Storia del ponte di Passo fonduto, tra Campofranco e Casteltermini
Con note autobiografiche
di Salvatore Panepinto
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Campofranco Presepio vivente 2005-2006
        
    E' questa la modesta stanza,  ordinata e pulita, in cui  fra le altre "cose", si vede la "naca" per il dondolio dei neonati e dei bambini, soprasttutto  dove esistevano le famiglie numerose.

    A proposito della famiglia numerosa, mi viene spontaneo raccontare un particolare che mi interessa in prima persona, appreso da grande dalla bocca di mia madre, in riferimento a quando dovevo essere battezzato.
    Premetto d'essere il decimo dei figli nati (il settimo dei viventi per diversi decenni), con un distacco di 20 anni dalla prima sorella maggiore.
    Dunque una mattina di domenica, entrambi i genitori, mi condussero alla Chiesa Madre per battezzarmi, senza che avessero in loro compagnia la persona che doveva farmi da  padrino (compare). E fu proprio alla "Matrice" che un Signore che in Chiesa si rendeva utile per determinate cose, si offrì come padrino.
    Quando cominciai a capire e conoscere i parenti, appresi chi fosse colui che mi aveva battezzato. Per me  fu una grande scoperta siccome, facendo egli il porta-telegrammi e indossando il berretto da postino, lo consideravo un Carabiniere, per cui lo "nominavo" ai miei coetanei perché  non mi disturbassero, altrimenti "sarei andato a chiamare il padrino Carabiniere
    Mi è doveroso precisare che questo Signore, Luciano,  aveva  un   ottimo  livello  culturale  che  mi affascinava quando lo sentivo parlare o raccontare qualche episodio divertente.
    Avrò avuto non più di 6 anni, quando un giorno mi vide in un Bar-Pasticceria denominato "Di Pisa" in cui ero entrato per comprarmi delle caramelle (5 per un soldo). Lui affettuoso ed espressivo com'era nel suo carattere, ordinò: "Un caffè per il "mio figlioccio Salvatore!" e io lo sorbii in silenzio, un poco alla volta, con le lacrime agli occhi,  perché non avendogli messo  lo  zucchero, lo  ingoiai "amaro". E rimase  un  ricordo che mi porto appresso da tutta  la vita, per due ragioni: la prima perché  fu il primo caffè preso bevuto al bar e la seconda perché non "sapevo" che andasse dolcificato, ne mi fu detto: "Salvatò!, vidica lu zuccaru cià mmittiri, lu Pipinu (il padrino....).
    Rimanendo sull'argomento della famiglia numerosa, mi viene spontaneo parlare dell'usanza dei "Figli di Santi" che era tutt'altro che una bella cosa. Si trattava nel "dare" sottoforma di adottamento, un  bambino o una bambina ad una famiglia benestante che non aveva figli. Tutto avveniva in comune accordo, salvo l'impegno di "trattare bene" i bambini, in tutti i sensi. E se le cose fossero andate come sperato, quella diventava la nuova famiglia: studi, futuro, spese matrimoniali, eredità compresa.
    Una richiesta in tal senso, appresa da adulto da mia madre, venne fatta per un mio fratellino. Era gente signorile e facoltosa, abitante nel medesimo paese. Ma i miei genitori non l'accolsero per due ragioni: la prima perché per principio erano contrari, la seconda perché la mia  famiglia pur  nella modestia, non aveva tali necessità.
    "Andare come figli si Santi; essere figli di Santi; ti mando come figlio di Santi". Erano queste le parole che si sentivano dire frequentemente, magari citando qualche nome.
    Con la seguente breve vicenda concludo, (senza) commenti, l'argomento:
    "Un "parente" di un mio "parente" ebbe 25 figli fra due mogli. Quelli fortunati che sopravissero credo che fossero 4 di cui un maschio della prima moglie e tre femmine della seconda.
        
