Il Legionario di Spagna: Girolamo Ferlisi di Sutera
Il Giornale di Sicilia del 15 giugno 1938 in
“Cronaca della Sicilia”, diede la notizia che
un legionario suterese, era caduto eroicamente in Spagna.
“ Il 23 marzo scorso “ riportava l’articolo “
nella battaglia dell’Ebro per la redenzione della Spagna contro
l’orda bestiale bolscevica, è caduto il sergente Ferlisi
Girolamo fu Onofrio volontario da circa 20 mesi”. Il
sottufficiale suterese si era arruolato nel mese di luglio del
‘36 con il grado di caporal maggiore ad appena 19 anni. Nel
gennaio dell’anno successivo era stato spedito in Spagna dal
regime fascista, per sostenere l’insurrezione del generale
Francisco Franco contro il governo del Fronte Popolare eletto
democraticamente. In Spagna era scoppiata la guerra civile. Quella
guerra che per tre anni avrebbe contrapposto le destre falangiste
e carliste alle sinistre repubblicane e democratiche: una
guerra che avrebbe impegnato direttamente ed indirettamente, i
più importanti stati europei e il Messico . Con i franchisti
stavano l’Italia, la Germania ed il Portogallo, con i
repubblicani le brigate Internazionali, l’URSS ed il Messico.
L’Inghilterra conservatrice e la Francia democratica, che
avevano caldeggiato la politica dell’apeasement, ed
il “patto di non intervento” mantennero una posizione
ambigua e altalenante.
“ A comunicare la morte dell’eroico caduto “
continuava l’articolo “ è venuto in questa il
capitano Fedola Pietro inviato dal XII corpo d’armata il quale,
accompagnato dalle autorità locali, civili e militari, si
è recato all’abitazione del caduto portando le
condoglianze del Duce e del corpo d’armata”. I funerali
vennero celebrati senza la salma, nella chiesa Madre del
quartiere Rabato, con l’intervento dei balilla, delle
piccole italiane, della milizia, del podestà e del
segretario del partito, che fecero sfoggio della retorica di regime.
Parlarono dell’amor di patria e della religione, del bolscevismo
ateo e del fascismo rigeneratore delle coscienze, di impero coloniale e
di autarchia. Alla messa officiata dall’arciprete Scibetta
partecipò anche monsignor Giovanni Iacono, vescovo della
diocesi, occasionalmente nel piccolo paese per la visita alle scuole
parrocchiali di catechismo.
Girolamo Ferlisi era rimasto orfano del padre, il 1 gennaio 1918,
a sette mesi dalla sua nascita. Il genitore, vittima
della “Grande guerra”, era morto in un campo di
prigionia tedesco nei pressi di Merseburg, in bassa Sassonia, per gli
stenti provocati dalla miniera di carbone in cui erano cotretti a
lavorare i prigionieri italiani. Il traduttore del certificato di
morte, spedito allo stato civile del comune di Sutera, l’aveva
definita “debolezza cardiaca”. Ma non era riuscito, pur
nella traduzione dal tedesco e nello stile burocratico del
documento, a dissimulare le sofferenze che trasudavano da quella
cruda e tranciante “causa mortis”. Padre e figlio non si
erano conosciuti: la guerra li aveva strappati al reciproco
affetto. Girolamo era cresciuto con la madre e la
sorella maggiore in una casa del Rabato, vicino ai nonni materni.
Vivevano in un cortile a pianterreno in una casa di gesso,
dove La madre aveva dovuto inventarsi un lavoro da fornaia. Con
loro andò a vivere anche Pasquino un muratore del paese che la
madre aveva sposato in seconde nozze, dopo l’accertamento della
morte del marito. I rapporti tra Girolamo ed il patrigno non erano mai
stati buoni. Già nel mese di marzo del ’36, il
ragazzo aveva tentato di arruolarsi come allievo sottufficiale
utilizzando un bando pubblicato nel giornale del soldato, ma era stato
dichiarato inidoneo per una forma di nevrosi cardiaca. L’ansia
della scelta e della visita medica, in un ambiente estraneo alla sua
vita quotidiana, gli aveva eccitato il giovane cuore.
