Storia del ponte di Passo fonduto, tra Campofranco e Casteltermini

(Con note autobiografiche)

di Salvatore Panepinto

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Dunque, eravamo in piena guerra! I miei tre fratelli maggiori erano "sotto le armi" ossia partiti per servire la Patria: Vincenzo, sposato e con un figlio di appena un anno, si trovava al fronte, in Grecia. Dopo la sua partenza, la giumenta bianca che possedeva per i lavori agricoli, a malincuore da parte della famiglia, dovette essere venduta. Era bellissima, aveva una andatura spigliata. Piccoli e grandi  le eravamo affezionati.

        Raffaele si trovava in servizio all'Aeroporto Militare di Palermo, pure in prima linea coi bombardamenti quotidiani; Francesco era partito per la prima volta, in servizio di leva, con destinazione Vercelli.

        Parlando di Francesco, non posso fare a meno di citare un episodio che, quando mi  passa per la mente, mi commuove e mi da la sensazione di rivederlo in un pezzettino di film, di "sfuggita". Eccolo: un giorno giunse una sua lettera. A leggerla per prima fu mia madre, poi mia sorella Maria, due anni più grande di me, infine la lessi io che, nella parte finale, ossia nell'ultima pagina, mi accorsi che Francesco chiedeva di spedirgli la "tessera annonaria" con cui avrebbe avuto diritto ad una razione di pane giornaliero di 150 grammi, indipendentemente del rancio che gli passava il Comando militare. Notando che né mia madre e né mia sorella avessero commentato tale richiesta, fui portato a parlarne io. Mia madre ne rimase mortificata per la svista, dovuta al fatto che, la terza  pagina, terminando coi soliti saluti, dava la certezza che la lettera fosse terminata  lì. Gli venne spedita subito.

        In detta località "Palo" possedevamo un appezzamento di terra "rettangolare" di circa un ettaro e mezzo", che ci consentiva di raccogliere del grano e tanto altro ben di Dio, prezioso per la famiglia, specialmente nel periodo di "carestia" dovuta alla guerra.

        Bene, "rimasto solo come uomo" (mio padre, in seguito ad infortunio sul lavoro in miniera era deceduto quando io avevo 3 anni e mezzo) per quanto  possibile diventai colui che "doveva" badare alla terra. Quindi, a piedi, percorrevo quei pochi chilometri che la separavano dal paese, passando "u vaddruni", prima all'andare e poi al ritorno, nel "guado" che consentiva l'attraversamento, camminando in bilico tra pietre tondeggianti e levigate (ciottoli).

        Un bel giorno, mentre ero lì, si mise a piovere e la pioggia, pur intervallata nel tempo, non terminava. Una grotta scavata in un poggio sabbioso, da parte di mio fratello Raffaele e Francesco, riempita ad arte a mo' di cupola con delle pietre squadrate, aveva una capienza per diverse persone, in un clima confortevole, sia d'estate che d'inverno. Mi ci accomodai per alcune ore e quando decisi di andarmene, nel ripassare il ruscello, guardando il livello dell'acqua, la vidi normale, sentivo però  un rumore simile a quello d'uno sciame d'api in movimento. Girando poi lo sguardo verso l'alto, mi resi conto che, ad una trentina di metri, l'acqua scorreva torbida ed era alta più di        mezzo metro. Senza dare molta importanza, tranquillamente terminai il camminamento. Qualche minuto dopo però ecco arrivare "la china" che aumentava sempre più, fino a raggiungere i due metri di altezza. Un quadro spaventoso rimastomi  impresso nella mente, che mi torna in visione ogni qual volta mi capita di parlare du vaddruni du Palu, sia come torrente che come "località" della proprietà terriera, rimasta abbandonata per alcuni decenni. Venne fatta pascolare dal proprietario di un gregge di pecore per pochi chili di formaggio all'anno. Fu venduta nel 1992.

        Anche questa mini  "storia familiare", (con un po' di buona volontà da parte del  lettore) potrebbe  collegarsi  agli avvenimenti del "Ponte di Passofonduto", considerando il fatto  che   "il torrente" potrebbe essere paragonato ad un vulcano dormiente che, quando si risveglia, contribuisce alle inondazioni del Platani. Infatti, riferendomi ai citati tempi lontani, ricordo di  aver sentivo parlare di piene paurose, le quali interessando migliaia  di ettari, gli agricoltori dovendolo attraversare in piena,erano costretti a portarsi in un determinato punto, dove il guadare sarebbe stato possibile, pur rimanendo il rischio perché, montati sui cavalli o muli, la loro sagoma (agli occhi di chi stava a guardare in trepidazione) era limitata alla sola testa della bestia ed al busto del conducente", in quanto la parte sottostante rimaneva sommersa nell'acqua sporca, in un tratto in cui il fondo non sarebbe stato certamente sgombro da detriti e altro.            Sempre nella memoria di un ragazzino, ricordo che questi signori commentando il "caso" puntualizzavano che i cavalli o i muli, in quelle circostanze non poggiavano i piedi per terra ma "nuotavano" con l'istinto di uscire dal pericolo.

        Per concludere l'argomento, posso aggiungere che tale "vaddruni", pur non avendo nulla a che vedere col "Ponte Palo", di fatto come affluente del Platani, vi entra un centinaio di metri più giù, contribuendo alla capacità distruttiva.   