    Ecco pronto altro episodio, risalente a quando esistevano le famiglie numerose poverre e la miseria sconfinava fino a  raggiungere i servizi igienici.
     Una mattina di maggio di molte decine di anni fa, un pescivendolo forestiero, alto e molto magro dall’accento palermitano, passando per una strada popolosa, dove io abitavo da piccolo, tenendo sulla spalla sinistra una stadera (bilancia antica con asta, romano e piatto agganciato da catenelle) a tracolla e una cassetta di sardine sorretta col braccio destro, vide all'ombra d'un largo marciapiedi, 5 o 6 bambini seminudi, i quali fatti uscire di proposito dalla loro mamma, che li aveva messi in riga davanti la porta di casa, tranquillamente scaricavano per terra i loro bisognini. A tale spettacolo per nulla simpatico, il "pesciaiolo" si fermava, quindi in particolare ne fissava  uno fra i più piccini che mangiucchiava una crosta di pane duro.
    Collegando forse il caso ad altro simile episodio, dopo un po' riprendeva il cammino e,  senza farne mistero, girando la testa prima da un lato e poi dall'altro come a scuoterla, nel suo accento che sapeva di palermitano, pronunciava le seguenti prole: "Cuomu u puorcu, mangia e caca”. (Tratto dal mio libro "Lo Sfogo" - 44/2007).
    Il titolo del presente episodio, potrebbe adattarsi per lo svolgimento di un tema dato agli esami nelle Scuole  Superiori, perché  sono convinto che verrebbero fuori "svolgimenti curiosi", forse "affascinanti". forse "penosi".
    A tal proposito una immagine  della "famiglia numerosa italiana", che (fresca fresca) mi ricorda quand'ero piccolo, l'ho vista nel presepio vivente svoltosi di recente con successo a Campofranco, dove una "naca" con un bambino dentro, appesa fra due pareti in un angolo della modesta casa, esprimeva la necessità di adattarsi alla circostanza di allora.
    "Una ho detto", ma le "nache" spesso erano       veramente tante,  con delle cordicelle penzolanti che  mediante il "tiro e molla", dondolando... facevano addormentare dolcemente i bambini.
    In sintonia all'argomento, nella pagina seguente riporto  una  foto tratta  dal mio libro:" Le Chiese e le Processioni  Religiose di Campofranco", del quale  ho fatto omaggio sia alla Biblioteca  che al Museo di Storia e Tradizioni Popolari Locali, entrambi di Campofranco.
    Come le cerase che quando ne prendi una ne vengono un paese, anche gli episodi, avvolte,  spuntano uno dopo l'atro, in buona quantità. Eccone un altro.    
 Gli stagnini.
    Si trattava uno zio celibe di una certa età e di due giovani nipoti, proveniente da un paese vicino al mio, venuti ad abitare di fronte casa nostra. Bravi nel mestiere, bravi in tutto.  
    Piccolo come io ero (avrò avuto 10 anni), vederli con una padella o delle  pendole di rame, penzolanti sulla schiena, girare per le strade del paese, annunciando la loro attività, mi faceva curioso. Constatare inoltre le pentole, grandi e piccole di varie forme, brutte all'interno prima, diventare lucenti come nuove poi, con l'uso di una spugna intrisa di stagno, mentre venivano riscaldate sulla brace,  mi affascinava.
    I giovanotti sapevano suonare il mandolino, e io che ero appassionato di tale strumento, andavo a trovarli a casa, assieme ad altri ragazzi della strada, attratti dalla dolce melodia. Fatta confidenza  diventammo amici.
    Il seguente risale a quando esistevano le famiglie numerose povere, e la miseria sconfinava fino a  raggiungere i servizi igienici.
    Il pescivendolo ambulante appiedato.
        Una mattina di un giorno di maggio di molti anni fa, un pescivendolo forestiero, molto alto e assai magro, dall’accento palermitano, passando per una strada popolosa del mio paese, dove io abitavo da piccolo, tenendo sulla spalla sinistra una stadera a tracolla e una cassetta di sardine sorretta col braccio destro, vide all'ombra di un largo marciapiedi, 4 o  bambini seminudi, i quali, fatti uscire di proposito dalla loro mamma, furono messi in riga davanti la porta di casa. Tranquillamente i piccoli, scaricavano i loro bisognini. A tale vista poco simpatica, il "pesciaiolo" si fermava fissando in particolare uno  dei più piccini, che mangiucchiava una crosta di pane.