Pensò di essere stato più fortunato qualche mese dopo,
quando la sua richiesta venne accettata. Non era un fascista e non
capiva niente di politica. Si riteneva soltanto un
contadino, innamorato della sua terra che non sopportava più i
dissapori con l’altro uomo della famiglia.
Malgrado fosse ancora un bambino infatti aveva vissuto momenti
drammatici quando il nonno materno, Mario Noto, aveva dovuto
testimoniare contro il suo stesso genero in un processo di mafia. Se ne
dissero di tutti i colori per quella strana e decisiva testimonianza.
Ma nessuno potette cancellare dalla mente di Girolamo le minacce
del patrigno a suo nonno, gli andirivieni dalla caserma dei
carabinieri, la disperazione di sua madre. Suo nonno, era stato
occasionale testimone dell’assassinio di un contadino nel feudo
Sampria, la notte tra il 29 e 30 di giugno del 1920. Quattro
individui lo avevano svegliato, mentre era sdraiato accanto alla
sua aia, chiedendogli dove si trovasse l’uomo che cercavano.
Freddarono quel contadino, per contrasti di mafia, svanendo
nel nulla fino a quando, a distanza di anni, non si riaprirono le
indagini e vennero fuori i loro nomi. Mario Noto non tirò mai
in ballo direttamente suo genero ma affermò, poi smenti,
riaffermò, da una parte per paura della mafia e
dall’altra per le legnate dei carabinieri, che tra i
quattro individui di quella lontana notte si trovava il cavaliere
Giuseppe Bongiorno, il più grosso proprietario terriero del
paese ed il suo sodale Paolino Grizzanti. Un altro ragazzo,
nipote del contadino assassinato, fece il nome di Pasquino e quello di
Giuseppe Belfiore, fratellastro del Bongiorno completando la quaterna
della comitiva che aveva portato a termine la missione di morte.
Pasquino fu arrestato il 12 novembre del 1926 e stette in carcere per
sei anni fino alla conclusione del processo che lo assolse “per
non avere commesso il fatto”. Scontò, in questo modo il
triplo della pena che la Corte d’appello di Palermo gli aveva
inflitto, in un procedimento giudiziario collaterale, per associazione
a delinquere. Quando Pasquino tornò a casa, Girolamo aveva ormai
compiuto 15 anni e non ne riconosceva più
l’autorità . Non poteva sopportare le liti con la madre,
né “gli scioperi” come chiamava le sue coercizioni
e i suoi ricatti. Ma non accettava maggiormente
l’idea che nella casa ci fossero figli e figliastri. Dalla
relazione e dalle successive nozze tra Pasquino e sua madre,
prima della sua detenzione, erano nate altre due bambine.
La partenza del contingente militare di cui fece parte
Girolamo Ferlisi, fu decisa da Mussolini e dal Galeazzo Ciano dopo la
creazione, nel mese di dicembre del 1936, del primo nucleo della
Missione Militare Italiana in Spagna. Quasi 50.000 soldati tra militari
dell’esercito e della Milizia Volontaria per la Sicurezza
Nazionale andarono a costituire a cavallo del mese di febbraio e
di marzo, il Corpo Truppe Volontarie al comando del generale
Mario Roatta.
Girolamo fu tra i primi a partire e la sua destinazione fu
Marcena, un paesino della Castiglia. Già dalle prime lettere
spedite in famiglia, tranquillizzava la sorella per quella scelta
improvvisa e avventata, minimizzando i rischi cui andava incontro.
“ Siamo in paesetto di circa 10.000 abitanti” scriveva in
un linguaggio incolto e stentato “Gli Italiani siamo circa
130, mentre le reclute spagnole sono intorno a 700.
Noialtri siamo gli istruttori e non facciamo altro. Stiamo molto bene.
Quando la sera usciamo in libera uscita troviamo spesso ragazze che
passeggiano con noi, perché siamo ben visti dalla
popolazione…”
Si lamentava di non ricevere con puntualità le risposte da casa.