        Rimanendo sull'argomento, mi fa piacere pure  ricordare altri episodi. Uscito dal paese, il viottolo che dovevo percorrevo per raggiungere il podere iniziava vicino ad un caseggiato rurale, dopo aver superato una grande vasca circolare che serviva da abbeveratoio per le bestie degli agricoltori. La quale non esiste più siccome demolita e trasformata in uno spazio dedicato alla Statua di Padre Pio e adibita a caratteristico luogo di preghiera all'aperto con comode panchine, fiori e Radio diffusione locale, in collegamento con la Chiesa Madre.

        Nel citato caseggiato c'era la cucina dei soldati con annessa la mensa ufficiali e sottufficiali. Un giorno nel passare di lì per raggiungere la campagna, fui conosciuto da una signora che abitava nel medesimo edificio, la quale mi chiamò e mi fece avere un piatto di riso cotto nel brodo di carne, il cui sapore squisito sembra di averlo tuttora in bocca.

        Tale caseggiato, volendolo visitare durante la presente scrittura, cioè a distanza di circa 74 anni, con mio stupore debbo dire che non ho trovato nulla di ciò. Ho solo constato case relativamente nuove fabbricate disordinatamente, ossia in contrasto con la regola di un qualsiasi piano regolatore.

        Il Presidio dei Militare a Casteltermini, con la Sede del suo Comando in località "Piano di Fumo", vi rimase per una  diecina d'anni, a giudicare dal contenuto del brano che segue.

        Un giorno, in compagnia di altri bambini, indossando il "grembiulino" camminavamo per una strada del paese. In giro c'erano dei soldati di pattuglia, uno dei quali, avvicinandosi a noi ci chiese dove stessimo andando; il meno timido rispose che andavamo "all'esilio". Il militare capì subito che si trattasse "dell'asilo", ma volle ugualmente apparire scherzoso, con altra domanda che suonava così: "Come Napoleone?!"

        "Ferro  per  la  Patria".  Sempre nel ricordo d'una tenera età, altro episodio che mi torna alla mente, è quando veniva cercato, trovato, caricato e portato via con dei camion, il ferro  per la Patria. Una  delle prime ad essere stata smontata fu l'inferriata del monumento ai caduti della guerra 1915-1918, che si trova tuttora in Piazza d'Uomo. Venne ripristinata dopo alcuni anni dalla fine del conflitto 1940-1945 e furono aggiunti altri nomi.

        C'erano pure delle donne nobili, conosciute in paese, che si presentavano nelle case con modi signorili, chiedendo "Oro per la Patria". Una immagine  rimastami incancellabile fu quando si presentarono nel cortiletto dove abitava anche mia madre e, dal basso le donne dialogavano con le famiglie che si trovavano affacciate alle porte.   Quando, attraverso la scala esterna, giunsero nel terrazzo di casa nostra, all'invito di offrire dell'oro, mia madre da brava lettrice e persona saggia, con modi educati  pronunciò la seguente frase: "I miei gioielli, la Patria, se li ha già presi, riferendosi a suoi tre figli che si trovavano sotto le armi, due dei quali al fronte e uno in procinto di partire per la Russia. Poi, col passare degli anni, compresi  il senso delle parole, risalenti ad oltre duemila anni, pronunciate da Cornelia, figlia di Cornelio Scipione Africano.

         Contento per quanto fin qui scritto, in cui è narrata  parte della mia vita da piccolo, sento di dover proseguire per il piacere di aggiungere altri particolari che ricordo con sentimento.

        La terra della località "Vaddruni du Palu" oltre che dal tetto di casa mia, è visibile da una strada che si trova a nord del paese, per cui anche adesso, ogni qual volta mi capita di passare  di lì, basta girare la testa in quella  direzione perché, con "affetto", vedo quel grande "rettangolo", come se fosse sempre mia.

        Pure la giumenta di mio fratello dopo aver cambiato padrone siccome venduta, passando dalla solita strada (baldanzosa com'era nel portamento), tirando dritto, girava la testa verso il cortiletto, entro cui si trovava la stalla che per diversi anni era stata la sua "dimora". E noi, piccoli e grandi, dal terrazzo osservando questa scena, provavamo un senso di emozione come se a passare fosse una persona di famiglia, che accennasse un segno di saluto.

         Io stesso l'avevo montata diverse volte. A tal proposito ricordo che, mentre mi trovavo in aperta campagna, dopo averla cavalcata priva di sella, come un fulmine partì a galoppo, di conseguenza subii uno sbalzo, cioè uno spostamento che dalla parte anteriore mi mandò all'estremità posteriore, quindi mi ritrovai al posto giusto, in perfetto equilibrio: non so se per mia bravura o per miracolo di Dio, non mi accadde nulla, ma la paura fu veramente tanta!

Altro simile rischio lo corsi alcuni anni dopo quando avevo raggiunto i 16 anni e mi ero  comprato un cavallino. Una sera lo cavalcai privo di sella con l'intento di fare un giro per certe vie del paese.  Tutto andava bene ma  ad un certo punto, dopo una leggera salita, improvvisamente girando la testa in altra direzione, a galoppo imboccò una discesa pietrosa, senza che io fossi in grado di frenarlo o fermarlo. Da parte mia, pur sapendo andare a cavallo, pensai subito ad una caduta del puledro e allo “sfracella mento” di entrambi. Per mia fortuna, giunto in pianura si fermò regolarmente quasi subito, come se nulla fosse accaduto

        Dopo mi comprai anche una "capretta" che ci consentì di avere del latte abbondante in famiglia. Nella circostanza imparai a fare il formaggio che, essendo caprino, era particolarmente saporito, pur nella modesta quantità.

        A proposito di latte caprino, mi viene volentieri alla mente quando, fino agli anni "50, i "caprai" vendevano il latte fresco a domicilio dei clienti, portando sul posto le capre che mungevano alla loro presenza.