    Collegando forse il caso ad altro simile episodio, dopo un po' riprendeva il cammino, poi girando la testa prima da un lato e poi dall'altro, pronunciava la seguente frase, con  l'accento sgradevole:  “cuomu u puorcu: mancia e caca”.. (Tratto dal mio libro "Lo Sfogo" - 44/2007).
    Bene, se non fosse per farla lunga potrei citare  certe usanze risalenti sempre ai tempi remoti. Si tratta del modo di salutare fra uomini anziani che si incontravano per la strada, conoscenti o non.
    Il primo diceva: "Servo suo" e l'altro col medesimo accento riguardoso, rispondeva: "Padrone mio". Da notare lo spontaneo reciproco rispetto sottomissivo che metteva alla pari entrambi.
    Se poi uno dei due fosse persona di rispetto (esempio, il dottore), il primo, togliendosi il berretto ed abbozzando un inchino come atto di riverenza, diceva: "Voscenza sia benedetto" (sebenedica),  e l'altro rispondeva semplicemente: "Buon giorno" o "Buona sera".  
    Il nipotino, salutando il nonno in "terza persona" diceva: "Sia Benedetto" (sebenedica); e lui affettuosamente rispondeva:  "Santo" o anche "Santo in Paradiso". Era un "modo" riservato alle persone anziane da parte dei "giovani".
    L'altro giorno mi trovavo in un negozio come unico cliente, in seguito entrò un ragazzino il quale, rivoltosi a me, con riguardo disse: "Ciao", e io, pure  rispettosamente risposi: "Ciao".
    A questo punto si potrebbe dedurre che "le due epoche" (la mia di ottantacinquenne, e quella del ragazzino, dodicenne), si siano livellate, nel senso che "il saluto" sia diventato  uguale per entrambi; a parte il "Buon giorno" o il "buona sera" usato per tutti, in altre circostanze.
    Terminato l'argomento riguardante le usanze del "saluto",  me ne viene in mente un altro relativo al "carattere" della persona.
    Anticamente  si  sentiva dire: "Io sono un uomo d' onore".  Oppure : "Quello  lì è un uomo d'onore", il cui significato consisteva nella "parola data" come garanzia di serietà, di fiducia e di impegno nella maniera certa, quando qualcuno aveva dei problemi e li voleva risolvere amichevolmente.     Ed era "motivo di vanto" per coloro che potevano dire: "La mia parola è un contratto!", magari rinforzata da una stretta di mano da parte degli interessati, alla promessa data e alla responsabilità  presa.
    Era veramente bello poter contare in questo tipo di fiducia reciproca, scavalcando certe regole complicate.
    Un singolare argomento di tutt'altra specie, il cui significato mi lascerebbe  dubbioso  se non conoscessi la fonte  certa, lo voglio raccontare ugualmente, pur provando ripugnanza per il suo contenuto. Accadeva al mio paese nei tempi antecedenti all'arrivo in Sicilia del famoso Prefetto Mori, "mandato con carta bianca!" con l'incarico di distruggere la "mafia di allora".
    Limitandomi al mio paese, posso dire che i cittadini, conoscendosi fra loro, sapevano tutto di tutti, di conseguenza tutti erano nella condizione d'essere controllati.
    Riferendomi ad una categoria di "prepotenti", costoro si lasciavano distinguere presentandosi in piazza, magari di domenica perché maggiormente affollata, distinguibili da due sonagli (cianciane) appiccicati dietro le scarpe, sopra i tacchi,come se fossero segni ornamentali (vedasi i muli coi finimenti che "tirano" il carretto siciliano  addobbato a festa.
    Costoro, per i loro abusi e soprusi, non si presentavano personalmente nelle varie aziende  o nei negozi. Piuttosto preferivano mandare degli "incaricati" i quali, rivolgendosi al "principale", facendo il nome del "Don ix ypsilon", chiedevano ed ottenevano quello che gli elencavano:  capretti, agnelli, formaggi,  vino, olio, grano e quant'altro disponevano a seconda dell'attività svolta.
    Quando finalmente un giorno giunse il Prefetto Mori, i prepotenti indiscussi, resisi conto della gravità della situazione che si era venuta a creare, non avendo vie d'uscita, come se si fossero messi d'accordo fra mascalzoni, senza essere stati  chiamati da nessuno, soli,  uno alla volta, si presentavano come agnelli nella Caserma dei Carabinieri, per autodenunciarsi ed essere, prima arrestati e condotti al locale Carcere Mandamentale e poi andare a finire in quello Penale di Agrigento.  