Agognava notizie del suo paese. Temeva che la madre e la sorella
avessero disapprovato quel suo gesto inconsulto e non gli scrivessero
con regolarità, per ritorsione. In ogni lettera chiedeva dei
suoi poderi: di Fiorilla, di Arcichiuppo e della quota di Ganifo. Si
informava con il cognato se il grano fosse germogliato, se avesse
ripulito la terra dalle erbacce, come si comportassero il mulo e
il “mulaccione”. Non dimenticava neanche un istante di
essere un contadino “ un terrazzano” e paragonava la sua
terra a quella spagnola, confrontandone le coltivazioni e i
prodotti. Mandava i saluti a tutti i conoscenti, nominandoli un per
uno, dai vicini di casa ai padrini, ai cugini, ai nonni. A loro si
aggrappava nei momenti di paura quando il suo cuore galoppava
così velocemente che sembrava volergli uscire dalla gola. E i
loro volti, negli istanti di smarrimento, si trasfiguravano nella
fotografia di suo padre che aveva portato con se, e nella
immagine dei santi protettori.
Girolamo scrisse diecine di lettere. Spedì anche denaro per il
nipotino che aveva battezzato e per la sorella in difficoltà
economica. Comunicò un suo fidanzamento con una ragazza
spagnola. Nelle sue parole non si intravide mai un ripensamento per
quella scelta, né un’esaltazione per essa. Aspettava
soltanto di diventare sergente perché gli aumentassero la
paga. L’obiettivo della sua guerra era quello, anche se emergeva
in qualche modo, sulla sua giovanile
credulità, il condizionamento della propaganda
fascista.
“ Tu non mi dici niente che vuoi mandati qualche cento
lire” scriveva in una delle sue missive alla sorella“ ma io
considero che quest’anno siete scarsi di grano…ti prometto
che se mi passano sergente fra un poco di tempo …ti
manderò i soldi per pagarti la casa”
Riceveva ventiquattro lire al giorno in moneta
italiana, con una aggiunta di tre pesetas spagnole che al cambio
fruttavano altre cinque lire. La paga gliela spedivano fermoposta in
paese, l’aggiunta gliela consegnavano direttamente. Si
occupò persino di istruire sua madre sulle modalità per
acquisire il sussidio per i familiari dei legionari, facendone
richiesta da egli stesso al Ministero della Guerra.
“Io le ho mandato a dire che a tutte le famiglie che tengono il
figlio o il marito, gli danno il sussidio dal primo giorno che si
trovano in Spagna..” Scriveva ancora “….
così le ho fatto acquistare il sussidio…non pensare che
questa valentia sia venuta da Pasquino…ma è venuta da me
anche se gli voglio un poco di male… ma sono troppo bisognosi e
necessitosi che mi è venuta pietà…”
Veniva fuori, da quelle parole disarticolate, la
generosità di un ragazzo sensibile e vulnerabile, legato a
quegli affetti familiari che la vita gli aveva lesinato.
Cessò di dare sue notizie dopo il ferimento in combattimento
sulle sponde dell’Ebro. Un suo commilitone, il
sergente Mariano Pareres si occupò di rispondere
all’ultima lettera della sorella mai recapitatagli.
“ Distinta signorina” scriveva con modi molto garbati
Il 4 aprile 1938 “ …Dato che il mio amico Ferlisi è
stato ferito durante l’azione del 22 del mese di marzo e
arrivando “carta” sua la tengo io per poi poterla mandare a
lui direttamente. Per ora neanche io so le sue condizioni dato che
quando l’hanno ferito io non potevo muovermi dal mio posto.
Domandai all’infermiera e mi disse che non era
grave…Come saprò sue notizie sarà mio dovere di
farle conoscere a lei che credo sarà la sorella…”
Il sergente Girolamo Ferlisi il giorno successivo al ferimento, era
morto. Gli ultimi assalti di quella guerra mercenaria e lontana da casa
gli avevano procurato una ferita mortale. Nessuno sa dove venne
seppellito. Da lì a poco Il generale Francisco Franco vinse la
sua guerra spingendo fino in Francia gli ultimi repubblicani che gli
resistettero. L’Italia fascista lasciò in Spagna migliaia
di vittime.