        Si trattava di una usanza risalente a qualche secolo. Tutti la consideravano normale e nessuno faceva caso all'igiene, tanto per il latte che per la presenza delle capre nelle strade del paese.

        Spettacolare appariva la scena che si veniva a creare quando due capre del medesimo mucchio si "scornavano", intrecciando fra loro le lunghe corna attorcigliate, che per un po' rimanevano appiccicate.

        Capitava spesso di incontrare due caprai con 50 o 100 capre che riempivano un rione, creando una improvvisata confusione, pur senza pericoli per le persone, trattandosi di animali domestici

In un episodio che potrebbe essere vero, si racconta che un tale, trovandosi con la sua giumenta in un crocevia del paese, al centro di una marea di capre, non sapendo come muoversi per il perdurare della situazione incresciosa, presumendo che le capre gli incornassero (infiltrassero) la giumenta, rivolgendosi ad uno dei caprai che conosceva perfettamente, allungando la voce, gli urlò: "Pasquà, dobbiamo uscirne da queste corna?!".

        Parlando di capre, potrei citare quella di un capraio che le aveva tutte con le corna verticalmente diritte in parallelo, attorcigliate, facenti parte alla razza "giurgintana" (agrigentina), attirando la curiosità di coloro le vedevano in quel raro modo. Al contrario di quelle di altri caprai che erano divaricate come i lati di un triangolo isoscele, col vertice in giù.

        Prima di passare ad altro, ritengo doveroso  parlare di come venimmo in possesso di detta terra.

        Con la morte di mio padre, ci fu assegnata una certa somma di danaro da destinare ai 5 figli minori. Per i due più grandi (Vincenzo e Raffaele) essendo nel frattempo divenuti maggiorenni, la loro quota venne riscossa direttamente, mentre per i tre più piccoli, fu il Tribunale per i Minorenni a decidere.

        Prevalse il buon senso col quale si consentì che il rispettivo danaro venisse impiegato per l'acquisto del citato "rettangolo" di ettari uno e mezzo, che venne intestato a Francesco, a Maria e a me. Ciò dette la possibilità di essere coltivato da Vincenzo e Raffaele, ricavandoci frumento e cereali vari per uso familiare, la qual cosa significava "sicuro sostentamento".

        Quando i due fratelli maggiori, a causa della guerra furono richiamati per servire la Patria e poi partì  anche Francesco per il servizio di leva, essendo rimasto solo come uomo "di anni 10", al terreno dovetti badare io, per quanto possibile.        

        Per fortuna la mia solitudine durò poco perché,  Raffaele prima e Francesco dopo, ritornarono a casa con l'esonero per lavorare nella miniera di zolfo, fondamentale per il munizionamento in guerra.

La famiglia "Petix",  oltre che la Baronia di Fontana Fredda, era possidente di tanti altri beni, fra cui la mia casa di Casteltermini, posta al 2° piano della Via  Giuseppe Verdi 21, comprata nel 1981.

Abitata per lungo tempo dagli stessi proprietari, ha una storia tutta "sua", in parte narrata di seguito. Poi venne "data" in affitto ad un Medico di famiglia che faceva pure il Dentista, in un unico ambulatorio della medesima abitazione, composta da 8 stanze.

Come Medico mi curò la febbre malarica, facendomi ritornare "Un torello" come aveva promesso a mia madre.

Come Dentista, qualche anno dopo, mi tirò un molare che mi produsse un forte dolore, durandomi un bel poco.

In seguito venne affittata ad un Patronato che non la seppe custodire, tanto che quando la comprai io la trovai spogliata intenzionalmente, come se di lì fossero transitati i vandali.

Per riportarla a "civile abitazione", dovetti spendere quattro volte la spesa d'acquisto perché, a parte le mura e alcune soffitte, il resto dava un senso di sconforto.

Ultima ad essere completata fu la stanza riservata a me che Rosina, con legittimo orgoglio, chiamava "Studio".

Il soffitto del "salone", quando la casa era abitata dal Medico - Dentista, era ancora stupendamente affrescato. Anche il caminetto in marmo lavorato, era favoloso.

Nel medesimo "salone", nel 1970, venne girata una scena del film documentario sulla mafia, intitolato "Sasso in bocca" del regista Giuseppe Ferrara.

Terzo Piano, ha una sola stanza che inizialmente chiamavamo soffitta e che poi, fatti determinasti lavori, prese il nome di mansarda la quale, oltre ai pregi interni, guardando dalla finestra a Est, fa scoprire la parte superiore della Chiesa di S. Giuseppe, (distante poche decine di metri) col suo orologio funzionante e un meraviglioso prospetto in stile barocco siciliano.

Del Piano Terreno mi fa molto piacere parlarne perché, la parte che mi  appartiene, alcuni decenni prima dell'acquisto, era adibita a taverna, dove si  vendeva del vino e vi  si  faceva   da  mangiare. Fatta  questa  premessa vanno spiegate alcune cose che quando le appresi, mi  sembrarono una scoperta.

Nel casamento di Casteltermini,  teneva pure un "fondaco", più piccolo di quello della Baronia di Fontana Fredda, ubicato nel proprio cortile in cui si entrava dal grande portone esterno. I viandanti "sistemate le bestie", dovendosi ristorare, si portavano nella taverna, entrandovi da una porta laterale che  si trovava all'interno  del medesimo cortile (tutto  a portata di mano e al sicuro!, si sarebbe potuto dire in quel tempo). Quindi, sempre d'all'interno, ritornavano nel "fondaco", dove trascorrevano la notte,  riposando su giacigli di paglia, vigilando contemporaneamente i propri animali.