Collinetta Torre

    E questa è la "Collinetta Torre", antica stazione di epoca romana che si trova tra la Baronia e la confluenza del Fiume Platani con l'affluente Gallo d'Oro.
    La  meravigliosa veduta non sarebbe più identificabile se osservata attualmente (19-9-2012) siccome  in stato d'abbandono, causato dal ripetersi dei dannosi incendi. Foto tratta dal libro "I siti archeologici nei territori di Campofranco e Sutera, dell'Istituto Comprensivo di Scuola Materna, Elementare e media di Campofranco, curato dal prof. Vincenzo Nicastro. Ediz. 2003-2004, finanziato dalla Regione Siciliana).
    Ritornando al fiume Platani in piena, godiamoci  quest'altra eccezionale foto ripresa  (verticalmente dal ponte di Fontana Fredda), dallo scrivente, come molte altre.
     L’acqua  furiosa  e  torbida  sembra toccarsi con le mani, dando la sensazione di sfiorare la sede stradale, come se fosse priva del parapetto.


      
    Sempre col fiume in piena, ecco altra bellissima foto ripresa dal Ponte di Passofonduto.
     In primo piano: un tratto della ferrovia con la spettacolare "immagine" della galleria e la condotta idrica rialzata; in alto, su Sutera, appare una nebbiolina che si intona perfettamente al cattivo tempo, in periodo invernale.

   
Altra simile immagine del Fiume Platani in piena, ripresa pure dal ponte di Passofonduto. La condotta idrica che la costeggia sembra sfiorabile.


     
Ancora altra simile  foto ravvicinata col fiume in piena, ripresa dal medesimo ponte.  La ringhiera in  tubi,  che fa  da “guard-rail”, sembra faccia parte della sottostante condotta metallica.


    
    Bellissima foto di un lungo tratto del fiume Platani in piena, ripreso da un poggio soprastante che mette in primo piano il magnifico ponte di Passofonduto, la  condotta  idrica distesa nel suo bianco letto, e “due occhi guardinghi", quali  che siano gli ingressi delle due gallerie, a protezione della strada ferrata e dello scorrimento veloce Palermo-Agrigento.
    Dal racconto fatto da mio nipote Franco, di ritorno da Agrigento il  giorno 9 marzo 2009, mentre  in macchina lui transitava  su  questo  Ponte",  notava"che la "piena del fiume" sfiorasse la volta degli archi. Per la rara circostanza, diversi fotografi, con potenti "zooom" riprendevano la scena del raro fenomeno. Se anch'io, quel giorno, pure di ritorno da Agrigento, avessi imboccata la Provinciale per Casteltermini, oltre che il "lago" avrei visto e fotografato l'evento degli archi.
    Qualche sera dopo, altro mio nipote, Gilormino, a cui raccontai il fatto, andando su internet, cosa scoprì? Eccolo! Che al "centro di quel lago" della pagina 77, un giovane seminudo, probabilmente di Milena, su di un gommone, faceva sfoggio della sua bravura, remando a destra e a manca, con eccezionale disinvoltura.
    


    Ancora altra stupenda immagine  che lascia vedere la “piena ridotta” del fiume Platani, nella  panoramica ravvicinata.
    Altra analoga immagine che si ripete in periodo  estivo  con  l’aggiunta   del treno  proveniente da  Agrigento, pronto ad entrare in una arcata del ponte di Passo fonduto.



    Particolare veduta  ravvicinata della condotta  idrica rialzata, situata  tra la linea  ferroviaria ed il fiume Platani, apparentemente tranquillo.


