Storia del ponte di Passo fonduto, tra
Campofranco e Casteltermini
(Con
note autobiografiche)
di Salvatore Panepinto
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Dunque, eravamo in piena guerra! I miei tre fratelli maggiori erano "sotto le armi" ossia partiti
per servire la Patria: Vincenzo,
sposato e con un figlio di appena un anno, si trovava al fronte, in Grecia. Dopo la sua partenza, la giumenta bianca che
possedeva per i lavori agricoli, a malincuore da parte della famiglia, dovette
essere venduta. Era bellissima, aveva una andatura spigliata. Piccoli e
grandi le eravamo affezionati.
Raffaele si trovava in
servizio all'Aeroporto Militare di Palermo, pure in prima linea coi
bombardamenti quotidiani; Francesco era partito per la prima volta, in servizio
di leva, con destinazione Vercelli.
Parlando di Francesco, non
posso fare a meno di citare un episodio che, quando mi passa per la mente, mi commuove e mi da la
sensazione di rivederlo in un pezzettino di film, di "sfuggita".
Eccolo: un giorno giunse una sua lettera. A leggerla per prima fu mia madre,
poi mia sorella Maria, due anni più grande di me, infine la lessi io che, nella
parte finale, ossia nell'ultima pagina, mi accorsi che Francesco chiedeva di
spedirgli la "tessera annonaria" con cui avrebbe avuto diritto ad una
razione di pane giornaliero di 150 grammi, indipendentemente del rancio che gli
passava il Comando militare. Notando che né mia madre e né mia sorella avessero
commentato tale richiesta, fui portato a parlarne io. Mia madre ne rimase
mortificata per la svista, dovuta al fatto che, la terza pagina, terminando coi soliti saluti, dava la
certezza che la lettera fosse terminata
lì. Gli venne spedita subito.
In detta località "Palo" possedevamo un appezzamento di terra
"rettangolare" di circa un ettaro e mezzo", che ci consentiva di
raccogliere del grano e tanto altro ben di Dio, prezioso per la famiglia,
specialmente nel periodo di "carestia" dovuta alla guerra.
Bene, "rimasto solo come uomo" (mio padre, in seguito ad infortunio sul lavoro in
miniera era deceduto quando io avevo 3 anni e mezzo) per quanto possibile diventai colui che "doveva" badare alla terra. Quindi,
a piedi, percorrevo quei pochi chilometri che la separavano dal paese, passando
"u vaddruni", prima all'andare e poi al ritorno, nel
"guado" che consentiva l'attraversamento,
camminando in bilico tra pietre tondeggianti e levigate (ciottoli).
Un bel giorno, mentre ero
lì, si mise a piovere e la pioggia, pur intervallata nel tempo, non terminava.
Una grotta scavata in un poggio sabbioso, da parte di mio fratello Raffaele e Francesco, riempita ad arte a mo' di cupola con delle pietre
squadrate, aveva una capienza per diverse persone, in un clima confortevole,
sia d'estate che d'inverno. Mi ci accomodai per alcune ore e quando decisi di
andarmene, nel ripassare il ruscello,
guardando il livello dell'acqua, la vidi normale, sentivo però un rumore simile a quello d'uno sciame d'api in
movimento. Girando poi lo sguardo verso l'alto, mi resi conto che, ad una
trentina di metri, l'acqua scorreva torbida ed era alta più di mezzo metro. Senza dare molta importanza,
tranquillamente terminai il camminamento. Qualche minuto dopo però ecco arrivare "la china" che aumentava
sempre più, fino a raggiungere i due metri di altezza. Un quadro spaventoso
rimastomi impresso nella mente, che mi
torna in visione ogni qual volta mi capita di parlare du vaddruni du Palu, sia
come torrente che come "località"
della proprietà terriera, rimasta abbandonata per alcuni decenni. Venne fatta
pascolare dal proprietario di un gregge di pecore per pochi chili di formaggio
all'anno. Fu venduta nel 1992.
Anche questa mini "storia familiare", (con un po' di
buona volontà da parte del lettore)
potrebbe collegarsi agli avvenimenti del "Ponte di
Passofonduto", considerando il fatto
che "il torrente" potrebbe
essere paragonato ad un vulcano dormiente che, quando si risveglia,
contribuisce alle inondazioni del Platani. Infatti, riferendomi ai citati
tempi lontani, ricordo di aver
sentivo parlare di piene paurose, le quali interessando migliaia di ettari, gli agricoltori dovendolo
attraversare in piena,erano costretti a portarsi in un determinato punto, dove il guadare sarebbe stato possibile, pur
rimanendo il rischio perché, montati sui cavalli o muli, la loro sagoma (agli
occhi di chi stava a guardare in trepidazione) era limitata alla sola testa
della bestia ed al busto del conducente", in quanto la parte sottostante
rimaneva sommersa nell'acqua sporca, in un tratto in cui il fondo non sarebbe
stato certamente sgombro da detriti e altro. Sempre
nella memoria di un ragazzino, ricordo che questi signori commentando il
"caso" puntualizzavano che i cavalli o i muli, in quelle circostanze
non poggiavano i piedi per terra ma "nuotavano" con l'istinto di
uscire dal pericolo.
Per concludere
l'argomento, posso aggiungere che tale "vaddruni",
pur non avendo nulla a che vedere col "Ponte
Palo", di fatto come affluente del Platani, vi entra un centinaio di metri più giù, contribuendo alla
capacità distruttiva.
Rimanendo
sull'argomento, mi fa piacere pure
ricordare altri episodi.
