Storia del ponte di Passo fonduto, tra
Campofranco e Casteltermini
Con note autobiografiche
di Salvatore Panepinto
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La foto che ritrae questa spettacolare immagine, risale al 9
marzo 2009, quando di ritorno da Agrigento, improvvisamente vidi dal Ponte di
Fontana Fredda, " un lago
"calato dal cielo", formatosi alla confluenza tra il Fiume
Platani e l'emissario Gallo d'Oro, dopo diversi giorni di pioggia battente.
Accostata l'autovettura da una parte, mi detti da fare con la
macchina fotografica, per "riprendere la imponente scena" che per la prima volta, a sorpresa,
mi si metteva in bella mostra.
Il Platani,
come detto in oprecedenza, nasce dalla confluenza di due rigagnoli
rispettivamente provenienti da Lercara Friddi e Santo Stefano di Quisquina, mentre
il Gallo d'Oro sorge
dalla Serra Gazzola
di Caltasnissetta e, dopo 34
chilometri, si immette nel
citato Platani, in località Margagliano del Comune di Campofranco, al
confine col territorio di Casteltermini.
Sia l'emissario che l'affluente, per la vastità della zona
interessata, e i vari torrenti che vi scorrono, raccolgono acque sovrabbondanti
per cui, in caso di piogge prolungate,
alla loro confluenza viene a crearsi il "lago" sopradetto.
Il Gallo d'Oro, in particolare, a causa della "profonda gola"
esistente fra le montagne verso la fine della sua corsa, quando arriva al punto
di incrocio diventa pericoloso, come accadde intorno al 1931, quando portò via
la fiancata sinistra del "Ponte Romano" e, col Platani, sradicarono
il "Ponte di Passofonduto .
Pure a causa dell’acqua alta, non è distinguibile la loro unione, che è localizzabile vicino l'albero di eucalipto,
poco distante dalla fabbrica per pannelli solari.
Il Gallo d'Oro, inoltre, pur
scaturendo da una sorgente d'acqua dolce, transitando da zone ricche di sali
potassici, in passato veniva chiamato "Fiume Salito" (salato).
Per la medesima ragione, prima di
entrare nel Platani, per il fatto del letto pianeggiante e allargato, d'estate
si notano delle strisce bianche, derivate dal
sale che affiora nei vari rigagnoli, per effetto della evaporazione
dell'acqua.
Questa foto lascia vedere un tratto del fiume Platani sempre in
piena, poco distante dalla località Margagliano, sotto un viadotto per il transito d’una condotta idrica che
porta acqua potabile nel Comune di Milena. Quella che ora appare come
“passerella”, alcuni decenni addietro era un ponte di strada carrabile che, nel
1943, venne danneggiato dai tedeschi in ritirata.
Altro tratto del fiume Platani ancora in piena, ripreso da sopra il
medesimo ponte di Fontana Fredda. Nello sfondo è
visibile la citata condotta
idrica sul "ponte che fu", sostituito negli anni '50 con
questo, dopo l'apertura dello Scorrimento veloce Palermo - Agrigento.
E questo è il ponte di Fontana Fredda sul fiume Platani, nel territorio di
Casteltermini, nato negli anni ’50 con la realizzazione dello scorrimento
veloce Palermo–Agrigento, in contemporanea all’apertura della “galleria” di
Passo Fonduto. Dal medesimo ponte
dista poco più di un km.
Nella curva in fondo, sulla sinistra, si innesta
Questa è l'importante ex Baronia Petix di Fontana
Fredda costeggiata sia dallo scorrimento
veloce che dalla linea ferroviaria ed anche dal fiume Platani, nei secoli
passati, fu pure “fondaco”
ossia grande locale che consentiva ai
viandanti di fermarsi, ristorarsi, riposare,
pernottare e cambiare anche i cavalli, disponendo di alloggio per più di
100 bestie.
In atto, parte del caseggiato adibito a Ristorante e Pizzeria,
si presenta in stato di semi-abbandono. Una grossa "macina" di pietra
dell'antico mulino si trova abbandonata
nell'adiacente terreno, accanto a delle piante di fichidindia.
Ecco lo stato di abbandono in cui
è ridotta l'ex Baronia Petix,
un tempo certamente la più importante del circondario.
