Pagine di Storia – 1861-2011
Il nostro Risorgimento
L’idea di Unità nei riflessi letterari


Nel 2011 si celebrerà il centocinquantenario dell'Unità d'Italia che offrirà momenti e occasioni di riflessione sulla nostra storia e sulla nostra identità, necessari per realizzare una già profonda coscienza dell'unità nazionale nata dal Risorgimento che per alcuni autori è stato un fallimento laddove, come in Sicilia, maggiori erano le esigenze e le speranze di rinnovamento. Questo movimento non riuscì a frantumare le vecchie strutture sociali, anzi le rinsaldò, contribuendo in tal modo a mantenerle più a lungo in vita. La pagina epica del Risorgimento sulla spedizione dei Mille che contribuì ad aprire la nuova stagione dell'Italia unitaria. Nel “Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ambientato in Sicilia all'epoca dello sbarco di Garibaldi e del suo approssimarsi a Palermo, nella piena agonia del regime borbonico, il principe Tancredi combatté nelle file garibaldine non per spirito patriottico o per esigenze di rinnovamento della società siciliana ma per convenienza onde evitare ogni cambiamento e per imbrigliare entro l'alveo della conservazione la carica potenzialmente rivoluzionaria di quanto stava accadendo. L'opportunista Tancredi sperava di ricavare vantaggi per sé e per la classe aristocratica dalla partecipazione alla spedizione che si concluse con "l'addomesticato plebiscito" del 21 ottobre 1860, giudicato dal principe Salina un atto inutile di teatrale banalità" grazie al quale era nata l'Italia, ma era stata uccisa la buona fede dei siciliani. In esso si doveva votare SÌ o NO per una annessione già avvenuta di fatto con la conquista armata. In seguito, all'invito di accettare la nomina a senatore del nuovo Regno, con un lungo discorso all'inviato del governo piemontese, fiducioso nel progresso futuro, il principe Salina, convinto della sostanziale immobilità della storia, chiarì le ragioni del suo NO : "Ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio”. Infatti, egli non aveva fiducia nel nuovo Stato dominato non più dai gattopardi, la vecchia nobiltà con il secolare esercizio di una egemonia di classe, fatta di stile e di dignità, ma dagli sciacalli, la nuova classe in ascesa di arricchiti, di borghesi avidi, di parvenu, che usavano cinicamente il potere e goffamente la ricchezza. Un fatto rimane certo: la Sicilia affondò ancora nell'immobilismo e nell' indifferenza. "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi". Sono le parole dette da Tancredi allo zio principe prima di unirsi ai garibaldini. Aveva ragione! Tante stagioni sono passate e tanti cambiamenti sono avvenuti, ma tutto è rimasto lo stesso.
Anche ne “I Viceré” di Federico De Roberto è di scena una famiglia dell'alta aristocrazia isolana colta nel momento rivelatore del trapasso di regime, mentre già incalzano i temi nuovi. Una lunga serie di avvenimenti lega la famiglia catanese degli Uzeda i quali, fedeli sudditi dei Borboni, non esitano dopo il 1860 ad abbracciare la fede liberale e a dichiararsi sudditi ugualmente fedeli dei Savoia. La rivoluzione non ha cambiato nulla, ha solo legittimato sotto altra forma l'ordine costituito e lo hanno sperimentato bene i contadini di Bronte, che hanno visto accorrere Nino Bixio in difesa dei "galantuomini”. Il principe Consalvo, estraneo al progressismo, espone la sua ideologia del potere e il suo senso della storia che è la monotona ripetizione: mutano solo le condizioni esteriori. "Tra la Sicilia di prima del '60 ancora feudale e questa di oggi pare ci sia un abisso. Ma la differenza è tutta esteriore: La monarchia assoluta tutelava meglio gli interessi della nostra casta, ma una corrente irresistibile l'ha travolta . Il nostro dovere, invece di apprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servirsene". Nel