Appunti di Sutura
a Delio, in memoria

Da pochi giorni ho lasciato Sutera per Palermo, poi Napoli, la mia città.
Da qui la rivivo e mi confronto ora con un mezzo espressivo a me relativamente estraneo, quello della scrittura (pubblica intendo, in quanto quella privata mi è un po' più congeniale, per esempio quella di tipo diaristico, che lascia emergere una dimensione soggettivo-emotiva, distante perciò da una trasparenza di senso di tipo referenziale).
Non sento alcuna necessità di mettere ordine tra questi appunti presi in un mese di residenza, anche perché in una certa forma di scrittura ho già lasciato traccia della mia esperienza ed è la “scrittura” del mio lavoro plastico-visuale, che rispetto al mezzo verbale (mi) permette un ambito di interpretazioni certamente più libero, ma forse, e proprio per questo, più immediato e intenso.È per questo motivo che, in fondo, non ho neanche voglia di mettere ordine nei miei appunti: in fondo, adoro la “confusione” che mi sono portata dietro; quella stessa confusione che ho suscitato a Sutera e che Sutera ha suscitato in me; non mi interessa capire ogni cosa, ricordare tutto, ma reinventare e ricreare tutto attraverso la mia mano, il mio occhio, che possano essere d’ausilio per la mia memoria, affinché io possa riviverlo ogni volta da capo, allontanandomi sempre di più dal "punto", dal centro della questione.
Sto riscrivendo quindi questi appunti perché desidero che li si possa leggere e da qui partire per costruire ancora un’altra storia, solo per questo.
Il problema da tenere presente riguarda il rapporto tra due diversi sistemi di comunicazione, visivo e verbale – sempre, nei fatti, irriducibili l’uno all’altro. Alle domande che sempre mi sono posta o meglio mi sono state poste riguardo all'arte e alla comunicazione visiva, ho provato a dare in questi anni di lavoro più risposte plausibili. Ora mi chiedo: “Come posso, usando un mezzo, quello verbale, naturalmente portato alla referenzialità e alla trasparenza del senso, comunicare una infinità di sensi, di possibilità di significato, che il mezzo plastico-visuale solitamente mi permette di veicolare?”.

Pur trattandosi di un piccolo centro, conoscere Sutera non è stato affatto facile e ancora sento che ci sono tanti dettagli che mi sfuggono. I suteresi sono orgogliosi del loro patrimonio urbano e culturale e lo fanno proprio al punto da decidere autonomamente come gestirlo, cosa promuovere e valorizzare e cosa invece tralasciare perché non degno di nota.
Ho deciso di risolvere il mio problema seguendo il loro esempio ovvero operando scelte assolutamente arbitrarie, deliberatamente arbitrarie, piegando la mia scrittura alla logica della narrazione, del racconto.

Di quella volta che ho ritrovato i resti di Dedalo a Sutera e della possibilità di un anagramma
Mi accompagnò a Sutera Ignazio, l'autista incaricato di portarci a destinazione. Con me in macchina c'erano Xavier, Elena, Valentina, Lisa, Carla, artisti provenienti da mondi diversi, tutti destinati all'entroterra siciliano.
Era domenica, faceva caldo per la prima volta da quando, da qualche giorno, ero arrivata in Sicilia e non sapevo ancora che nei giorni successivi avrebbe nevicato.

È domenica,
abito al Rabato
nel presepe vivente,
ma è aprile
e i pastori sono
certamente
in transumanza;
più giù in paese
è tutto chiuso.