Il Di Giovanni, in
riferimento al 1848, dice:
"...quelle osterie, i numerosi casamenti, la collinetta della Toretta, i
mulini...".
A proposito di mulini, viene citala la tassazione della molitura del grano che,
la città di "Sutera", pretendeva dai Castelterminesi (1810). E
qualora fossero contravvenuti al diritto
proibitivo imposto
dall'Eccellentissimo Principe,
sarebbero in corsi nella pena di perdere il frumento e la vettura (confisca del
grano e della bestia: giumenta, mulo o
asino che fosse).
I mulini non dovevano
essere necessariamente ubicati ai
margini del fiume, ma localizzati in punti idonei e comunque facilmente
raggiungibili con le bestie da soma, allo scopo di non correre il rischio di
essere distrutti in caso di possibili piogge torrenziali, con conseguenti
inondazioni e straripamenti.
A tal proposito il prof.
G. Testa, scrive:
"A tre-quattro km. da esso, sul Platani era costruita una diga
(bastione)
che dirottava l'acqua in un angolo incavato (a forma di
imbuto - prisa - che si innestava ad un condotto (cunnuttu) stretto e lungo,
l'acqua
che vi scorreva acquistava consistenza e forza finendo sopra il mulino, in una
vasca di carico.
Qui si raccoglieva in quantità,
passava per un piccolo canale facendo muovere le pale di una ruota che
metteva in movimento le "mole di pietra", una sull'altra che macinavano il frumento".
Nel
disegno della pagina seguente, custodito
nell'archivio privato del cit. prof. Testa, è illustrato il
"condotto" del Mulino di Buona
Speranza, territorio di Campofranco.
Di mulini, nel territorio
di Casteltermini o di Sutera, collegati col Fiume Platani ce ne erano tanti,
dei quali però rimangono poche tracce,
insufficienti per dare l'idea della loro esistenza.
Di quello ubicato dentro
la Baronia, essendo stato eliminato
per la costruzione della ferrovia Palermo-Agrigento (1876), esiste solo una
grande "macina" rimasta abbandonata fra le piante di
fichidindia.
Illustrazione riferita al
Mulino di Buona Speranza risalente al 1569, che come tanti altri, attingeva
l'acqua dal Fiume Platani. (Tratta dal libro "Tracce e schede per un
convegno storico su frate Pietro De Michele", Edizione maggio 2011 di.
Giuseppe Testa).
In uno di detti mulini, dei quali non saprei indicare né il nome né la
località, a guerra finita (20 luglio 1943) mi ci portai a piedi contento, con 6/4 di tumolo
di grano sulle spalle, pari a Kg.
21. Era di buon mattino, avevo 15 anni.
Come fosse l'ambiente
esterno non ci penso, ricordo però come
avvenisse la roteazione delle pale
sospinte dalle acque incanalate, le
quali, tramite una grossa vite verticale
che entrava nel pavimento del piano superiore,
facesse girare le massicce mole di pietra. La farina che
ne usciva, di tanto in tanto veniva sottoposta al tatto del mugnaio il quale,
allargando o stringendo un minuscolo
congegno, ne regolava la finezza.
Altra visione che mi torna alla mente è il "sacco di farina" che,
tornato a casa, posai sul tavolo della cucina di casa, simbolo di abbondanza, derivata dal raccolto del nostro terreno".
Tornando indietro nel tempo, sento di fare memoria (con un certo
risentimento), a quel passato prossimo del 1940-1941 e 1942, fino al luglio del
1943 quando, durante la
guerra, c'era il rischio di
vederci sequestrare il
frumento dalle Pattuglie dei Carabinieri che l'avrebbero considerato
illecito, siccome una legge imponeva l'obbligo di consegnarlo al locale
Stabilimento Pastificio (ammasso si
diceva allora in gergo) e solo una parte rimaneva all'agricoltore per la sua
famiglia, il tutto documentato da una distinta
tessera.
A questo punto non saprei
spiegarmi certe cose che ora, pensandoci bene, le vedo assurde. Per cui mi
chiedo: "Perché, per gli agricoltori, esistesse tale regolamentazione e
non anche per i possessori di poca terra, come nel caso nostro?!".