Durante i lavori di restauro di detto locale (diventato poi agenzia di affari), uscirono vari camion di materiale misto, con una quantità illimitata di gusci di lumaca: cibo succulento preferito dai clienti della trattoria.

Le sorprese da parte mia non terminavano mai, perché c'è da aggiungerci il "Cine-Teatro". Si, perché il terreno dove venne edificato era pure dei Petix, i quali nel regalarlo al Comune, pretesero l'apertura di una porta comunicante col cortile, mediante diritto di un palco a loro disposizione, potendo essi entrare e uscire a piacimento dal "Secondo Piano", tramite una scala in muratura interna, per godersi gli spettacoli, senza transitare dalla strada principale.

Il "Cine-Teatro" di Casteltermini era degno  del proprio nome, perché coi suoi "Palchi", il "Loggione" e la elegante "Platea", dopo  quello di Agrigento, che prende il nome di Luigi Pirandello, era classificato il migliore di tutta la provincia, rimanendo tale per molti decenni.  Un giorno però (meglio sarebbe dire: "un triste dì mi fu tanto fatale!!! che la vittima fui d'un temporale; tratto da una mia poesia scritta a Taranto nel 1953)", giunse la sua fine perché venne diroccato, ossia trasformato e, dopo parecchi anni, ridotto allo stato attuale.

Prima di chiudere questa parentesi un po' lunga per la verità, riferita all'acquisto della casa dai Petix, mi fa tanto piacere citare un "particolare" che ha veramente dell'incredibile: "Era il 1955 quando mi trovavo temporaneamente a Bari dove frequentavo un corso di dattilografia. Qui mi venne la felice idea di scrivere un fatto accaduto  in un Paese di quella Provincia, dove facevo servizio da giovane Carabiniere. Ad un certo punto, nel dover descrivere il comportamento dei due protagonisti immaginari, collocai la scena nelle scale della casa del citato medico-dentista che io avevo visto per caso

una sola volta 25 anni prima, e che poi, lontano da ogni immaginazione, diventarono di mia proprietà).

Venne fuori una "commedia in rima alternata" della quale rimasi soddisfatto sin da subito. Anche ora a distanza di 60 anni, quando la rileggo oppure ne parlo con qualcuno, mi faccio delle  risate che mi divertono molto. Se la nomino, la indico col nome  di Battista, riferito ad uno dei due personaggi che fa la parte del fessacchiotto".

 

 

 

Ed ecco il prospetto "signorile" del caseggiato dei Petix del quale mi appartiene il secondo piano, distinguibile dal balcone più lungo e più  bello del paese, specie se guardato da basso, da dove si scorgono 26 cerchi in ferro che lo rendono più imponente.

Affacciata che guarda il transito della "Cavalcata" della  processione  relativa  alla  festa  di Santa Croce, c'è Rosina mia moglie, che si "gode" quanto di meglio si svolge nella sottostante Via Giiuseppe Verdi.

L'antistante crocevia (non visibile nella foto), spesso diventa "luogo di incontro e di attesa", siccome spazioso e  adiacente col Corso Umberto I° e con  la Piazzetta  antistante la Chiesa di S. Giuseppe. Inoltre, nel pomeriggio del venerdì della 4^ domenica di maggio, in onore della Festa di Santa Croce, seguiti dalle rispettive bande musicali, ci sono le sfilate dei quattro ceti: Maestranza, Celibi, Pecorai e Borgesi, per la deposizione delle relative corone al Monumento del Milite ignoto.

Bene, in questo clima armonioso, un anno non mancò la presenza dell'emittente televisiva Teleacras di Agrigento, al cui responsabile chiesi una "ripresa al prospetto". E lui, datomi il tempo di salire le scale, mi dette la gioia d'essere filmato assieme  alla citata mia moglie.

 

 

 

Ecco la magnifica veduta della  Chiesa di S. Giuseppe che il concittadino Michele Guardì, per diversi anni, ha fatto vedere nel suo programma "I fatti vostri" nel Secondo Canale della Rai.

 

 

 

E' dal tetto di casa mia che si può ammirare questa "veduta "dalla quale si nota la "Montagna" di pietra schiacciata appuntita, simile a una serie di "pale di baccalà", collocata in alto a sinistra rispetto al mio terreno, in parte localizzabile nella  macchia marrone, in fondo a destra.

Tutta la località prende il nome "Palo", pur non avendo a che vedere coi  "Ponti Palo" delle pagine 88 - 89.

Della medesima "Montagna" lo storico Gaetano Di Giovanni, facendo riferimento all'arrivo in Sicilia dei Romani nel I secolo avanti Cristo, descrive cose terrificanti.

Dal medesimo tetto, in determinati giorni favorevoli, si vede pure l'Etna col suo "pennacchio", quando ce l'ha.

Per quanto riguarda la terra, alcuni giorni dopo averla venduta (ero in pensione da 4 anni), cosa feci? Eccolo: "Una mattina del mese di giugno, dopo aver lasciata la Fiat 500 sulla strada maestra, a piedi come avevo fatto migliaia  di  volte,  sia  da  piccolo  che da giovanotto, mi ci recai ansioso e commosso, percorrendo il medesimo sentiero, fiancheggiato da ottime erbe medicinali e aromatiche profumate, che tante volte avevo portato a casa .

