Sutera, straordinario successo della mostra sulla prima guerra mondiale

La mostra è stata inaugurata nei locali del museo comunale al Carmine, il nove novembre scorso, prima della messa al Carmine in suffragio dei caduti e la corona di fiori deposta al monumento.

Per la prima volta abbiamo visto il gonfalone del Comune entrare nell'antico convento dei carmelitani ed i suteresi raccogliersi nel chiostro, tornato ad animarsi dopo tanto tempo, mentre il sindaco e l'assessore alla cultura scioglievano il nastro sotto un bel sole autunnale. Accanto a loro Giovanna e Michele, i due ragazzi che col loro lavoro hanno contribuito a dare un senso ai documenti ed alle storie raccontate, insieme a Marisa ed allo scrivente, sulla traccia di un interessante e dettagliato rapporto del dott. Ricciarelli.

La preparazione è stata lunga ed ha riguardato anche la struttura che accoglie o sostiene i documenti e senza l'aiuto dei due cugini Gaetano, Vincenzo e Francesco non sarebbe diventata così funzionale e poco invasiva. Non si vede. E quindi tutta l'attenzione è riversata sugli oggetti e  i documenti. 

La mostra è stata l'occasione di lavorare un pò con Salvatore e soprattutto Giuseppe, un prezioso amico che insieme a Calogero ci ha permesso di esporre i cimeli dei soldati italiani e degli austroungarici che si affrontarono sul fronte del trentino fino all'Isonzo e al Carso. Lì sono stati raccolti un elmo italiano ed uno austriaco, qualcuno ha bevuto da una borraccia italiana o austriaca, lanciato una granata, imbracciato un moschetto, ancorato a terra con un vitone il filo spinato di trincea e posto su un caduto la piastra provvisoria di identificazione: piccoli cimeli che nella mostra raccontano la guerra insieme a documenti originali di archivio, medaglie e foto, riconoscimenti e lettere, un diario.

Così la mostra ha trovato un suo equilibrio tra oggetti da vedere e informazioni da leggere o guardare, in cui le notizie locali e regionali, nazionali e internazionali si intrecciano a comporre un quadro completo, che abbraccia anche quanto accadeva nelle retrovie, nei luoghi di partenza.

Così ritrovano un posto nella memoria i campi dei prigionieri austroungarici in Sicilia, attraverso le lettere inviate alle famiglie dal Castello Ursino di Catania, da Milazzo o Cefalù, soprattutto da Vittoria, che ne ospitava più di cinquemila. Lì morirono di febbre spagnola 118 ungheresi, ed altri ancora, non dimenticati dal loro governo che vi ha fatto sorgere, insieme al nostro, un museo e costruito una cappella, al cimitero. Quarantacinque prigionieri chiese al campo di Vittoria il sindaco di Sutera Milocca perché lavorassero le nostre terre al posto dei contadini partiti per il fronte, come avevano fatto anche altri comuni del circondario.

La mostra raccoglie le monete che circolavano solo all'interno dei campi di prigionia italiani e stranieri, stampate e spesso firmate dai comandanti del campo, il compenso del loro lavoro, l'unico mezzo per acquistare qualcosa. Vi sono testimonianze anche di qualche lettera o telegramma di morte di qualche suterese, un lungo elenco dei militari partiti da Sutera Milocca (almeno 570), quello degli orfani e delle vedove, dove e in che data sono morti i soldati del nostro comune. Le famiglie bisognose ricevevano un sussidio giornaliero dal governo a cui avevano diritto anche i familiari dei soldati italoamericani, di cui si occupavano congiuntamente l'American Legion ed il Regio Commissariato dell'emigrazione. Molti rifugiati delle terre di confine furono distribuiti in tutto il territorio nazionale ed un buon numero giunse anche a Sutera Milocca. Qualche lettera dal fronte ed il diario del tenente Carruba Toscano ci danno invece un quadro della situazione in prima linea. 

Insomma un mondo di notizie che abitualmente i manuali di storia o i servizi televisivi raccontano solo in parte, con i piccoli, quotidiani problemi delle città occupate dagli austriaci e dai tedeschi, dopo Caporetto. La mattina le donne di Udine o di Buia dovevano comprare il latte, il riso o la verdura. E la sera dovevano scaldarsi, oltre al cuore per gli affetti lontani, anche i piedi e le mani. Ma le lire sono la moneta del nemico, non possono circolare. E allora? Per saperlo si deve visitare la mostra.