"Quello che avveniva
in realtà aveva dell'incredibile!, e la spiegazione sta nel fatto che solo
qualche pattuglia di Carabinieri si vedeva in giro, tanto che per cui l'agricoltore
pareva si trovasse nella facoltà di trasportare a "casa sua" oppure "all'ammasso", la quantità di grano che gli avrebbe fatto comodo, potendo sfuggendo facilmente
al controllo.
Ricordo perfettamente di
aver visto tanti agricoltori o persone di loro fiducia, con cavalli, muli o
asini, carichi di frumento che lo
trasportavano tranquillamente ed autonomamente. E allora, quando e come si
sarebbe potuto stabilire la quantità di grano spettante all'uno o all'altro
indirizzo, non esistendo controlli mirati da parte di "Specifici Funzionari" là
dove avveniva la "trebbiatura"?! E
l'agricoltore "si arrangiava!", vendendosi poi il
grano al mercato nero.
Ritornando alla pagina precedente... dico che il "sequestro!"
(sotto altri aspetti) c'era già stato,
tre anni prima, quando con altro
sacco dei medesimi 6/4 di tumolo di frumento mi trovavo in un Mulino elettrico del paese, in fila"
per il turno della macinazione (abusiva). Improvvisamente
arrivò una Pattuglia di Carabinieri che bloccò ogni cosa, senza la possibilità
di poter fuggire. Un quadro squallido
che fa rabbrividire solo a pensarci. Donne
e bambini piangevano disperatamente nel vedersi togliere quel poco di grano contenuto in
sacchettini e dover
tornare a casa a mani vuote,
sapendo di non trovarci da mangiare e non poterne comprare altro di
contrabbando: povertà e fame,
sommandosi, diventavano un vero disastro!
Una frase dettami da un coetaneo, piccolo come me vicino di casa, mi torna prepotentemente
alle orecchie come a svegliandomi da un sogno
pauroso. Costui, facendomi la
sua confidenza, pronunciò le seguenti
parole: "Mia madre ha detto che a letto a digiuno non ci manderà mai, perché quando non ha nulla da
darci, cuocerà delle fave secche e ce le farà mangiare".
In merito al frumento sequestratomi, tornato a casa mortificato, mia
madre cercò di confortarmi. Poi facendo
memoria di un
suo cugino che nelle Guardie Municipali, lo
fece contattare perché
intercedesse presso la Caserma dei Carabinieri. Tutto andò bene e,
fortunatamente, tornò in nostro possesso.
Atro episodio di
significato diverso ma di uguale conclusione, in cui la protagonista rimane mia
madre, lo racconto volentieri. Mio fratello Francesco, 6 anni più grande di me,
esonerato (come Raffaele) dal servizio militare per venire a lavorare nella
miniera di zolfo, una domenica si portava nella nostra terra per rendersi
utile. Viaggiava sulla giumenta bianca di Vincenzo. Durante il percorso venne
controllato da una Pattuglia che gli chiese il documento di affidamento, che
non aveva. Gli fu elevata
una contravvenzione che non
potendola pagare occorreva andare in Caserma.
L'indomani fu mia madre a
recarvisi. A questo punto mi sembra di dover affrontare un argomento molto
delicato, perché mia madre non era mai entrata
in una Caserma, per cui l'avrei immaginata timida, ossia disposta a non andarci. Invece,
quando ritornò a casa e ci raccontò come si era comportata e la conclusione di
quanto avvenne in quell'Ufficio, rimanemmo tutti soddisfatti della sua bravura.
Dunque, rivolgendosi al
Comandante che le aveva chiesto di cosa avesse bisogno, rispose: "Sono
venuta a pagare una contravvenzione che
ieri due Carabinieri hanno fatta
a mio figlio Francesco, perché viaggiava
con la giumenta senza il certificato di affidamento. Essendo domenica, al posto di riposarsi, è andato ad aiutare il
fratello più piccolo in campagna (ero io questo ragazzino...). La giumenta
appartiene all'altro mio figlio, Vincenzo, che si trova in guerra, in
Albania". Francesco faceva il
militare a Vercelli ed era in procinto di partire per la Russia. Fortunatamente
ottenne l'esonero per lavorare nelle miniere di zolfo ed è per questo che si
trova a Casteltermini. Anche l'altro mio figlio Raffaele, che faceva il
militare a Palermo sotto le bombe degli aerei inglesi, si trova pure qui con
l'esonero per lavorare in miniera. Prima che mia madre terminasse le sue
accorate motivazioni, il Maresciallo, comprendendo la situazione, con un gesto
da vero galantuomo, annullò la contravvenzione (L.10 e centesimi 4, pari a tre
giorni di lavoro d' un operaio).