Per prima cosa mi feci il segno della croce, come se mi fossi trovato in un luogo sacro e tale lo consideravo per via dell'abbondante raccolto che aveva prodotto negli anni in cui veniva coltivato. Poi recitai una preghiera di ringraziamento, quindi lo visitai in lungo e largo, collegando i cari ricordi lontani. Ad  un certo momento, a  sorpresa, risentii i rintocchi dell'orologio della Chiesa Madre che, in linea d'aria dista poco più di un chilometro. Scandiva i quarti d'ora e suonava le 11,45. Le ore andavano dalle 6 alle 12, dalle 12 alle 18, dalle 18 alle 24 e dalle 24 alle 6.

Osservandolo dal tetto di casa mia, lì vicino si nota una caratteristica montagna schiacciata somigliante ad una serie di "pale di baccalà" della quale lo storico Di Giovanni, in riferimento all'arrivo dei Romani nel 1° secolo A.C., racconta cose mostruosi .

Le pagine che seguiranno saranno dedicate alla personalità del Generale Giuseppe Garibaldi siccome, dopo lo sbarco in Sicilia, nel transitare da Casteltermini, fu ospite coi suoi Ufficiali a pranzo a palazzo Lo Bue (oggi Villa Maria la Quiete).

L'evento riempie d' orgoglio tutti i cittadini di Casteltermini. Anche il gesto del giovane Bernardo Fragale, fratello della mia nonna materna e mio zio, è degno di lode per essersi arruolato volontariamente come garibaldino, da bravo "Picciotto Siciliano".

A questo punto è doverosa una precisazione: "Sbarcato Garibaldi  in Sicilia coi suoi "1000" uomini, doveva arruolarne altri per ”ingrossare” le file dell’Esercito. A tal proposito va detto che erano i Sindaci dei paesi incaricati a provvedervi, data la conoscenza dei propri cittadini. Così “Bernardo”, orgoglioso di diventare “garibaldino” chiese ed ottenne l’ammissione, unico in Casteltermini. Quindi informò subito i genitori che non rimasero affatto contenti. Ma lui deciso nel  proposito, partì convinto e contento.

Sua mamma, ossia la mia bisnonna, addolorata per   la partenza ed il rischio che avrebbe corso in guerra, volendo condividere le sue sofferenze, da quel giorno (era d’estate) indossò una veste invernale a collo alto, che le arrivava ai piedi. Diceva: “Soffre mio figlio   con la divisa pesante, soffrirò anch’io con questo abito!”.  E non se lo tolse fino al giorno del suo ritorno!

 

VILLA MARIA “LA QUIETE"

 

        La villa rappresenta l'espressione della personalità del suo committente, la cui volontà era evidentemente quella di realizzare una struttura alle condizioni della famiglia Lo Bue, nella fase culminante dell'ascesa politica, sociale ed economica per il centro di Casteltermini e del circondario.

 

La scrivania

 

Lettera che Garibaldi fece pervenire a Don Gaetano Lo Bue su cui si legge:

 “Italia e Vittorio Emanuele – Roma o morte

Prima Legione Romana

Comando Generale

Il Signor Lo Bue è autorizzato a raccogliere uomini e denaro per la causa nazionale”.

 

 

 

Servizio Blu Cobalto

 

Servizio da tavola per 48 persone. Fu servito a G. Garibaldi e i suoi Ufficiali, il pranzo a palazzo Lo Bue (oggi Villa Maria “La Quiete”) in Casteltermini.

In questa stanza nel 1860, durante la spedizione dei mille in Sicilia, cenò G. Garibaldi, una testimonianza ne è una sua foto con dedica ai Conti, in cornice d’oro. (da internet: Casteltermini Villa Maria “La Quiete”)

 

 

 

Collezione di spade, di cui la prima a sinistra, donata da Garibaldi. (Internet: Casteltermini Villa Maria “La Quiete”, Pag. 10, lett. C, 1° cpv. ).

 

 

 

Cappella funeraria "Gesù il buon pastore" - Villa Maria - Costruzione dell'architetto Ugo di Palermo, dell'archivio Rossetti e del Conte Gaetano Lo Bue di Lemos stesso.

 

Seguono ora le immagini relative al citato "Ponte Romano" ed alle meravigliose miniature dell'artista Dorino (Isidoro) Mazzara di Campofranco, realizzate in pietra di Comiso e marmo rosa Portogallo, grazie al suo certosino lavoro.

 

 

 

Questa misteriosa e altrettanto bella immagine (fichidindia a parte), ci fa tornare indietro nel tempo, nel senso che ci riporta alla "confluenza" tra il Platani e il Gallo d'Oro, che non è stato possibile far vedere con una  foto migliore.

Per l'esattezza è bene precisare che l'emissario proviene dalla sinistra, mentre l'affluente (per quel poco che si vede), arriva dalla destra; tutti e due formano una immaginaria ipsilon che va in giù  (al centro della foto).

 

 

 

Questo è invece un breve tratto dell'affluente Gallo d'Oro, fotografato alcune decine di metri prima dell'unione col Platani (più giù), che non è possibile vedere.

E' chiaro il fatto che la foto sia stata ripresa dal lato da cui proviene il torrente. Da notare la vegetazione "un po' sciupata" in conseguenza del transito di una recente piena. 

 

 

 

Infine, questa è la straordinaria "foto aerea" della Valle del Platani, vista dall'angolazione opposta a quella della pagina 3, che però "non lascia vedere in modo soddisfacente la "tanto desiderata" convergenza ottimale. Alla sinistra scorre il Gallo d'Oro, a destra proviene il Platani (le piccole frecce direzionali che ho aggiunte, forse sono inopportune).

La foto mi è stata donata dal gentilissimo Giuseppe Palumbo, direttore del Museo di Milena.

