Quando e perché i boschi siciliani iniziarono a ricostituirsi

Sinceramente con il mio pensionamento pensavo di aver conclusa la mia modesta attività giornalistica, invece rieccomi qua a parlare nuovamente di problemi forestali. L'input mi è stato dato dalla suddetta duplice domanda, che mi aveva rivolto un collega.

Per rispondere a questa duplice domanda è necessario effettuare prima un tuffo nel nostro passato e precisamente nell’VIII° secolo A.C., periodo in cui s’insediarono i primi coloni che cominciarono a sfruttare le risorse dell’isola. Come si evince dall’allegata carta, anche se in maniera approssimativa, l’estensione dei boschi siciliani a quei tempi rappresentava quasi l’80% di tutto il territorio isolano, praticamente ad eccezione delle zone costiere e delle cime dei monti era tutto alberato.

A poco a poco, tale patrimonio boschivo venne quasi completamente dilapidato dai vari popoli, che nel corso dei secoli dominarono la nostra isola, unitamente alla complicità della chiesa medioevale che vedeva nella distruzione dei boschi, la fine dei riti e culti pagani praticati all’interno di essi.

Si deve aspettare la comparsa di San Giov. Gualberto di Vallombrosa (protettore dei forestali) e San Francesco d’Assisi perché al bosco fosse ridata la sua natura religiosa, in quanto espressione materiale di Dio.

Per avere un’idea di quanto era rimasto del patrimonio forestale di origine naturale nella nostra regione si riportano i dati Istat riferiti al 30 giugno 1947, dai quali si evince che la superficie boschiva ammontava ad ettari 85.643 , pari al 2-3 % dell’intera isola. Praticamente alla fine della seconda guerra mondiale il nostro patrimonio boschivo era stato quasi del tutto distrutto, resistevano soltanto alcuni popolamenti forestali localizzati in prevalenza sull’Etna, lungo la dorsale dei Peloritani e dei Nebrodi, nelle Madonie ed in minor misura nei rilievi più importanti della Sicilia.

Nel 1948 in poi era stata intrapresa dall’Azienda Forestale una lenta ma continua opera di riforestazione: inquadrata nell’ambito delle sistemazioni idraulico-forestali dei bacini montani, nonché nell’ambito prettamente economico con l’impianto di specie esotiche come l’eucalitto, il quale avrebbe dovuto rifornire le cartiere mai realizzate.

Attualmente nell’ultimo censimento del 1996, come si evince nell’allegata carta, la superficie boscata isolana ammonta ad ettari 283.080, pari all’11% del nostro territorio, di cui ben 66.293 ettari, alquanto degradati a causa soprattutto dei soliti incendi che devastano in poche ore quello che, con enorme fatica i nostri operai, dopo anni di duro lavoro, erano riusciti ad impiantare. Anche se il nostro patrimonio boschivo risulta essere triplicato rispetto alla quantità esistente nel 1947, in realtà è una cifra irrisoria se paragonata alle altre regioni italiane, dove la media, pur aggirandosi intorno al 30%, a sua volta, rappresenta pochissimo se paragonata alle percentuali delle altre nazioni europee.

Considerato che quasi tutta la nostra isola è a vocazione forestale, considerato che abbiamo avuto a disposizione il triplo degli operai forestali rispetto alle altre regioni italiane, avremmo dovuto essere la regione più boscata d’Italia, anziché essere il fanalino di coda della nostra nazione che a sua volta è il fanalino di coda dell’Intera Europa. Certamente avremmo potuto occupare un posto più dignitoso in questa classifica, se gli incendi boschivi (quasi tutti dolosi) estate dopo estate, non avessero sistematicamente distrutto tutto quello che si realizzava d’inverno, con enorme spreco di tempo e denaro tolto alle tasche della comunità.

E’ più difficile rispondere al secondo quesito, perché le motivazioni che hanno permesso la ricostruzione di parte dei nostri boschi non sono da ricercare soltanto nella volontà politica della regione siciliana di rimettere in sesto il disastrato territorio che si avviava verso la desertificazione, ma soprattutto nelle problematiche socio-economiche della classe contadina degli anni cinquanta.

All’inizio degli anni cinquanta tutti i reduci, anche coloro che erano stati costretti a pagare il debito di guerra, erano ritornati in patria, riprendendo il mestiere del mezzadro o del contadino (i mestieri più praticati).