                
    Ecco altra stupenda immagine in  cui  prende  il primo posto un tratto del fiume Platani, in una strana curva ad “S”, attraversata da una “passerella” per il transito della linea ferroviaria Palermo -Agrigento.
      E’ in una di queste strettoie che, il “ponte  di  legno" allestito provvisoriamente dall'esercito statunitense, con delle travi di alberi giganteschi, durante il transito da Passofonduto, dopo che il Ponte a   sette  archi   era  stato  fatto  esplodere  dai   nostrisoldati, fu trascinato e quindi frantumato da decine di persone che, considerandolo preda di guerra si impossessarono del pregiato legno.
    Alla sinistra si nota appena la littorina proveniente da Agrigento uscire dal  ponte ferrato.
    Dopo questo episodio che sa di "racconto storico  di guerra finita", ma anche  di scarsità economica per tutti, credo  sia accettabile raccontarne altro analogo, del quale mi dico testimone in prima persona.
    Dunque, eravamo nell'agosto del 1943, quando dopo il transito  da Casteltermini dell'esercito statunitense,  si sparse la voce che in località Passofonduto, poco distante dal Ponte esploso, in un poggio adiacente la Statale Palermo-Agrigento, si trovassero diversi veicoli militari, anche americani, abbandonati siccome resi fuori in conseguenza dei bombardamenti .
    La necessità quindi di recuperare quanto di utile fosse possibile, diventò  un fattore comune a mo' di "passa parola". Mio fratello Raffaele  che  si  trovava in paese, siccome  già  esonerato  dal  servizio   militare  per  lavorare nella miniera di zolfo di Casteltermini,  in mia compagnia, 15enne, volle pure lui andare a vedere di persona la realtà.
    Di veicoli sparpagliati in una superficie di diversi  migliaia di metri quadrati, ce ne erano tanti
Ma l'effetto  oltremodo  penoso,  se non angosciante, nasceva    al pensiero della tragedia che lì era avvenuta tra eserciti antagonisti, trattandosi di un punto strategico. Con una sega molto larga e a punte piccole, il citato mio fratello, con una particolare bravura,  dalle ruote delle camionette (che erano le più comode), riusciva  a staccare delle suole di gomma alte un centimetro, per le scarpe da riparare. Appariva meraviglioso osservare il risultato, e noi  lì, non eravamo i soli.
    A distanza di 68 anni, del "Ponte esploso" non mi viene nulla in mente certamente perché, allora in paese, non fu oggetto di specifiche argomentazioni,   altrimenti   sarebbe   stato   sufficiente   camminare meno  di   un  chilometro per  osservare  le  sue   macerie, magari con un  "commento" da parte del citato mio fratello che di guerra se ne intendeva davvero, perché da Caporal Maggiore,  aveva  fatto il  militare nel porto militare di Palermo, Reparto Nebbiogeno, col compito di coprire le navi quando le sirene preannunciavano l'arrivo degli  aerei  nemici  per  i  rituali  bombardamenti. Fu in  queste circostanze che un giorno scrisse una lettera a mia madre perché facesse dire una messa di suffragio per un commilitone, ferito mortalmente mentre si trovava accanto a lui.



    Non meno artistica appare quest'altra foto che, panoramicamente fa  vedere uno spettacolare semicerchio, della linea ferroviaria Palermo-Agrigento, con la "Littorina appena uscita" dal ponte di ferro.



    Questa bellissima foto ravvicinata lascia vedere il retro del "Ponte  Palo",   pure del Fiume Platani, che delimita metà  del  territorio di Casteltermini.



       Quest'altra ne riporta il frontale col Fiume Platani sottostante. In relazione al “modesto rigagnolo (ripreso in un giorno del caldo mese di giugno 2010),  esso creerebbe una quieta sensazione riferita allo scorrere delle poche acque. Ma non è proprio così e lo dimostrano i vari macigni  "nel suo riposante letto”, trasportati ed ivi lasciati dalle furiose acque torrenziali, le quali, al pari del Ponte di Passofonduto, distrussero e portarono  via  più  volte anche  questo.  
    Ma nel 1934-35, ne venne costruito uno solido dalla struttura architettonica detta “ad arco rovescio”, tuttora in perfetto stato.
    A proposito della località "Palo", mi fa piacere parlare di un "torrente" che i
Castelterminesi, chiamiamo "Vaddruni du Palu", del quale io sarei ancora una volta diretto testimone, in riferimento ad altro fatto, risalente a quando avevo 12 anni, cioè 70 anni fa, meglio sarebbe dire nel 1940.
3-continua

(Le precedenti puntate sono state pubblicate sui seguenti numeri: 483  di Maggio - Giugno 2015; 484 di Luglio - Agosto 2015)