       

 

 

Questa bellissima immagine rappresenta l'antico "Ponte Romano" che non esiste più.

Di esso si sa che:

1)- nel 1931, una violenta alluvione, spazzava la fiancata sinistra, lasciando intatti la destra e l'unico grande arco. I tecnici, dovendola ricostruire, pensarono di creare un secondo arco più piccolo distanziato, al fine di ridurre l'impatto con altri possibili straripamenti. Questo spiega la presenza del secondo arco nella fiancata sinistra, cosa che non appare in altre immagini di data precedente;

2)- nel 1981, lo spettacolare  millenario "Ponte Romano", crollava definitivamente, non a causa di inondazione, ma per delle lesioni o squarci tra i massi della parte centrale dell'arco.

 

 

 

Questi sono i resti di quello che rimane dell'antico "Ponte Romano".

In riferimento alle sue sciagure, nella pubblicazione Viaggio in Sicilia del dicembre 2006, curata dal Comune di Campofranco, il prof. Giuseppe Testa, fra l'altro scrive: quasi al termine della trazzera, a valle, in un punto in cui le due rive si restringono, oggi si possono osservare i due tronconi di un grande ponte, il cosiddetto "ponte romano", crollato alla fine del luglio 1980. Il ponte era parte dell'itinerario di Antonino Augusto, importante nodo  stradale dell'epoca romana, che portava ad Agrigento. Nelle vicinanze vi era una statio, la Comiciana, cioè una  stazione di passaggio (una sorta di odierno motel) con case, magazzini e stalle dei quali sono state ritrovate delle tracce.

Sicuramente perché più volte danneggiato e ricostruito dopo l'ultimo crollo, avvenuto nel 1700, la Deputazione del Regno di Sicilia aveva dato incarico di costruirne uno nuovo.

Nel 1815 il Principe Antonino Lucchesi Palli lo aveva fatto restaurare. Altri interventi lo avevano interessato nel 1930 e nel 1940. Nel 1977 sono comparsi lesioni e squarci tra i massi della parte centrale dell'arco, poi il crollo.

 

 

 

Quest'altra eccezionale immagine conserva un pezzo di storia dell'epoca romana, nel territorio di Campofranco.

Sono tuttora evidenti:

 a) una parte dell'eccezionale passamano destro del millenario Ponte, le cui gigantesche pietre calcare sovrapposte, sono delle dimensioni di circa un metro cubo ciascuna;

b) la speciale  pavimentazione in ciottoli del  passo carrabile;

c) infine, la "Reggia Trazzera" a fondo naturale e quindi non percorribile da carri, (specialmente durante la stagione invernale), un tempo larga 38 metri, per gli spostamenti militari, ed anche per il transito degli armenti, quest' ultima meglio conosciuta come "transumanza".

 

(Foto Panepinto)

 

Ed ecco come appare una pietra singola  che misura m.1,20 per m.0,80 alla base e m. 0,90 di altezza. Adagiata sulla carreggiata della fiancata destra del Ponte Romano, è un dei tanti macigni che componevano il gigantesco passamano del millenario viadotto.

 

 

 

E questo è il "disegno-progetto"  del'Ing. Michelangelo Blasco,  progettista di un nuovo ponte  per incarico della Deputazione del Regno di Sicilia, nel 1700, non realizzato.

L'originale si trova esposto nel Museo di Storia Locale, Arti e Tradizioni Popolari di Campofranco, per gentile donazione del Prof. Arch. Vincenzo Lucchese Salati.

Da notare, ai piedi dell'arco, le profonde immaginarie fondamenta in pietra calcare, all'interno di entrambe le montagne di gesso.

 

Per ultimo seguono le meravigliose  miniature di Dorino (Isidoro) Mazzara. Da notare che, pur trattandosi di struttura  risalente a migliaia di anni addietro, la loro bellezza non teme confronti.

 

 

(Foto Panepinto)

 

Ecco la prima miniatura in pietra di Comiso. In scala 1:I00, queste sono le dimensioni:    

 

a)- larghezza del passo carrabile, cm.10;

b)- altezza da terra all'arcata centrale, cm.16,5;

c)-       "     "      "     al passamano della parte carrabile, cm. 23;

d)- larghezza dell'arcata, cm.33 ;

e)- lunghezza del ponte alla base, compreso i due piedistalli (cm. 35 + cm.45), cm 113 ;

f)- pezzetti di pietra perfettamente squadrati su misura, 1000 e rotti;

g)- peso complessivo kg. 25, circa.

L'Opera del Signor Dorino, se osservata di presenza, lascia scoprire tante altre  belle cose.

 

 

 (Foto Panepinto)

E questa è la seconda miniatura in marmo Rosa Portogallo, che differisce dalla precedente per le dimensioni, che sono in  scala 1:I50.

Una risposta alla domanda di chi vorrebbe sapere dove siano andati a finire le gigantesche pietre della grande arcata, con macigni di metri  cubi 1 circa,  sarebbe: "Nel bacino sottostante, ampio e profondo, rimanendo quasi interamente coperti dai detriti (pag.65).

Ed era sotto questo sbalorditivo  "ombrellone" che, molti cittadini di Campofranco d'estate, seduti nella risega e coi piedi penzolanti, trascorrevano ore liete a pescare pesci nella "naca" (bacino) d'acqua salata.

Dalle dimensioni indicate dal'Artista, emerge chiaramente la maestosità dell'Opera, alta 23 metri e larga 120, che va considerata doppia, per via delle fondamenta, necessariamente  colossali.