Un fatto analogo di una madre venuta in Caserma per
pagare una contravvenzione per una
infrazione commessa dal "figlio incosciente", capitò a me
quando, pure io ero
Maresciallo dei Carabinieri Comandante di Stazione. Ricordandomi del "nostro caso" le ridussi
notevolmente l'importo spiegandoglielo. La signora mi ringraziò di cuore, così come aveva fatto mia madre
quarantacinque anni prima.
In merito al certificato
di affidamento della giumenta, causa della contravvenzione, merita raccontare certe cose perché potrebbero ritenersi
interessanti, in quanto appartengono ad
un pezzo di storia Siciliana, del recente passato. Eccole: per prevenire,
limitar oppure scoprire i furti di
bestiame, citati nel Codice
Penale come "abigeato", in
Sicilia ed anche in Sardegna,
esisteva
l'Anagrafe bestiame che aveva il compito di "registrare" determinati animali
fra cui
cavalli, muli e asini, con
l'indicazione della razza, del sesso e del colore. Alla spalla sinistra la
bestia veniva "marcata" a
fuoco con due lettere maiuscole
dell'alfabeto che che, per
Casteltermini, erano "RF".
Ai rispettivi proprietari
veniva rilasciato un documento chiamato "bolletta " in cui erano
riportate le sue generalità e i "dati" dell'animale (un po' come la
carta di circolazione per l'autovettura oggi). Per coloro ai quali per volontà
del proprietario, l'animale venisse affidato, esisteva altro simile documento,
chiamato "certificato di
affidamento", contenente i medesimi estremi, oltre quelli dell'
affidato. Quando e perché tale "anagrafe" venne abolita, non me ne
sono mai interessato, soprattutto perché nel frattempo mi sono arruolato nell'Arma dei Carabinieri.
Riprendendo
l'argomento del "tumolo", mi fa piacere parlarne ancora un po'
perché, non essendo in uso da oltre mezzo secolo, la sua conoscenza potrebbe
essere utile a qualcuno della moderna
generazione.
Il Tumolo rispondeva ad una unità di misura cilindrica del peso di
Kg.14 per il frumento, pieno fino all'orlo, raso, cioè pareggiato con una riga
orizzontalmente, mentre per i legumi o i cereali il peso rispondeva a Kg.10, e la misura doveva esse
colma, ossia terminante conicamente.
Il Tumolo
si usava anche per il "terreno", come misura di superficie. Qui la cosa potrebbe apparire un po'
confusionaria, ma non è così, vediamolo: "A seconda dell'usanza del paese,
esisteva la "corda corta" o la
"corda lunga" che rispondeva dai 2.000 ai 2.500 metri quadrati. Tra
venditore o compratore si intendevano perfettamente, tanto
"l'affare", l'avrebbe fatto decidere il "prezzo".
Prima di chiudere la parentesi, che non era
stata nemmeno aperta, mi si permetta una personale riflessione: "Durante
la frequenza della citata scuola
privata, la superficie terriera veniva calcolata in metri quadrati, e la parola
"tumolo" veniva usata come sottomultiplo di "sarma" oppure di "mezza sarma",
rispondente: a 16 tumoli la prima e a 8
tumoli la seconda.
Ma le misure antiche non sono ancora
terminate perché esisteva pure la
"quartiglia", contenitore
simile al tumolo, pari ad un suo
16°, e ad un 4° del tumolo medesimo.
A questo punto forse merita un piccolo
chiarimento al lettore giovanissimo, al quale direi che, a parte "i nomi un poco curiosi (sarma, mezza sarma, tumolo, quarto o quartiglia), la loro capienza è semplicissima: "Una sarma rispondeva a 16
tumoli; mezza sarma a 8 tumoli; un tumolo
a 4 quarti; un quarto a 4
quartiglie, sia che si parlasse di superficie che di prodotti dell'agricoltura.