Uscito dal paese, il viottolo che dovevo percorrevo per raggiungere il podere iniziava vicino ad un caseggiato
rurale, dopo aver superato una grande vasca circolare che serviva da abbeveratoio per le bestie degli
agricoltori. La quale non esiste più siccome demolita e trasformata in uno
spazio dedicato alla Statua di Padre Pio
e adibita a caratteristico luogo di preghiera all'aperto con comode
panchine, fiori e Radio diffusione locale, in collegamento con la Chiesa Madre.
Nel citato caseggiato
c'era la cucina dei soldati con annessa la mensa ufficiali e sottufficiali. Un
giorno nel passare di lì per raggiungere la campagna, fui conosciuto da una
signora che abitava nel medesimo edificio, la quale mi chiamò e mi fece avere
un piatto di riso cotto nel brodo di carne, il cui sapore squisito sembra di
averlo tuttora in bocca.
Tale caseggiato, volendolo
visitare durante la presente scrittura, cioè a distanza di circa 74 anni, con
mio stupore debbo dire che non ho trovato nulla di ciò. Ho solo constato case relativamente
nuove fabbricate disordinatamente, ossia in contrasto con la regola di un
qualsiasi piano regolatore.
Il Presidio dei Militare a
Casteltermini, con la Sede del suo Comando in località "Piano di
Fumo", vi rimase per una diecina
d'anni, a giudicare dal contenuto del brano che segue.
Un giorno, in compagnia di
altri bambini, indossando il "grembiulino" camminavamo per
una strada del paese. In giro c'erano dei soldati di pattuglia, uno dei
quali, avvicinandosi a noi ci chiese
dove stessimo andando; il meno timido rispose che andavamo "all'esilio". Il militare capì subito che si trattasse "dell'asilo",
ma volle ugualmente apparire
scherzoso, con altra domanda che suonava così: "Come Napoleone?!"
"Ferro per la Patria".
Sempre nel ricordo d'una tenera età, altro episodio che mi torna
alla mente, è quando veniva cercato, trovato, caricato e portato via con dei
camion, il ferro per la Patria. Una
delle prime ad essere stata smontata fu l'inferriata del monumento ai
caduti della guerra 1915-1918, che si trova tuttora in Piazza d'Uomo. Venne
ripristinata dopo alcuni anni dalla fine del conflitto 1940-1945 e furono
aggiunti altri nomi.
C'erano pure delle donne
nobili, conosciute in paese, che si presentavano nelle case con modi signorili,
chiedendo "Oro per la Patria". Una immagine rimastami incancellabile fu quando si
presentarono nel cortiletto dove abitava anche mia madre e, dal basso le donne dialogavano con le famiglie
che si trovavano affacciate alle porte. Quando,
attraverso la scala esterna, giunsero nel terrazzo di casa nostra, all'invito di
offrire dell'oro, mia madre da brava lettrice
e persona saggia, con modi educati
pronunciò la seguente frase: "I
miei gioielli, la Patria, se li ha già presi, riferendosi a suoi tre figli che si trovavano sotto le armi, due
dei quali al fronte e uno in procinto di partire per la Russia. Poi, col passare degli anni, compresi il senso delle parole, risalenti ad oltre
duemila anni, pronunciate da Cornelia, figlia di Cornelio Scipione Africano.
Contento per quanto fin qui scritto, in cui è narrata parte della mia vita da piccolo, sento di dover proseguire per il
piacere di aggiungere altri particolari che ricordo con sentimento.
La terra della località "Vaddruni du Palu" oltre che
dal tetto di casa mia, è visibile da una strada che si trova a nord del paese,
per cui anche adesso, ogni qual volta mi capita di passare di lì, basta girare la testa in quella direzione perché, con "affetto", vedo quel grande "rettangolo", come se fosse sempre mia.
Pure la giumenta di mio fratello dopo aver cambiato
padrone siccome venduta, passando dalla solita strada (baldanzosa com'era nel
portamento), tirando dritto, girava la testa verso il cortiletto, entro cui si
trovava la stalla che per diversi anni era stata la sua "dimora". E
noi, piccoli e grandi, dal terrazzo osservando questa scena, provavamo un senso
di emozione come se a passare fosse una persona di famiglia, che accennasse un
segno di saluto.
Io stesso l'avevo montata diverse volte. A tal
proposito ricordo che, mentre mi trovavo in aperta campagna, dopo averla
cavalcata priva di sella, come un fulmine partì a galoppo, di conseguenza subii
uno sbalzo, cioè uno spostamento che dalla parte anteriore mi mandò
all'estremità posteriore, quindi mi
ritrovai al posto giusto, in perfetto equilibrio: non so se per mia bravura o
per miracolo di Dio, non mi accadde nulla, ma la paura fu veramente tanta!
Altro simile rischio lo corsi alcuni anni dopo quando avevo raggiunto i
16 anni e mi ero comprato un cavallino.
Una sera lo cavalcai privo di sella con l'intento di fare un giro per certe vie
del paese. Tutto andava bene ma ad un certo punto, dopo una leggera salita,
improvvisamente girando la testa in altra direzione, a galoppo imboccò una discesa
pietrosa, senza che io fossi in grado di frenarlo o fermarlo. Da parte mia, pur
sapendo andare a cavallo, pensai subito ad una caduta del puledro e allo “sfracella
mento” di entrambi. Per mia fortuna, giunto in pianura si fermò regolarmente
quasi subito, come se nulla fosse accaduto
Dopo mi comprai anche una
"capretta" che ci consentì di avere del latte abbondante in famiglia.
Nella circostanza imparai a fare il formaggio che, essendo caprino, era
particolarmente saporito, pur nella modesta quantità.