 

 

(Foto Panepinto)

       

Per ultimo, guardando questa specie di "gabbia", simile a quella per uccelli", verrebbe la voglia di chiedersi: "Cosa c'entra col Ponte Romano Antico?".

Ebbene, io dico che c'entra, ed anche molto, perché  il citato Signor Dorino, artista di collaudata bravura, nel fare il  modellino del "Ponte", volendo dimostrare che nulla sia stato dato al caso, ha fatto memoria nella parte relativa a come sia stata possibile la costruzione  in un punto del fiume dove le acque   abbondanti,   avrebbero   ostacolato   un   tale mastodontico lavoro, certamente  durato nel tempo.

Ecco quindi l'idea di imitare cose reali, quali sarebbero state le  "palefitte",  mediante  l'uso  di  alti   fusti  di   alberi   che   avrebbero consentito la struttura, simile alla "gabbia  per uccelli", che il  Signor Mazzara, a  sua  esclusiva  inventiva, ha creato con l'uso di  stecchini, legati con sottili fili di rame, sfilacciati da una treccia di luce elettrica e sistemati in vario modo: orizzontale,verticale o diagonale.

Ma le difficoltà nascevano una dopo l'altra perché, gli stecchini, per essere legati e fissati alla perfezione, andavano prima forati, per cui nasceva il bisogno di un trapano leggero con punta fine di un millimetro, ed  anche di una idonea base per  bloccarli. Un po' difficile a descriverlo, ma direi "impossibile" a farlo in pratica perché, questi benedetti stecchini, che superano il migliaio, che hanno una lunghezza di cm.20 ed un diametro di  mm. 3, sono stati forati per 1600 volte, in proporzione al numero dei "piani" rialzati che, essendo 9, equivalgono ad una altezza complessiva di 18 metri (metri due per piano). Quindi  "toccati", "allungati" e  "legati"  all'infinito, affinché  il  lavoro  della   gabbia (alta cm.22 e larga cm.38)  proseguisse col rispetto delle misure millimetriche. E quanti stecchini si sono spezzati;  e  quante  punte  di   trapano  si   sono  rotte  perché, il trapano va sfilato mentre è in movimento e non  quando è spento, altrimenti la punta si spezza; e quante volte il lavoro è stato interrotto, meditato, corretto e rifatto?!.

Bene, il  Signor Mazzara nella sua invidiabile fantasia, ha tenuto anche conto della sicurezza degli operai, mediante apposite passerelle all'interno della gabbia, ed anche alle  sponde esterne, perché i lavoranti, in caso di caduta dalle impalcature non andassero a finire dentro l'acqua.

E la pazienza, e la costanza del Signor Dorino, per i  mesi o gli anni di appassionato ed intelligente lavoro, chi l'avrebbe avuta?

E l'altra pazienza, e l'altra costanza, e l'altra bravura, quella  cioè per la realizzazione dei due Ponti, in scala 1:100 e 1:150, dove la mettiamo?

Questi "capolavori", esposti per alcune settimane presso il Museo di Campofranco, in occasione delle solenne festività di S.Calogero del 27 luglio 2010, hanno avuto il privilegio d'essere ammirati ed apprezzati, assieme ad altre opere di altri Artisti, da migliaia di visitatori.

 (Per un punto di legittimo orgoglio personale, mi sia permessa l'intrusione perché faccia presente che, simili apprezzamenti nella medesima circostanza, li ho espressi per Roberto, mio nipote, pure autore di meravigliose 0pere, riportate nel mio libro "Il Mosaico in maiolica dell'Artista Roberto").

Ecco ritornare sull'argomento della "guerra in casa nostra", in riferimento al Diario del Ten. Triscari (pagina 13), coi tragici avvenimenti vissuti nella zona di Passofonduto, conclusisi con l'abbattimento del "Ponte e della Galleria della Ferrovia",  per non subire la cattura da parte del potente nemico.

Il 9 maggio 1943, dal 7° Reggimento Genio di Palermo, dove i continui bombardamenti cancellavano interi quartieri e dove nel Porto le navi cariche di munizioni erano in fiamme (pagina 43), il Ten. Triscari, con la 4^ Compagnia, venne trasferito al Comando Battaglione di Casteltermini, il cui Comandante era il Maggiore Caccamo. Qui la vita la considerò regolare,  a  parte  i vari tipi di aerei  alleati  che volavano basso, velocissimi, in continua perlustrazione, mitragliando sulle strade e sui treni. Ma il Battaglione di Casteltermini non era considerato obiettivo diretto, quindi bastava un segnale di tromba per dare l'allarme.

 

 

 

La presente foto, forse scattata dal Tenente Triscari, potrebbe essere l'unica testimonianza riproducente il Ponte sul fiume Platani in località Passofonduto di Casteltermini, in riferimento al periodo bellico 40-43.         

Certo, volendo Fare memoria dei due sbarchi avvenuti in  Sicilia, il primo nel 1860 ed il secondo nel 1943, posso dire (ed anche scrivere forse per la prima volta nella Storia Locale), che questo lembo di “Suolo Italiano”, quale che sia la località “Passofonduto di Casteltermini", ce la troviamo protagonista in due distinti avvenimenti storici che portano " il Ponte sul Fiume Platani", al centro di situazioni opposte, nel senso he: "con lo sbarco di Garibaldi, venne costruito per il completamento della Statale Palermo-Agrigento, mentre con lo sbarco degli Alleati,  fu fatto esplodere dai "Nostri Valorosi Soldati", nel tentativo di ostacolare l’avanzata dell'esercito americano.