Il 21 giugno 1939, il Giornale di Sicilia sempre nella Cronaca
della Sicilia diede la notizia del ritorno di legionari a Sutera.
“ Con una imponente manifestazione di popolo” recitava
l’articolo “ Sutera ha oggi manifestato la sua
esultanza ed il suo giubilo per il ritorno dei valorosi legionari
della Spagna, sergente maggiore Barbiere Francesco, sergente Salamone
Calogero, legionario Diprima Calogero. Alle ore 18,30 con
l’intervento di tutte le autorità, dei componenti del
Direttorio del Fascio e dei capi di organizzazione i legionari si sono
recati nella chiesa di Sant’Agata partecipando alla solenne
processione di chiusura della festa del corpus Domini. Nella chiesa
Madrice questo arciprete cavaliere don Salvatore Scibetta ha fatto una
smagliante orazione piena di vivo sentimento e di patriottismo
esaltando l’eroismo dei valorosi legionari che quali novelli
crociati seppero distruggere e abbattere la barbarie bolscevica,
ridando alla Spagna, sorella cattolica, la sua fede e la sua
libertà. Al termine della funzione religiosa si snodò un
imponente corteo che attraversando le vie principali della
città, al canto degli inni della patria e con possenti
alalà all’indirizzo del Duce, del generale Franco e dei
legionari sostò in Piazza Umberto I. Qui il segretario politico
rivolse un vibrante saluto ai valorosi legionari, dopo di che la massa
di popolo si riversò nelle adiacenze della sede del
Fascio, per assistere allo scoprimento della lapide del
legionario sergente Ferlisi Girolamo, caduto in Spagna per il trionfo
della civiltà sulla barbarie bolscevica. Dopo la benedizione
impartita dall’arciprete Scibetta, il segretario politico
rievocò la nobile figura del glorioso caduto. Indi venne fatto
l’appello fascista e la musica suonò l’inno
dell’Impero cantato da tutti fascisti…”
“Legionario Ferlisi Girolamo” chiamò con voce
stentorea il podestà leggendo l’epigrafe incisa
sulla lapide marmorea. “Presente” Risposero
all’unisono le piccole e grandi camice nere del paese completando
la frase.
A distanza di anni, dopo l’epilogo tragico della seconda
guerra mondiale e del fascismo, quella lapide divelta dalle
pareti del Municipio, dove aveva sede il partito fascista, pervenne
alla sorella del legionario. Il nipote, Nonò Salamone,
l’ultimo cantastorie di Sicilia, la ricollocò nella tomba
di famiglia dopo averne accuratamente smerigliato il fascio
littorio. Il legionario non fu più ricordato da nessuno e la sua
presenza a Sutera si concluse con l’iscrizione nel
registro degli atti di morte. Il documento di cui si era redatta
la trascrizione, proveniente dal registro degli atti di morte in
tempo di guerra, nella parte che riguardava l’ora, la causa,
la località della morte ed il luogo del
seppellimento era stato trascritto con puntini di
sospensione. In esso, il capitano Ferrari Floriano ed il tenente
cappellano Marini Anselmo (nomi riscontrabili nell’atto) si erano
limitati ad attestare che il ventitre del mese di marzo
millenovecentotrentotto era venuto a mancare ai vivi il sergente
Girolamo Ferlisi. Che la madre avesse potuto
recuperare i soldi spediti dal figlio fermoposta o che
avesse goduto della pensione per quel corpo straziato dalla
guerra, come sarebbe stato sicuramente nella
volontà del giovane contadino, non rientra tra le
curiosità di questa storia. L’unica certezza ancora oggi
al di là dell’amarezza di Nonò che ne conserva la
memoria e di chi, come me, si è trovato a raccontarla,
resta la costatazione che i poderi di Fiorilla, Arcichiuppo
e Ganifo sono ancora là ad aspettare che un giovane
contadino li faccia germogliare un’altra volta.
Gero Difrancesco