A proposito di latte caprino, mi viene volentieri alla mente quando,
fino agli anni "50, i "caprai" vendevano il latte fresco a
domicilio dei clienti, portando sul posto le capre che mungevano alla loro
presenza.
Si trattava di una usanza risalente a
qualche secolo. Tutti la consideravano normale e nessuno faceva caso
all'igiene, tanto per il latte che per la presenza delle capre nelle strade del
paese.
Spettacolare appariva la
scena che si veniva a creare quando due capre del medesimo mucchio si
"scornavano", intrecciando fra loro le lunghe corna attorcigliate,
che per un po' rimanevano appiccicate.
Capitava spesso di
incontrare due caprai con 50 o 100 capre che riempivano un rione, creando una
improvvisata confusione, pur senza pericoli per le persone, trattandosi di
animali domestici
In un episodio che potrebbe essere vero, si racconta che un tale,
trovandosi con la sua giumenta in un crocevia del paese, al centro di una marea
di capre, non sapendo come muoversi per il perdurare della situazione
incresciosa, presumendo che le capre gli incornassero (infiltrassero) la
giumenta, rivolgendosi ad uno dei caprai che conosceva perfettamente,
allungando la voce, gli urlò: "Pasquà, dobbiamo uscirne da queste
corna?!".
Parlando di capre, potrei
citare quella di un capraio che le aveva tutte con le corna verticalmente
diritte in parallelo, attorcigliate, facenti parte alla razza
"giurgintana" (agrigentina), attirando la curiosità di coloro le
vedevano in quel raro modo. Al contrario di quelle di altri caprai che erano
divaricate come i lati di un triangolo isoscele, col vertice in giù.
Prima
di passare ad altro, ritengo doveroso
parlare di come venimmo in possesso di detta terra.
Con la morte di mio padre,
ci fu assegnata una certa somma di danaro da destinare ai 5 figli minori. Per i
due più grandi (Vincenzo e Raffaele) essendo nel frattempo divenuti
maggiorenni, la loro quota venne riscossa direttamente, mentre per i tre più
piccoli, fu il Tribunale per i Minorenni a decidere.
Prevalse il buon senso col
quale si consentì che il rispettivo danaro venisse impiegato per l'acquisto del
citato "rettangolo" di ettari uno e mezzo, che venne intestato a
Francesco, a Maria e a me. Ciò dette la possibilità di essere coltivato da
Vincenzo e Raffaele, ricavandoci frumento e cereali vari per uso familiare, la
qual cosa significava "sicuro sostentamento".
Quando i due fratelli
maggiori, a causa della guerra furono richiamati per servire la Patria e poi
partì anche Francesco per il servizio di
leva, essendo rimasto solo come uomo "di
anni 10", al terreno dovetti badare io, per quanto possibile.
Per fortuna la mia
solitudine durò poco perché, Raffaele
prima e Francesco dopo, ritornarono a casa con l'esonero per lavorare nella
miniera di zolfo, fondamentale per
il munizionamento in guerra.
La famiglia "Petix", oltre che la Baronia di Fontana Fredda, era
possidente di tanti altri beni, fra cui la mia casa di Casteltermini, posta al
2° piano della Via Giuseppe Verdi 21, comprata
nel 1981.
Abitata per lungo tempo dagli stessi proprietari, ha una storia tutta
"sua", in parte narrata di seguito. Poi venne "data" in
affitto ad un Medico di famiglia che faceva pure il Dentista, in un unico
ambulatorio della medesima abitazione, composta da 8 stanze.
Come Medico mi curò la febbre malarica, facendomi ritornare "Un torello" come aveva
promesso a mia madre.
Come Dentista, qualche anno dopo, mi tirò un molare che mi produsse un
forte dolore, durandomi un bel poco.
In seguito venne affittata ad un Patronato che non la seppe custodire,
tanto che quando la comprai io la trovai spogliata intenzionalmente, come se di
lì fossero transitati i vandali.
Per riportarla a "civile abitazione", dovetti spendere
quattro volte la spesa d'acquisto perché, a parte le mura e alcune soffitte, il
resto dava un senso di sconforto.
Ultima ad essere completata fu la stanza riservata a me che Rosina, con legittimo orgoglio, chiamava "Studio".
Il soffitto del "salone",
quando la casa era abitata dal Medico - Dentista, era ancora stupendamente
affrescato. Anche il caminetto in marmo lavorato, era favoloso.
Nel medesimo "salone",
nel 1970, venne girata una scena del film documentario sulla mafia, intitolato
"Sasso in bocca" del
regista Giuseppe Ferrara.
Terzo Piano, ha una sola stanza che inizialmente chiamavamo soffitta e
che poi, fatti determinasti lavori, prese
il nome di mansarda la quale, oltre ai pregi interni, guardando dalla
finestra a Est, fa scoprire la parte superiore della Chiesa di S. Giuseppe,
(distante poche decine di metri) col suo orologio funzionante e un meraviglioso
prospetto in stile barocco siciliano.
Del Piano Terreno mi fa molto piacere parlarne perché, la parte che
mi appartiene, alcuni decenni prima
dell'acquisto, era adibita a taverna,
dove si vendeva del vino e vi si
faceva da mangiare. Fatta questa
premessa vanno spiegate alcune cose che quando le appresi, mi sembrarono una scoperta.