Dopo qualche giorno ero di Sutera, (ri)nata a Sutera. L'integrazione è stata in parte veicolata dagli ospitalissimi autoctoni, dall'altra dalla mia neo-nata vitalità.
Il patrimonio culturale-mitico della città mi è stato tramandato oralmente, come nella migliore tradizione, attraverso le voci e le gestualità dei miei nuovi compaesani relazionate alle mie.
Quale mezzo di comunicazione migliore di quello che si basa esclusivamente sul nostro corpo? Il corpo, la voce sono le sole immagini che possiamo conoscere contemporaneamente sia dall'interno che dall'esterno di noi stessi.
Attraverso il filtro creativo della loro memoria ho ascoltato, immaginato, a mia volta rifiltrato e ricostruito immagini di Dedalo che atterra a Sutera senza il figlio Icaro, dei compatroni San Paolino e Sant'Onofrio, uno senza mento e l'altro pilusu, i cui resti ossei sono conservati nel Santuario sul Monte San Paolino.
La mia casa, come ho detto, era al Rabato, che si snoda alle pendici del Monte e che leggenda vuole sia stato edificato proprio da Dedalo.
Un giorno tornando a casa mi sono persa volontariamente in una deriva psicogeografica, tra vicoli e strade pietrose, sassose e case di gesso, bianche come ossa… e lì, tra queste mura e formazioni minerali, naturali e artificiali, di mano della natura e dell’uomo, ho ritrovato i primi enormi e morbidi resti delle sue ossa, delle ossa di Dedalo. Ne sono stata entusiasta e ho deciso di cercarne altri. Avevo trovato la mia prima ricerca a/su Sutera.
Attraverso la sua “autobiografia”, Sutera ha iniziato a parlarmi in greco, in arabo, in normanno… e sapevo che avrebbe voluto parlarmi ancora in altre lingue, di certo più vive, se solo avessi saputo ascoltare. E così a Pasquetta sono stata a festeggiare in campagna con le donne, gli uomini, i bambini dello SPRAR (Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) e per la prima volta a Sutera ho visto tanta gente tutta insieme e che dovevo “cucire insieme” nel mio progetto.
Oltre alla ricerca delle ossa di Dedalo, un altro dei progetti su cui stavo ragionando era "Mento San Paolino", un lavoro fotografico ispirato alla leggenda del furto del mento di San Paolino avvenuto all’interno del monastero dell’omonimo Monte.
Mi ero interrogata sulla memoria delle parole "monte" e "mento", su come, quando mi raccontavano questa storia, queste parole ritornassero confondendosi e richiamandosi, leggendole poi come un anagramma e, in questo rimescolamento di lettere, avevo trovato la mia verità (o meglio, come direbbe il nostro professore, la mia “falsità”): ho iniziato a fotografare il mento dei cittadini e a capovolgere la foto, ritrovando la stessa morfologia del monte all'interno di quella parte dei loro volti, che è così presente nella loro storia e contestualmente così assente (il mento di San Paolino è ora custodito a Nola, in Campania, vicino Napoli, dove vivo).
E così, a Pasquetta, dopo aver scattato foto a menti italiani, afgani, indiani, nigeriani, e dopo aver acconsentito a far scattare una foto pure al mio, una donna mi chiede: "vuoi scattare la foto al mio mento solo perché è nero come il monte?".
Ma si avvicinava la primavera e, fortunatamente, il monte sarebbe diventato verde, o almeno così desideravo immaginare.
Nei giorni successivi, ho proposto e organizzato dei laboratori di cucito per la realizzazione di "puppets" in tessuto imbottito, ai quali hanno partecipato una decina di donne che attualmente abitano tra Sutera e Milena, provenienti dall'India, l'Africa e il Medio-Oriente.
Generalmente quando lavoro ad un progetto lo faccio attraverso un approccio collettivo, diciamo pure spersonalizzante e desoggettivante, ed è con lo stesso spirito che ho condotto quest'esperienza, ma, alla fine della prima giornata, mi è stato fatto notare che sarebbe stato il caso di far scrivere ad ogni donna il proprio nome sulla sua scultura in tessuto.
Una lettura superficiale della richiesta avrebbe potuto farmela interpretare come un controsenso rispetto alla mia idea estetico-politica, in quanto stavo evidentemente lavorando ad un'operazione collettiva, in cui le singole identità avrebbero dovuto confondersi e richiamarsi in una soggettività diffusa: le donne stavano, secondo me, lavorando ad un progetto comune, secondo cui era proprio un senso di comunità (estetica e, quindi, etica e politica) ciò che doveva emergere; ma questo, ad ognuna di loro, quanto era chiaro e quanto soprattutto poteva incontrare la loro propria esigenza di affermazione identitaria? Mi sono quindi chiesta: il superamento della soggettività ha senso in paesi in cui la condizione della donna è così diversa da quella cosiddetta occidentale?
Sono stati quattro giorni che sintetizzo nella mia memoria con la scena di M. e K. che, parlando una delle due solo italiano e l'altra solo inglese, hanno collaborato ad un progetto comune unite dalla sola conoscenza della macchina da cucire, dai tessuti, unite da un filo.
Ci sono molte storie, collegate a questo filo, che non posso descrivere, perché ho scelto di tenerle solo per me, nel momento in cui ho deciso di non fotografare, di non appuntare, di non raccontare, di non condividere, sono storie che ancora non ho compreso a fondo, e che non ho per ora la necessità di comprendere.
La storia della zia, con cui invece ho scelto di chiudere, la trovo divertente e polisemica. La zia ha 90 anni o forse più, fa i centrini all'uncinetto, ha un quaderno di appunti comprensibile solo a se stessa, ha inventato un alfabeto, un codice composto da simboli-numeri-lettere che si susseguono senza soluzione di continuità, per appuntarsi le sue conoscenze, per non dimenticarle, ma non può comunicarle agli altri, perché nessuno attorno a lei ha la chiave, il codice per la lettura di quei segni né ha avuto la curiosità e la pazienza di imparare l'arte antichissima e lentissima dei quattro ferri. La figlia della zia mi mostra i suoi quaderni di appunti dicendomi: "questi sono scritti in arabo".

Marina Iodice