Quello che accadde in quei giorni, è paragonabile all’agonia di un "Reparto di Soldati", certi di affrontare un funesto destino, derivato dall’imminente arrivo del  dominante nemico, di fronte al quale ogni resistenza sarebbe stata vana, compreso l’abbattimento del "Ponte" e dell' annessa "Galleria  Ferroviaria".

 

Il primo servizio espletato a Casteltermini, il Tenente lo racconta come segue:

 

"Per la sera del 12 mi trovo comandato ad un posto di blocco all'ingresso Nord del paese; gli ordini sono severi perché sono segnalati incursori autonomi, sbarcati da alianti. Prendo 4 uomini, ne sistemo 3 defilati sul lato sinistro della strada, tengo Angelo (l'attendente) con me sul lato di marcia, e la consegna è di sparare se sono io a sparare.

Assurda: ogni uomo ha solo 6 colpi! Traffico inesistente; alcuni sbandati diretti verso "Palermo", tutti marinai, non armati, il morale a pezzi.

'Perché ripiegate? E le armi? E la base di Agrigento? Vi sono sbarchi a Porto Empedocle?"

"No. Gli americani sono già a terra tra Gela e Licata, vi è resistenza. Il mare è pieno di navi, moltissime. La nostra base non c'è più. Cerchiamo di raggiungere la costa nord" (Palermo).

Non riesco a spiegarmi nulla di nulla! Non vi è movimento di nostre unità nella zona, vedo movimenti a valle, ma il cielo è pieno di aerei, in quota bassa ed i mitragliamenti sono a raffica continua. L'orizzonte a Sud, oltre le colline, è tutto pieno di lampi, di scoppi, ed  il rombo dei cannoni ripete la cadenza terribile dei primi temporali d'autunno.

A tarda notte sento una macchina nelle curve vicine, è un'auto "blu" di rappresentanza, avanza  a  fari oscurati, porta  la  Targa  RM, sono nel centro della strada e grido "Alt" con la pistola in pugno, ma l'auto non rallenta. Ripeto "Alt" ed alzo la pistola, seguito da Angelo che sbuca dietro già con il fucile spianato e determinando l’esempio degli altri 3 sull'altro bordo della strada. L'auto si blocca; ne scende un Ten. di Vascello, con le  cordelline  di Aiutante di Campo e si presenta  come   tale,   porgendo  una  tessera.  Guardo  dentro;  c'è  un Ammiraglio di Divisione, un Capitano di Vascello, uno di Corvetta. Insisto: "Con molto rispetto, Signore,  anche le tessere degli altri".

"È l'Ammiraglio Comandante la base di Agrigento con il suo Stato Maggiore. Siamo in trasferimento su Palermo. La strada lungo la costa non è più sicura. Riscontro le altre tessere; le ritorno.  Grazie. Buon viaggio". Faccio cenno ai soldati di abbassare i fucili e dico ad Angelo a voce alta: "'Telefona al posto di blocco n° 2 di lasciar passare". Angelo capisce tutto, scompare; lo sento subito gridare ordini precisi dentro un telefono inesistente. La macchina va via nella notte. Ciascuno di noi riprende il suo posto, Sto seduto sopra un paracarro, guardo l'immensità delle stelle nel cielo purissimo  privo di  inquinamento, ma  non ricevo serenità e sono molto in ansia. E se si fosse trattato di falsa macchina, di  false divise e di un commando? La capacità di fuoco dei soldati era in totale dì 24 colpi, a caricamento singolo, molto meno  d­ella  raffica  di  un  solo fucile mitragliatore! E non trovavo una sola risposta che fosse plausibile alla vita dei ragazzi che avevo con me ed ai profondi pensieri che avevo sognato per la mia giovinezza. I miei studi, l'Università... l'armonia di un teorema che scorre sotto un gessetto sopra una lavagna, le Leggi di Keplero a regolare in cielo il movimento degli astri, Newton e la sua gravità, la mia mamma lontana in preghiera per me, il pensiero continuo per Anna Maria riempivano con dolcezza infinita e triste il buio della notte.

        Cercai invano di potere capire i rumori lontani della battaglia. Al campo non si sa niente; il Comando  della Compagnia e del Battaglione sono abulici, il traffico radio è talmente intenso e veloce che molti segnali sono pari a fischi modulati, incomprensibili anche ai più esperti dei sergenti. Dalle luci all'orizzonte, dalla loro ampiezza e intensità, deduco una  invasione più che uno sbarco di unità; l'appoggio delle artiglierie dal mare è continuo e potente; una certa cognizione teorica e la triste esperienza di Punta Stilo, vissuta da Messina, mi portano alla certezza che la Rodney, la Warspite, la Valiant e forse anche la Nelson se già riparata, sono insieme sotto costa. Una forza simile, comporta la presenta di una ventina di incrociatori e di un nugolo di navi minoried i convogli da sbarco devono essere imponenti. Sono avviliti. Mi viene con insistenza  alla mente una delle frasi di propaganda del Regi «Nudo alla meta"!

Con lo sbarco degli americano lungo il litorale tra Gela e Licata, avvenuto il 10 luglio 1943, dopo alcuni giorni fu occupata Agrigento. In coincidenza di tale circostanza, alla radio viene intercettata una richiesta di aiuto. Era il Colonnello Thaon di Revel, fermo a Passofonduto, in un’ansa del Platani, con due Batterie di 149/13 del 122° e con alcuni bersaglieri del 30° Btg., sfuggiti all'insaccamento di Agrigento.

 4-continua

 

(Le precedenti puntate sono state pubblicate sui seguenti numeri: 483, Maggio - Giugno 2015; 484, Luglio - Agosto 2015; 485, Novembre-Dicembre 2015)