Il brigantaggio di Anzalone e Salvo – 1874
La sera del 9 febbraio 1874 Andrea Salvo
di Lorenzo e Gaetano Anzalone di
Francesco, chiamato fuori dalla sua casa, Giuseppe Capitano, lo uccisero a
schioppettate e si diedero alla macchia.La causa dell’assassinio fu la
divisione del bottino frutto di una rapina ai danni di un venditore di olio,
nella quale Giuseppe Capitano aveva fatto la parte del leone.
Andrea
Salvo, nacque a Montedoro il 12 settembre 1854,
figlio di Lorenzo, inteso Luàgliu, e di Angela Mantione. Andrea Salvo, nel 1871, sposò Vincenza
Montagna e nel 1872, nacque il figlio Lorenzo.
Gaetano
Anzalone, nacque a Montedoro, il 1 dicembre 1851, da
Francesco, inteso Carrabbuni, e da Vincenza Ventura. Nel 1872 Gaetano sposò
Calogera Fragale e nel 1873, nacque il loro figlio Salvatore.
Salvo e Anzalone facevano i braccianti in
campagna e in miniera e, divenuti amici per affinità di idee, iniziarono con
piccole ruberie che valsero ad affiliarli alla mafia locale. Dopo il furto ad
un negoziante di olio e l’uccisione del
loro complice, Giuseppe Capitano, si diedero alla macchia, taglieggiando
feudatari e borghesi danarosi. In breve tempo si fecero una triste fama non
solo a Montedoro, ma, anche, nel circondario. I due briganti erano a conoscenza
che Onofrio Caico, persona timorata e praticante, soleva, verso sera, farsi una
passeggiata lungo lo stradale per Serradifalco. Nella località Madonna delle
Grazie, la sera del 3 luglio 1874, i due briganti, sorpresero Onofrio Caico
insieme a Don Gaetano Calamera, parroco della chiesa Madonna del Rosario e Don
Giambattista Alfieri, cappellano. Puntando contro di loro gli schioppi,
imposero a tre di andare avanti per il viottolo che porta a Gibellini. Caico e
Calamera obbedirono senza fiatare, mentre Alfieri si diede alla fuga verso il paese, gridando e
schiamazzando. I due briganti non spararono al fuggitivo, ma spinsero Caico e
Calamera verso i gessi di Grottazze. Salvo e Anzalone dissero al parroco:
“Patri vicariu na va scusari! Ora Vossia si ni turnassi a lu paisi!”. Padre
Calamera lentamente fece ritorno in paese dove confermò quello che aveva
narrato padre Alfieri e, cioè, il sequestro di Onofrio Caico. I briganti con il
sequestrato arrivarono oltre il Chiarchiaro di li Musci, dove trovarono un loro
complice con una mula bardata sulla quale fecero montare Onofrio Caico e
sparirono nella oscurità verso la
Robba di Bellanova. La notizia del sequestro di persona mise
in subbuglio il paese e Cesare Caico, cugino del sequestrato, e il dottor
Paolino Guarino, cognato del sequestrato, mandarono subito un gruppo di persone
armate ed a cavallo per cercare di liberare il loro congiunto, ma a causa del
buio non riuscirono nella missione. La forza pubblica con la collaborazione di
numerosi agenti provenienti da Serradifalco e da Caltanissetta setacciò tutto
il territorio circostante senza trovare alcuno indizio. Passarono alcuni giorni
di ansia e di incertezze, quando, un emissario dei briganti, segretamente,
avvicinò il fratello del sequestrato Giorgio Caico e gli riferì che il
prigioniero stava bene e che mandava un biglietto alla famiglia affinché
preparassero trenta mila lire per il riscatto. I Caico e i Guarino affidarono
le trattative del riscatto al maestro Calogero Infantolino e dopo lunghe
trattative i briganti si accontentarono di 18 mila lire, in biglietti di
piccolo taglio. Dopo la consegna del denaro Onofrio Caico venne liberato il 14
luglio del 1874, dando chiari segni di turbamento mentale. Il 16 luglio arrivò
a Montedoro il vicepretore di Serradifalco, con un delegato di pubblica sicurezza,
per interrogare Onofrio Caico e Calogero Infantolino. Il 18 luglio Cesare Caico
presenta un ricorso contro la compagnia dei militi a cavallo per risarcimento
di danni in favore di Onofrio Caico, ma non ottenne niente. Fu in questo periodo che venne costituita,
a Montedoro, la Caserma dei carabinieri
nei locali di via Diaz. La triste nomea dei due briganti si diffuse in
tutto il circondario dove ricatti, furti e rapine si susseguivano. Le forze
dell’ordine erano impegnate, con continue operazioni di ricerca, per stroncare
le losche attività dei malviventi.
Nell’autunno del 1874, l’11 ottobre i due
briganti incontrano una pattuglia di carabinieri in perlustrazione con i quali
scambiano diverse fucilate e, poi, si allontanano facendo perdere le loro tracce,
lasciando sul terreno una cacciatora, uno scapolare e tante cartucce.