Si ritornò a lavorare le terre dei latifondisti, grandi proprietari terrieri, i quali non esitarono a ripristinare la vecchia legge dei due/terzi (legge mai scritta), ossia due terzi del raccolto spettava al proprietario che metteva a disposizione il terreno, nonché qualche catapecchia, solo un terzo spettava al povero mezzadro, il quale dall’alba al tramonto era sempre chino a zappare la terra.

Sino a quando le bocche da sfamare erano poche, il povero mezzadro riusciva a stento a sopravvivere assieme alla propria famiglia. Purtroppo a quei tempi nelle campagne non esisteva ancora la corrente elettrica, né tanto meno la televisione, per cui l'unico passatempo consisteva nel fare figli, allora considerati unica assicurazione per la vecchiaia.

Di conseguenza le bocche da sfamare erano destinate ad aumentare, sino a quando il terzo del raccolto non bastò più a sostentare le famiglie dei mezzadri, che spinti da una fame atavica e dalla forza della disperazione cominciarono a trasferirsi nelle città, abbandonando in massa le campagne. Lo spopolamento delle campagne inizialmente non preoccupò i latifondisti, i quali erano sicuri che sarebbero tutti ritornati come “i vutiddri smammati” , cioè come i vitellini da latte momentaneamente privati della loro madre. Purtroppo quasi tutti i “vutiddri smammati” non ritornarono più nelle campagne, anzi abbandonarono persino le città, emigrando in massa nell'Italia del nord, nella Francia, nel Belgio, nella Germania, nell'Inghilterra e soprattutto verso gli Stati Uniti d' America, dove già sin dalla fine della prima guerra mondiale avevamo esportato alcune mele marce che infangarono con un marchio indelebile il popolo siciliano, costituito al 99% da onesti lavoratori.

Coloro che rimasero nelle città o nei piccoli paesi furono in gran parte assorbiti dalle miniere di zolfo e di sale ed in parte anche dall'Azienda forestale, che approfittando della congiuntura economica favorevole acquistò gran parte dei terreni abbandonati, già appartenenti ai grandi proprietari terrieri.

Quest'ultimi abbandonati dai loro schiavi, senza nessuno da sfruttare, si videro costretti a cedere in temporanea occupazione o addirittura a svendere i loro terreni alla forestale, con l'eccezione dei terreni più fertili che furono venduti ai piccoli proprietari terrieri che già erano considerati “i burgisi”. Questa nuova classe di veri contadini che non avevano paura di sporcarsi le mani e di lavorare personalmente i propri terreni assicurò un certo benessere, sfamando la popolazione cittadina e dando un lavoro saltuario ai cosiddetti “iurnatara”, ex-mezzadri che per la loro età un po' avanzata non avevano avuto il coraggio di emigrare e quindi vivevano alla giornata, lavorando saltuariamente alle dipendenze della forestale o della piccola borghesia rurale.

A metà degli anni ottanta, con uno sforzo economico non indifferente, la regione siciliana acquistò in maniera definitiva tutti quei boschi appartenenti a privati che erano già stati ceduti alla forestale in temporanea occupazione, incrementando in maniera considerevole il demanio forestale, anche con l'acquisto di nuovi terreni da rimboschire. In particolare nella nostra giurisdizione vennero acquistati diversi appezzamenti di terreno, limitrofi al bosco di Zellante, le lavanghe di Polizzello ed il secondo lotto di Spagnolo, che con i suoi 226 ettari di bosco misto, l'area attrezzata, il ripristino dei vecchi casolari, incluso una piccola chiesetta, costituisce il fiore all'occhiello di tutta la nostra giurisdizione. Attualmente l'Azienda forestale vivacchia sugli allori, da oltre vent'anni non vengono assunti operai, né si bandiscono nuovi concorsi per guardie forestali, la cui età minima ormai si aggira sui cinquanta anni.

Forse il nostro governo ha finalmente capito che è inutile investire risorse e denaro pubblico per realizzare nuovi boschi che inevitabilmente sarebbero destinati ad essere bruciati. Oggi si punta soprattutto sulla educazione ambientale nelle scuole elementari e medie, al fine di poter cambiare la mentalità delle nuove generazioni, al fine di sradicare la cultura del fuoco ed inculcare nella gioventù quel sacro rispetto che i nostri antenati avevano per la natura.

Concludo con una frase che era solito pronunciare il prof. Alfonso Alessandrini “occorre ripristinare le coscienze più che porzioni di bosco bruciato, così almeno avremo la speranza di salvare il bosco di domani.”

Salvatore Butera