Nel casamento di Casteltermini,
teneva pure un "fondaco", più piccolo di quello della Baronia
di Fontana Fredda, ubicato nel proprio cortile in cui si entrava dal grande
portone esterno. I viandanti
"sistemate le bestie", dovendosi ristorare, si portavano nella
taverna, entrandovi da una porta laterale che
si trovava all'interno del medesimo
cortile (tutto a portata di mano e al
sicuro!, si sarebbe potuto dire in quel tempo). Quindi, sempre d'all'interno,
ritornavano nel "fondaco", dove trascorrevano la notte, riposando su giacigli di paglia, vigilando
contemporaneamente i propri animali.
Durante i lavori di restauro di detto locale (diventato poi agenzia di
affari), uscirono vari camion di materiale misto, con una quantità illimitata
di gusci di lumaca: cibo succulento preferito dai clienti della trattoria.
Le sorprese da parte mia non terminavano mai, perché c'è da aggiungerci
il "Cine-Teatro". Si, perché il terreno dove venne edificato era pure
dei Petix, i quali nel regalarlo al Comune, pretesero l'apertura di una porta
comunicante col cortile, mediante diritto di un palco a loro disposizione,
potendo essi entrare e uscire a piacimento dal "Secondo Piano",
tramite una scala in muratura interna, per godersi gli spettacoli, senza
transitare dalla strada principale.
Il "Cine-Teatro" di Casteltermini era degno del proprio nome, perché coi suoi
"Palchi", il "Loggione" e la elegante "Platea",
dopo quello di Agrigento, che prende il
nome di Luigi Pirandello, era classificato il migliore di tutta la provincia,
rimanendo tale per molti decenni. Un
giorno però (meglio sarebbe dire: "un
triste dì mi fu tanto fatale!!! che la vittima fui d'un temporale; tratto
da una mia poesia scritta a Taranto nel 1953)", giunse la sua fine perché
venne diroccato, ossia trasformato
e, dopo parecchi anni, ridotto allo stato attuale.
Prima di chiudere questa parentesi un po' lunga per la verità, riferita
all'acquisto della casa dai Petix, mi fa tanto piacere citare un
"particolare" che ha veramente dell'incredibile: "Era il 1955
quando mi trovavo temporaneamente a Bari dove frequentavo un corso di
dattilografia. Qui mi venne la felice idea di
scrivere un fatto accaduto in un
Paese di quella Provincia, dove facevo servizio da giovane Carabiniere. Ad un
certo punto, nel dover descrivere il
comportamento dei due protagonisti immaginari, collocai la scena nelle scale della casa del citato medico-dentista
che io avevo visto per caso
una sola volta 25 anni prima, e che poi, lontano da ogni immaginazione,
diventarono di mia proprietà).
Venne fuori una "commedia
in rima alternata" della quale
rimasi soddisfatto sin da subito. Anche ora a distanza di 60 anni, quando la
rileggo oppure ne parlo con qualcuno, mi faccio delle risate che mi divertono molto. Se la nomino,
la indico col nome di Battista, riferito ad uno dei due personaggi che fa la parte del
fessacchiotto".
Ed ecco il prospetto "signorile" del caseggiato dei Petix
del quale mi appartiene il secondo piano, distinguibile dal balcone più lungo e
più bello del paese, specie se guardato
da basso, da dove si scorgono 26 cerchi in ferro che lo rendono più imponente.
Affacciata che guarda il transito della "Cavalcata" della processione
relativa alla festa
di Santa Croce, c'è Rosina mia moglie, che si "gode" quanto di
meglio si svolge nella sottostante Via Giiuseppe Verdi.
L'antistante crocevia (non visibile nella foto), spesso diventa
"luogo di incontro e di attesa", siccome spazioso e adiacente col Corso Umberto I° e con la Piazzetta
antistante la Chiesa di S. Giuseppe. Inoltre, nel pomeriggio del venerdì
della 4^ domenica di maggio, in onore della Festa di Santa Croce,
seguiti dalle rispettive bande musicali, ci sono le sfilate dei quattro ceti:
Maestranza, Celibi, Pecorai e Borgesi, per la deposizione delle relative corone
al Monumento del Milite ignoto.
Bene, in questo clima armonioso, un anno non mancò la presenza
dell'emittente televisiva Teleacras di Agrigento, al cui responsabile chiesi
una "ripresa al prospetto". E lui, datomi il tempo di salire le
scale, mi dette la gioia d'essere filmato assieme alla citata mia moglie.
Ecco la magnifica veduta della
Chiesa di S. Giuseppe che il concittadino Michele Guardì, per diversi
anni, ha fatto vedere nel suo programma "I fatti vostri" nel Secondo
Canale della Rai.
E' dal tetto di casa mia che si può ammirare questa "veduta
"dalla quale si nota la "Montagna" di pietra schiacciata
appuntita, simile a una serie di "pale di baccalà", collocata in alto
a sinistra rispetto al mio terreno, in parte localizzabile nella macchia marrone, in fondo a destra.
Tutta la località prende il nome "Palo", pur non avendo
a che vedere coi "Ponti Palo"
delle pagine 88 - 89.
Della medesima "Montagna" lo storico Gaetano Di Giovanni, facendo riferimento all'arrivo in
Sicilia dei Romani nel I secolo avanti Cristo, descrive cose terrificanti.
Dal medesimo tetto, in determinati giorni favorevoli, si vede pure
l'Etna col suo "pennacchio", quando ce l'ha.
Per quanto riguarda la terra,
alcuni giorni dopo averla venduta (ero in pensione da 4 anni), cosa feci?
Eccolo: "Una mattina del
mese di giugno, dopo aver lasciata la Fiat 500 sulla strada maestra, a piedi
come avevo fatto migliaia di volte,
sia da piccolo
che da giovanotto, mi ci recai ansioso e commosso, percorrendo il
medesimo sentiero, fiancheggiato da ottime erbe medicinali e aromatiche
profumate, che tante volte avevo portato a casa .
