «da forestiero»; è una prospettiva teologica per cui non può non essere autentico «parroco» quel prete che non sia forestiero a se stesso (perché è anzitutto Dio che viene a prendere posto completo nel giovane consacrato sacerdote) e non viva poi da pellegrino ogni spazio che viene ad occupare e ogni ufficio che viene a svolgere. Il vero parroco non si può arrogare nulla.
San Pietro avverte nella catechesi battesimale per i primi fedeli della comunità ecclesiale «comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio (paroikía)» (cfr. 1 Pt 1,17); volendo tradurre più alla lettera: «voi che vivete nel tempo della vostra parrocchia» (cfr. pure 1 Pt 2,11). Paroikía è un’abitazione dove trova conforto un pellegrino, ospite in una città; per essere ancor più esatti pároikos è l’ospite pellegrino che prende una dimora provvisoria, non è un cittadino di pieno diritto, rispetto al territorio, alla città e alla comunità in cui vive; egli testimonia a tutti di essere chiamati verso un’abitazione stabile come la patria eterna del cielo dove adempiendosi il Regno di Dio ciascun cristiano troverà diritto d’asilo.
Nei primi secoli è questo il modo di «vivere in parrocchia»; c’è un documento autorevole (databile al 96-98 d.C.) che l’attesta. È la Lettera ai Corinti di Clemente, papa, e vi si legge: «la Chiesa di Dio che abita da forestiera a Roma»; alla lettera si traduce «che è di parrocchia in Roma». È l’insegnamento di un papa che trasmette un documento autorevole, a nome del consiglio presbiterale di Roma, ad una comunità ecclesiale divisa da lotte interne. Si nota in documenti successivi, come l’Ad Diognetum (5,5); qui si dice che i cristiani sono anima del mondo e ciascuno di loro «abita una patria, ma come forestiero (pároikos); partecipa a tutto come cittadino, ma sopporta tutto come pellegrino; per il quale ogni terra straniera è patria e ogni patria terra straniera»
Nella Lettera ai Romani (9,3) di sant’Ignazio di Antiochia si legge nei saluti finali qualcosa che può finanche sconcertare, ma tant’è la dimensione di compiutezza del vescovo di Antiochia che chiede di morire da martire a Roma: «vi saluta il mio spirito e la carità delle Chiese che mi hanno accolto nel nome di Gesù Cristo, e non come un semplice pellegrino. Vi salutano pure quelle Chiese che, pur essendo fuori del mio itinerario, pur di potermi vedere, mi precedevano nelle città per le quali passavo».
Don Salvatore Falzone
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