comizio del 1882, tipico di un uomo politico di quel tempo e un po' anche di uno di oggi, il principe parla di tutto, tranne che dei problemi degli elettori. Nelle "cose" di Sicilia scoppiano le rivoluzioni, cambiano i governi, ma nell'isola a comandare sono sempre gli stessi. Il cinismo del principe è di grande attualità: mettersi in ogni occasione col vincente per conservare il proprio potere. Purtroppo, la rivoluzione che avrebbe dovuto segnare la fine di ogni privilegio ed instaurare una nuova era di libertà e di giustizia rivela il fallimento del Risorgimento e l'apparente patriottismo che unisce tutto. Il romanzo di De Roberto fa riflettere sulle colpe e sugli errori non ancora cancellati, che accompagnarono la fondazione dell'Unità d'Italia, con le contraddizioni di una particolare realtà storica e sociale.
“Libertà" la novella di G. Verga, arruolato nel 1860 nella Guardia Nazionale di Catania, ha uno strettissimo aggancio alla realtà storica del Risorgimento siciliano. Sbarcato in Sicilia, Garibaldi dava inizio nel 1860 alla liberazione dai Borboni. Le popolazioni isolane che offrirono il loro aiuto ai Mille speravano in una rivoluzione sociale per migliorare la loro condizione di sfruttati.
Soprattutto, si credeva che si sarebbe provveduto ad eliminare i latifondi dei grandi proprietari a favore dei contadini senza terre. Per rivendicare i diritti propugnati dai principi garibaldini, ignari dello scopo politico della spedizione, i contadini presero le armi e nella loro collera secolare tentarono di abbattere il potere dei nobili e dei borghesi. La novella è la rievocazione amara del tragico crescendo degli eccidi. L'episodio al quale Verga si riferisce fu il più cruento di questa ebbrezza rivoluzionaria ed ebbe come teatro la cittadina dì Bronte. Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi inviato a sedare la rivolta, riuscì a ristabilire l’ordine e con mano pesante punì i responsabili. Questa fu una pagina _imbarazzante del Risorgimento per il modo in cui fu condotta la repressione, ma il nuovo Stato fu deciso a difendere i diritti dei "galantuomini" e a punire con condanne esemplari gli attentatori dei privilegi della proprietà. I fatti diedero lo spunto a Verga per riflettere sulla concezione distorta della libertà, sui rischi e sulle irrazionalità cui giunge una rivolta quando non è guidata da una coscienza democratica già acquisita.
Il romanzo “I Vecchi e i Giovani” di Luigi Pirandello è un amaro quadro della vita siciliana dove viene colto il momento in cui le grandi aspirazioni del Risorgimento sembrano illusioni ingenue, subito cadute e soffocate sullo sfondo di una Sicilia rimasta drammaticamente immobile nel suo stato di abbandono.
L'unità politica raggiunta non era stata sufficiente a risolvere i problemi del Sud, dove, cacciati i Borboni, si erano insediati i nuovi tiranni, pronti a sfruttare le risorse e a condizionarne le scelte. Nel romanzo sono coinvolte due generazioni accomunate dal fallimento dei loro ideali che non hanno trovato conferma nei fatti: quella dei vecchi che hanno vissuto la dissoluzione del regno borbonico e la cattiva riuscita del Regno d' Italia, e non hanno saputo rinnovarsi e quella dei giovani che evidenziano tutta la loro impotenza e si adattano alla nuova situazione, dimostrando di non avere alcun punto di riferimento ideale o morale. Nel romanzo la materia è affrontata sulla base del ricordo che gli avvenimenti mostrano di aver lasciato nell'animo di Pirandello che, disilluso dal governo piemontese che tante speranze aveva acceso nei siciliani, così scrive: "Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed erano calati i continentali ad incivilirli!"

Lucio Bartolotta
(da “Il Centro Storico”, luglio-agosto 2010)


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