Per prima cosa mi feci il segno della croce, come se mi fossi trovato
in un luogo sacro e tale lo consideravo per via dell'abbondante raccolto che
aveva prodotto negli anni in cui veniva coltivato. Poi recitai una preghiera di
ringraziamento, quindi lo visitai in lungo e largo, collegando i cari ricordi
lontani. Ad un certo momento, a sorpresa, risentii i rintocchi dell'orologio
della Chiesa Madre che, in linea d'aria dista poco più di un chilometro.
Scandiva i quarti d'ora e suonava le 11,45. Le ore andavano dalle 6 alle 12,
dalle 12 alle 18, dalle 18 alle 24 e dalle 24 alle 6.
Osservandolo dal tetto di casa mia, lì vicino si nota una
caratteristica montagna schiacciata somigliante ad una serie di "pale di
baccalà" della quale lo storico Di Giovanni, in riferimento all'arrivo dei
Romani nel 1° secolo A.C., racconta cose mostruosi .
Le pagine che seguiranno saranno dedicate alla personalità del Generale
Giuseppe Garibaldi siccome, dopo lo sbarco in Sicilia, nel transitare da
Casteltermini, fu ospite coi suoi Ufficiali a pranzo a palazzo Lo Bue (oggi
Villa Maria la Quiete).
L'evento riempie d' orgoglio
tutti i cittadini di Casteltermini. Anche il gesto del giovane Bernardo
Fragale, fratello della mia nonna materna e mio zio, è degno di lode per essersi arruolato
volontariamente come garibaldino, da bravo "Picciotto Siciliano".
A questo punto è doverosa una
precisazione: "Sbarcato Garibaldi
in Sicilia coi suoi "1000" uomini, doveva arruolarne altri per
”ingrossare” le file dell’Esercito. A tal proposito va detto che erano i
Sindaci dei paesi incaricati a provvedervi, data la conoscenza dei propri
cittadini. Così “Bernardo”, orgoglioso
di diventare “garibaldino” chiese ed
ottenne l’ammissione, unico in Casteltermini. Quindi informò subito i genitori
che non rimasero affatto contenti. Ma lui deciso nel proposito, partì convinto e contento.
Sua mamma, ossia la mia
bisnonna, addolorata per la partenza ed
il rischio che avrebbe corso in guerra, volendo condividere le sue sofferenze,
da quel giorno (era d’estate) indossò una veste invernale a collo alto, che le
arrivava ai piedi. Diceva: “Soffre mio
figlio con la divisa pesante, soffrirò
anch’io con questo abito!”. E non
se lo tolse fino al giorno del suo ritorno!
VILLA MARIA “LA QUIETE"
La villa rappresenta l'espressione della personalità del suo
committente, la cui volontà era evidentemente quella di realizzare una
struttura alle condizioni della famiglia Lo Bue, nella fase culminante
dell'ascesa politica, sociale ed economica per il centro di Casteltermini e del
circondario.
La scrivania
Lettera che Garibaldi fece pervenire a Don Gaetano Lo Bue su cui si
legge:
“Italia e Vittorio Emanuele –
Roma o morte
Prima Legione Romana
Comando Generale
Il Signor Lo Bue è autorizzato a raccogliere
uomini e denaro per la causa nazionale”.
Servizio
Blu Cobalto
Servizio da tavola per 48 persone. Fu servito a G. Garibaldi e i suoi
Ufficiali, il pranzo a palazzo Lo Bue (oggi Villa Maria “La Quiete”) in
Casteltermini.
In questa stanza nel 1860,
durante la spedizione dei mille in Sicilia, cenò G. Garibaldi, una
testimonianza ne è una sua foto con dedica ai Conti, in cornice d’oro.
(da internet: Casteltermini Villa Maria “La Quiete”)
Collezione di spade, di cui la prima a sinistra, donata da Garibaldi.
(Internet: Casteltermini Villa Maria “La
Quiete”, Pag. 10, lett. C, 1° cpv. ).
Cappella funeraria "Gesù il buon pastore" - Villa Maria -
Costruzione dell'architetto Ugo di Palermo, dell'archivio Rossetti e del Conte
Gaetano Lo Bue di Lemos stesso.
Seguono ora le immagini relative al citato "Ponte Romano" ed
alle meravigliose miniature dell'artista Dorino (Isidoro) Mazzara di
Campofranco, realizzate in pietra di Comiso e marmo rosa Portogallo, grazie al
suo certosino lavoro.
Questa misteriosa e altrettanto bella immagine (fichidindia a parte), ci
fa tornare indietro nel tempo, nel senso che ci riporta alla "confluenza"
tra il Platani e il Gallo d'Oro, che non è stato possibile far
vedere con una foto migliore.
Per l'esattezza è bene precisare che l'emissario proviene dalla sinistra,
mentre l'affluente (per quel poco che si vede), arriva dalla destra; tutti e
due formano una immaginaria ipsilon che va in giù (al centro della foto).
Questo è invece un breve tratto dell'affluente Gallo d'Oro, fotografato
alcune decine di metri prima dell'unione col Platani (più giù), che non è
possibile vedere.
E' chiaro il fatto che la foto sia stata ripresa dal lato da cui
proviene il torrente. Da notare la vegetazione "un po' sciupata" in
conseguenza del transito di una recente piena.
Infine, questa è la straordinaria "foto aerea" della Valle
del Platani, vista dall'angolazione opposta a quella della pagina 3, che però
"non lascia vedere in modo soddisfacente la "tanto desiderata"
convergenza ottimale. Alla sinistra scorre il Gallo d'Oro, a destra proviene il
Platani (le piccole frecce direzionali che ho aggiunte, forse sono
inopportune).