Il
13 ottobre, il brigadiere di Serradifalco con tre militi a cavallo, tre
cavalleggeri e due carabinieri riescono ad individuare i due briganti, Andrea
Salvo e Gaetano Anzalone, che si trovavano
dentro una casa rurale di proprietà di Marco Lumia di Canicattì, nella contrada Giffarone, in territorio di San
Cataldo. Chiamato il campiere di Lumia gli impongono di comunicare ai
banditi di arrendersi e avere salva la vita. I due malviventi, gridarono
minacce di sterminio e cominciarono a sparare delle schioppettate. Ci fu un
lungo conflitto a fuoco e, quando i due briganti rimasero senza munizioni,
Andrea Salvo disse al suo compagno:”Per noi è finita! Anziché arrenderci è
meglio che ci uccidiamo! Così non diamo baldanza agli sbirri!” Gaetano Anzalone
acconsentì, ma quando vide il Salvo, che si sparò un colpo alla testa, cadde
per terra pieno di sangue, non ebbe più
il coraggio di ammazzarsi e, fatti i segnali di resa, attraverso un “purtiddruzzu”,
si consegnò alle forze dell’ordine. I militi entrarono nella casa e trovarono,
sotto un cumulo di paglia, Andrea Salvo, cadavere, ucciso da un colpo di arma
da fuoco alla tempia e la sua giumenta
distesa per terra esanime. Con la morte di Andrea Salvo e la cattura di
Gaetano Anzalone ebbe termine il triste periodo per la popolazione di Montedoro
di sorprusi, ruberie e angherie con le
conseguenze di parecchie condanne di cittadini come favoreggiatori o complici e
l’assegnazione alla sorveglianza speciale per alcuni. Nel processo, che si
tenne presso il Tribunale di Castrogiovanni (Enna), il bandito Anzalone accusò
se stesso ed il compagno di tutti i crimini che gli attribuivano senza mai
coinvolgere altri manutengoli e compiacenti. La condanna del Tribunale fu
l’ergastolo e Gaetano Anzalone, dopo tanti anni di carcere duro, morì vecchio
nel penitenziario di Civitavecchia, assistito dal compaesano Calogero Sciandra,
che si trovava in carcere condannato innocente. Infatti Sciandra fu liberato dopo
24 anni di carcere per la confessione del vero colpevole dell’assassinio a lui
attribuito.
Calogero
Buccoleri, Testa di Peddri, ha raccontato, nel 1916, che, nell’estate del 1874,
aiutava nei lavori dei campi Lorenzo Salvo, padre del bandito Andrea. Mentre si
trovavano in località Cugnu dei Gessi, in un’aia di frumento, arrivarono, a
cavallo e ben vestiti, i due banditi Andrea e Gaetano e quando il Salvo,
avvicinatosi, disse al padre:”Vossia benedica papà!”, il vecchio Lorenzo Salvo
rispose:”Vatti a consegnare alla giustizia! E allora ritornerai ad essere mio
figlio, perché Lorenzo non ha figli briganti!”. Andrea cercò di giustificarsi
dicendo che la disgrazia lo aveva perduto e che ora gli portava un poco di
denaro per servirsene per i suoi bisogni. La repulsa del vecchio padre fu
straordinaria: impugnò un tridente e minacciò il figlio di colpirlo se non
fosse andato via.”Vattene sciagurato!” Anzalone trasse il compagno fuori
dall’aia e, montati a cavallo, si allontanarono.
Nel 1916 Carmela Duminuco di Paolo dettò
alcuni versi in dialetto sui briganti Anzalone e Salvo.
“Quannu era juntu a lu Passu di Graci/ mi
votu e viju ‘na cavalleria:/ su tri cumpagni e vinticincu armati./ Tutti
curreru a la sequela mia,/ Tutti sparare cu pruvuli e baddri./ Tutti spararu a
la pirsuna mia./……..Ora li genti si misiru a gridari:/ Chistu è Nzaluni chi
siquistrà a mia!/ Chistu a me patri vinni
ammazzari!/ Chistu m’arruvinà la purcaria!!...........Ci l’aju rutti
setti giarri d’ogliu,/ e senza chioviri lu hiumi curriva,/ setti surelli ci
l’aju arrubbatu,/ l’aju purtatu a dòrmiri cu mia./….E li carnuzzi mè fuàru
salati/ di li lignati ca diàttiru a mia,/ abbucateddri parlati parlati/ e
difinniti la pirsuna mia……Nfami lu lignu e’nfami lu lignaru/ Nfami lu mastru ca
lu spiccicau/ Nfami lu jissu e ‘nfami li jissaru,/ ‘nfami lu mastru ca lu
macchiau;/ Nfami la rocca e ‘nfami lu ruccaru, / Nfami lu mastru ca li carriau/
Dintra e di fora di fiàrru allannatu,/ Stu carzaru pi mia fu distinatu.
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