Si potrebbe aggiungere, ma
non mi sembra il caso, la "junta"
(giumella) che pur non facendo
parte alle sopre elencate misure, era d'attualità. Cos'era la
"junta?", una quantità che può stare nel concavo di due mani
accostate: una junta di grano, di
farina, di sale ecc., che si dava o si chiedeva in determinate circostanze. Era
una usanza accettabile, considerata una forma di cortesia da parte del
venditore che la "donava" al compratore. Nella medesima forma era in
uso pure il "pugnello"
ossia la modesta quantità "presa"
da una mano aperta e poi chiusa.
Questa "junta" o "pugnello" ce li troviamo col
venditore ambulante di sale, il quale girando per levie del paese col suo asinello, lo vendeva
a quartiglie, facendo di tanto in tanto
omaggio di una "junta"
o di un "pugnello".
Nell'annunciare la
sua presenza ad alta voce, stimolava gli acquirenti dicendo che il sale "ci voli migliu di l’ugliu" (meglio dell'olio). Un particolare forse un po' comico,
viene a crearsi quando il giovane salinaro, volendo fare il
furbo, usava la mano chiusa, ossia il
"pugno" col quale il sale
veniva solamente sfiorato, con la conseguenza che la quantità che vi si
"attaccava" sarebbe stata irrilevante, cioè falsa. A sua volta la
donna, controllando ogni movimento,
scopriva il trucco ed allora, elegantemente lo riprendeva dicendogli: "Che
mi volevi pigliari pi fissa?!
Anche il venditore
ambulante di olio col suo asinello
carico di adatti recipienti, girando per le vie del paese, facendo uso della
voce di un ragazzino che portava al seguito, annunciava la sua presenza, così: "Accattativi l’uglio bunu",
creando un "motivetto veramente
simpatico". E quando il
ragazzino crebbe,
tutto rimase invariato perché, una cassetta messa in un registratore
sistemato pure sulla schiena dell'asino continuava a far sentire la melodica
voce infantile, ormai divenuta familiare: che ripeteva: "Accattativi l’ugliu bunu...
accattativi l’ugliu bunu...
Non
ricordo se l'episodio che segue sia frutto di fantasia o se abbia origini veri;
in ogni modo, così come mi torna alla mente, sembra che si tratti di un fatto realmente accaduto nel mio paese,
proprio nella strada dove io abitavo da piccolo.
Allora: "Due
venditori ambulanti, dei quali uno vendeva "aceto"
e l'altro "ombrelli",
girando per le strade a distanza ravvicinata,
ciascuno a voce alta annunciava la propria merce. La cosa, sembrerebbe
normale, se dal loro intreccio di parole non fosse scaturito un pasticcio che comprometteva uno di loro.
Dunque, il primo in ordine
di marcia, esaltando il suo prodotto, ad alta voce e mettendo un punto
esclamativo, diceva: "Aceto!",
"Aceto forte, Signora!".
L'altro, pure a voce alta
e con dei punti esclamativi, avrebbe dovuto dire: "Ombrelli!, Ombrelli,
Signora!", ma nel linguaggio dialettale,
ritenendo logico chiamarli "Para
acqua" come dire protezione dalla pioggia, completava l'annuncio così:
"Par-acqua!", "Paracqua, Signora!" il cui
senso avrebbe alluso alla frase
"Pare acqua", ossia "sembra acqua, signora", rjferito all'aceto.
Il giro fra vie, viuzze e cortili,
continuava e con esso si ripeteva il "bisticcio",
creando una piacevole pur breve filastrocca che suonava così:
"Aceto forte!"; "Par-acqua,
signò!" ("Aceto forte!; "Par-acqua, Signora. Ad un certo punto, il venditore di aceto, ritenendosi
infastidito, girando lo sguardo verso il collega ombrellaio , come a
supplicarlo (senza punti esclamativi), gli diceva,: - "Scusi, mi lasci guadagnare il pane", mi lasci vivere, non dica che il mio
aceto sembri acqua; e quegli rispondeva: -
"Scusi, perché io cosa
"sto" facendo, se non
guadagnarmi pure il pane? Io vendo
par-acqua! ed è quello che annuncio.