La foto mi è stata donata dal gentilissimo Giuseppe Palumbo, direttore
del Museo di Milena.
Questa bellissima immagine rappresenta l'antico "Ponte Romano"
che non esiste più.
Di esso si sa che:
1)- nel 1931, una violenta alluvione,
spazzava la fiancata sinistra, lasciando intatti la destra e l'unico grande arco. I tecnici,
dovendola ricostruire, pensarono di creare un secondo arco più piccolo
distanziato, al fine di ridurre l'impatto con altri possibili straripamenti.
Questo spiega la presenza del secondo arco nella fiancata sinistra, cosa che
non appare in altre immagini di data precedente;
2)- nel 1981, lo spettacolare
millenario "Ponte Romano", crollava definitivamente, non a
causa di inondazione, ma per delle lesioni o squarci tra i massi della parte
centrale dell'arco.
Questi sono i resti di quello
che rimane dell'antico "Ponte Romano".
In riferimento alle sue sciagure, nella pubblicazione Viaggio in Sicilia del dicembre 2006,
curata dal Comune di Campofranco, il prof. Giuseppe Testa, fra l'altro scrive:
quasi al termine della trazzera, a valle, in un punto in cui le due rive si
restringono, oggi si possono osservare i due tronconi di un grande ponte, il
cosiddetto "ponte romano", crollato alla fine del luglio 1980. Il
ponte era parte dell'itinerario di Antonino Augusto, importante nodo stradale dell'epoca romana, che portava ad
Agrigento. Nelle vicinanze vi era una statio, la Comiciana, cioè una stazione di passaggio (una sorta di odierno
motel) con case, magazzini e stalle dei quali sono state ritrovate delle
tracce.
Sicuramente perché più volte danneggiato e ricostruito dopo l'ultimo
crollo, avvenuto nel 1700,
Nel 1815 il Principe Antonino Lucchesi Palli lo aveva fatto restaurare.
Altri interventi lo avevano interessato nel 1930 e nel 1940. Nel 1977 sono
comparsi lesioni e squarci tra i massi della parte centrale dell'arco, poi il
crollo.
Quest'altra eccezionale immagine conserva un pezzo di storia dell'epoca
romana, nel territorio di Campofranco.
Sono tuttora evidenti:
a) una parte dell'eccezionale
passamano destro del millenario Ponte, le cui gigantesche pietre calcare
sovrapposte, sono delle dimensioni di circa un metro cubo ciascuna;
b) la speciale pavimentazione in
ciottoli del passo carrabile;
c) infine, la "Reggia Trazzera" a fondo naturale e quindi non
percorribile da carri, (specialmente durante la stagione invernale), un tempo
larga 38 metri, per gli spostamenti militari, ed anche per il transito degli
armenti, quest' ultima meglio conosciuta come "transumanza".
(Foto Panepinto)
Ed ecco come appare una pietra singola
che misura m.1,20 per m.0,80 alla base e m. 0,90 di altezza. Adagiata
sulla carreggiata della fiancata destra del Ponte Romano, è un dei tanti
macigni che componevano il gigantesco passamano
del millenario viadotto.
E questo è il "disegno-progetto" del'Ing. Michelangelo Blasco, progettista di un nuovo ponte per
incarico della Deputazione del Regno di Sicilia, nel 1700, non realizzato.
L'originale si trova esposto nel Museo di Storia Locale, Arti e
Tradizioni Popolari di Campofranco, per gentile donazione del Prof. Arch.
Vincenzo Lucchese Salati.
Da notare, ai piedi dell'arco, le profonde immaginarie fondamenta in
pietra calcare, all'interno di entrambe le montagne di gesso.
Per ultimo seguono le
meravigliose miniature di Dorino
(Isidoro) Mazzara. Da notare che, pur trattandosi di struttura risalente a migliaia di anni addietro, la
loro bellezza non teme confronti.
(Foto Panepinto)
Ecco la prima miniatura in pietra di Comiso.
In scala 1:I00, queste sono le dimensioni:
a)- larghezza del passo carrabile, cm.10;
b)- altezza da terra all'arcata centrale, cm.16,5;
c)- " "
" al passamano della
parte carrabile, cm. 23;
d)- larghezza dell'arcata, cm.33 ;
e)- lunghezza del ponte alla base, compreso i due piedistalli (cm. 35 +
cm.45), cm 113 ;
f)- pezzetti di pietra perfettamente squadrati su misura, 1000 e rotti;
g)- peso complessivo kg. 25, circa.
L'Opera del Signor Dorino, se osservata di presenza, lascia scoprire
tante altre belle cose.
(Foto Panepinto)
E questa è la seconda miniatura in marmo Rosa Portogallo, che differisce dalla precedente per le
dimensioni, che sono in scala 1:I50.
Una risposta alla domanda di chi vorrebbe sapere dove siano andati a
finire le gigantesche pietre della grande arcata, con macigni di metri cubi 1 circa,
sarebbe: "Nel bacino sottostante, ampio e profondo, rimanendo quasi
interamente coperti dai detriti (pag.65).
Ed era sotto questo sbalorditivo
"ombrellone" che, molti cittadini di Campofranco d'estate,
seduti nella risega e coi piedi penzolanti, trascorrevano ore liete a pescare pesci nella "naca"
(bacino) d'acqua salata.
Dalle dimensioni indicate dal'Artista, emerge chiaramente la maestosità
dell'Opera, alta 23 metri e larga 120, che va considerata doppia, per via delle
fondamenta, necessariamente colossali.