 

I campi di concentramento dimenticati. Prigionieri austroungarici lavoravano anche nei paesi dell’interno

Ancora oggi su internet si possono leggere le cartoline che i prigionieri austroungarici mandavano alle famiglie dai campi di concentramento siciliani: Palermo, Catania (il castello Ursino), Milazzo, Piazza Armerina, Noto ed altri. Qualcuna la troviamo anche nella mostra di guerra allestita a Sutera dal museo etnologico comunale. Ma il campo più grande era, insieme a quello dell’Asinara, quello di Vittoria (RG), in grado di ospitare nelle sue baracche fino a cinquemila prigionieri. L’estrema lontananza dalla linea di confine rendeva improbabile una fuga ed un ritorno a casa. Anche perché il campo di Vittoria, come i campi nemici che ospitavano prigionieri italiani, battevano moneta propria, spesso firmata dal comandante del campo: come un governatore della Banca d’Italia. In tal modo, anche arrivando alla stazione, non eri in grado di pagarti il viaggio verso casa. Oggi le monete del campo di Vittoria hanno un costo per i collezionisti intorno ai cinquecento euro. I prigionieri potevano comprare prodotti di prima necessità solo all’interno del campo. Se volevi comprarti il biglietto di ritorno a casa in treno, alla stazione si mettevano a ridere.

Il preside La Ferla parla, in una sua pubblicazione, delle baracche del campo di Vittoria, 37 in tutto, che purtroppo furono abbattute. Ne sono rimaste solo quattro e in una é ospitato il museo italoungherese, con visite frequenti di delegazioni che vengono ad onorare, specie a novembre, la memoria dei caduti. Durante l’epidemia spagnola del 1918, con cinque milioni di vittime in Europa, a Vittoria morirono 118 prigionieri sepolti all’interno del cimitero. Il Comune ha regalato il terreno su cui sorge oggi la cappella costruita dal governo ungherese con incisi i nomi dei prigionieri deceduti.

Ai prigionieri non solo veniva concesso di lavorare dentro, ma spesso erano richiesti con insistenza dai privati nelle botteghe artigiane, soprattutto nei campi rimasti abbandonati. E venivano anche pagati, come previsto da una convenzione internazionale che garantiva un trattamento di reciprocità tra le nazioni in guerra. La manodopera dei prigionieri serviva anche a calmierare il mercato.

E così anche i comuni dell’interno cominciarono a chiedere manodopera.

Nel luglio 1917 il Sindaco di Sutera, Salvatore Castelli, fa una richiesta di 100 prigionieri dal campo di Vittoria per la nuova stagione agricola. I proprietari lamentavano la mancanza di lavoratori partiti per il fronte ed i pochi rimasti avevano ottenuto prezzi più alti. In precedenza il segretario comunale aveva cercato di convincere nel circolo agrario i possidenti, ma questi si erano mostrati diffidenti. Ma ora sanno che nei comuni viciniori hanno dato buoni risultati.

La trafila burocratica è difficile e faticosa anche per un sindaco: non si trova mai l’ufficio giusto, ti rimbalzano da un posto all’altro. Passa il tempo ed anche i telegrammi, cresce il carteggio. Finalmente individua l’ufficio competente e riceve la risposta sospirata. Ma, dice l’interlocutore, posso dartene solo cinquanta, la metà di quanto chiesto. In realtà non sono pochi. Il Sindaco era un buon negoziatore, aveva chiesto molto per ottenere meno. Arrivati al dunque, deve quantificare il suo bisogno reale : ne servivano solo quarantacinque!

E per dimostrare la sua buona volontà, dichiara di accettare in anticipo tutte le condizioni: una paga di £ 0,25 l’ora, di fornire il chinino, la paglia per dormire, vitto secondo gli usi locali, legna da ardere e quanto occorre per l’igiene, l’acqua da bere e per le pulizie, cappelli di paglia grandi e attrezzi di lavoro, mezzi di trasporto se il luogo di lavoro dista più di 3 km dalla residenza.

Pochi gli obblighi per il prigioniero, tra cui quello di consumare sul posto di lavoro uno dei pasti giornalieri.

Mario Tona