(Foto Panepinto)
Per ultimo, guardando questa specie di "gabbia", simile
a quella per uccelli", verrebbe la voglia di chiedersi: "Cosa c'entra
col Ponte Romano Antico?".
Ebbene, io dico che c'entra, ed anche molto, perché il citato Signor Dorino, artista di
collaudata bravura, nel fare il
modellino del "Ponte", volendo dimostrare che nulla sia stato
dato al caso, ha fatto memoria nella parte relativa a come sia stata possibile
la costruzione in un punto del fiume
dove le acque abbondanti, avrebbero
ostacolato un tale mastodontico lavoro, certamente durato nel tempo.
Ecco quindi l'idea di imitare cose reali, quali sarebbero state le "palefitte", mediante
l'uso di alti
fusti di alberi
che avrebbero consentito la struttura, simile
alla "gabbia per
uccelli", che il Signor Mazzara,
a sua
esclusiva inventiva, ha creato
con l'uso di stecchini, legati con
sottili fili di rame, sfilacciati da una treccia di luce elettrica e sistemati
in vario modo: orizzontale,verticale o diagonale.
Ma le difficoltà nascevano una dopo l'altra perché, gli stecchini, per
essere legati e fissati alla perfezione, andavano prima forati, per cui nasceva
il bisogno di un trapano leggero con punta fine di un millimetro, ed anche di una idonea base per bloccarli. Un po' difficile a descriverlo, ma
direi "impossibile" a farlo in pratica perché, questi benedetti
stecchini, che superano il migliaio, che hanno una lunghezza di cm.20 ed un
diametro di mm. 3, sono stati forati per
1600 volte, in proporzione al numero dei "piani" rialzati
che, essendo 9, equivalgono ad una altezza complessiva di 18 metri (metri
due per piano). Quindi
"toccati", "allungati" e "legati" all'infinito, affinché il
lavoro della gabbia (alta cm.22 e larga cm.38) proseguisse col rispetto delle misure
millimetriche. E quanti stecchini si sono spezzati; e
quante punte di
trapano si sono
rotte perché, il trapano va
sfilato mentre è in movimento e non
quando è spento, altrimenti la punta si spezza; e quante volte il lavoro
è stato interrotto, meditato, corretto e rifatto?!.
Bene, il Signor Mazzara nella sua
invidiabile fantasia, ha tenuto anche conto della sicurezza degli operai,
mediante apposite passerelle all'interno della gabbia, ed anche
alle sponde esterne, perché i lavoranti, in caso di caduta dalle
impalcature non andassero a finire dentro l'acqua.
E la pazienza, e la costanza del Signor Dorino, per i mesi o gli anni di appassionato ed
intelligente lavoro, chi l'avrebbe avuta?
E l'altra pazienza, e l'altra costanza, e l'altra bravura, quella cioè per la realizzazione dei due Ponti,
in scala 1:100 e 1:150, dove la mettiamo?
Questi "capolavori", esposti per alcune settimane presso
il Museo di Campofranco, in occasione delle solenne festività di S.Calogero del
27 luglio 2010, hanno avuto il privilegio d'essere ammirati ed apprezzati,
assieme ad altre opere di altri Artisti, da migliaia di visitatori.
(Per un punto di legittimo
orgoglio personale, mi sia permessa l'intrusione perché faccia presente che,
simili apprezzamenti nella medesima circostanza, li ho espressi per Roberto,
mio nipote, pure autore di meravigliose 0pere, riportate nel mio libro "Il
Mosaico in maiolica dell'Artista Roberto").
Ecco ritornare sull'argomento della "guerra in casa nostra",
in riferimento al Diario del Ten. Triscari (pagina 13), coi tragici avvenimenti
vissuti nella zona di Passofonduto, conclusisi con l'abbattimento del
"Ponte e della Galleria della Ferrovia", per non subire la cattura da parte del
potente nemico.
Il 9 maggio 1943, dal 7° Reggimento Genio
di Palermo, dove i continui
bombardamenti cancellavano interi quartieri e dove nel Porto le navi cariche di
munizioni erano in fiamme (pagina 43),
il Ten. Triscari, con la 4^ Compagnia, venne trasferito al Comando Battaglione
di Casteltermini, il cui Comandante era il Maggiore
Caccamo. Qui la vita la considerò regolare,
a parte i vari tipi di aerei alleati che volavano basso, velocissimi, in continua
perlustrazione, mitragliando sulle strade e sui treni. Ma il Battaglione di
Casteltermini non era considerato obiettivo diretto, quindi bastava un segnale
di tromba per dare l'allarme.
La presente foto, forse scattata dal Tenente Triscari, potrebbe essere
l'unica testimonianza riproducente il Ponte sul fiume Platani in località
Passofonduto di Casteltermini, in riferimento al periodo bellico 40-43.
Certo, volendo Fare memoria dei due sbarchi avvenuti in Sicilia, il primo nel 1860 ed il secondo nel
1943, posso dire (ed anche scrivere forse per la prima volta nella Storia
Locale), che questo lembo di “Suolo Italiano”, quale che sia la località
“Passofonduto di Casteltermini", ce la troviamo protagonista in due
distinti avvenimenti storici che portano "
il Ponte sul Fiume Platani", al centro di situazioni opposte, nel
senso he: "con lo sbarco di Garibaldi, venne costruito per il completamento della Statale
Palermo-Agrigento, mentre con lo sbarco degli Alleati, fu
fatto esplodere dai "Nostri Valorosi Soldati", nel tentativo di
ostacolare l’avanzata dell'esercito americano.
Quello che accadde in quei giorni,
è paragonabile all’agonia di un "Reparto di Soldati", certi di affrontare un funesto destino,
derivato dall’imminente arrivo del
dominante nemico, di fronte al quale ogni resistenza sarebbe stata vana,
compreso l’abbattimento del "Ponte" e dell' annessa "Galleria Ferroviaria".
Il
primo servizio espletato a Casteltermini, il Tenente lo racconta come segue:
"Per la sera del 12 mi trovo
comandato ad un posto di blocco all'ingresso Nord del paese; gli ordini sono
severi perché sono segnalati incursori autonomi, sbarcati da alianti. Prendo 4
uomini, ne sistemo 3 defilati sul lato sinistro della strada, tengo Angelo
(l'attendente) con me sul lato di marcia, e la consegna è di sparare se sono io
a sparare.
Assurda: ogni uomo ha solo 6 colpi!
Traffico inesistente; alcuni sbandati diretti verso "Palermo", tutti
marinai, non armati, il morale a pezzi.
'Perché ripiegate? E le armi? E la
base di Agrigento? Vi sono sbarchi a Porto Empedocle?"
"No. Gli americani sono già a
terra tra Gela e Licata, vi è resistenza. Il mare è pieno di navi, moltissime.
La nostra base non c'è più. Cerchiamo di raggiungere la costa nord"
(Palermo).
Non riesco a spiegarmi nulla di
nulla! Non vi è movimento di nostre unità nella zona, né vedo
movimenti a valle, ma il cielo è pieno di aerei, in quota bassa ed i
mitragliamenti sono a raffica continua. L'orizzonte a Sud, oltre le colline, è
tutto pieno di lampi, di scoppi, ed il
rombo dei cannoni ripete la cadenza terribile dei primi temporali d'autunno.
A
tarda notte sento una macchina nelle curve vicine, è un'auto "blu" di
rappresentanza, avanza a fari oscurati, porta la
Targa RM, sono nel centro della
strada e grido "Alt" con la pistola in pugno, ma l'auto non rallenta. Ripeto
"Alt" ed alzo la pistola, seguito da Angelo che sbuca dietro già con
il fucile spianato e determinando l’esempio degli altri 3 sull'altro bordo
della strada. L'auto si blocca; ne scende un Ten. di Vascello, con le cordelline
di Aiutante di Campo e si presenta
come tale, porgendo
una tessera. Guardo
dentro; c'è un Ammiraglio di Divisione, un Capitano di
Vascello, uno di Corvetta. Insisto: "Con molto rispetto, Signore, anche le tessere degli altri".
"È l'Ammiraglio Comandante la base
di Agrigento con il suo Stato Maggiore. Siamo in trasferimento su Palermo. La
strada lungo la costa non è più sicura.
Riscontro le altre tessere; le
ritorno. Grazie. Buon viaggio".
Faccio cenno ai soldati di abbassare i fucili e dico ad Angelo a voce alta:
"'Telefona al posto di blocco n° 2 di lasciar passare". Angelo
capisce tutto, scompare; lo sento subito gridare ordini precisi dentro un
telefono inesistente. La macchina va via nella notte. Ciascuno
di noi riprende il suo posto, Sto seduto sopra un paracarro, guardo l'immensità
delle stelle nel cielo purissimo privo
di inquinamento, ma non ricevo serenità e sono molto in ansia. E
se si fosse trattato di falsa macchina, di false divise e di un commando? La capacità di fuoco dei soldati era in
totale dì 24 colpi, a caricamento singolo, molto meno della
raffica di un
solo fucile mitragliatore! E non trovavo una sola risposta che fosse
plausibile alla vita dei ragazzi che avevo con me ed ai profondi pensieri
che avevo sognato per la mia giovinezza. I miei studi, l'Università...
l'armonia di un teorema che scorre sotto un gessetto sopra una lavagna,
le Leggi di Keplero a regolare in cielo il movimento degli astri, Newton e la
sua gravità, la mia mamma lontana in preghiera per me, il pensiero
continuo per Anna Maria riempivano con dolcezza infinita e triste il buio della
notte.
Cercai
invano di potere capire i rumori lontani della battaglia. Al campo non si sa
niente; il Comando della Compagnia e del Battaglione sono abulici, il traffico radio è talmente intenso e veloce che molti
segnali sono pari a fischi modulati, incomprensibili anche ai più esperti dei
sergenti. Dalle luci all'orizzonte, dalla loro ampiezza e intensità, deduco
una invasione più che uno sbarco
di unità; l'appoggio delle artiglierie dal mare è continuo e potente; una certa
cognizione teorica e la triste esperienza di Punta Stilo, vissuta da Messina,
mi portano alla certezza che la Rodney, la Warspite, la Valiant e forse anche
la Nelson se già riparata, sono insieme sotto costa. Una forza simile, comporta
la presenta di una ventina di incrociatori e di un nugolo di navi minoried i
convogli da sbarco devono essere imponenti. Sono avviliti. Mi viene con
insistenza alla mente una delle frasi di
propaganda del Regi «Nudo alla meta"!
Con lo sbarco degli americano lungo
il litorale tra Gela e Licata,
avvenuto il 10 luglio 1943, dopo
alcuni giorni fu occupata Agrigento. In
coincidenza di tale circostanza, alla radio viene intercettata una richiesta
di aiuto. Era il Colonnello Thaon di
Revel, fermo a Passofonduto, in un’ansa del Platani, con due Batterie di 149/13
del 122° e con alcuni bersaglieri del 30° Btg., sfuggiti all'insaccamento di
Agrigento.
4-continua
(Le
precedenti puntate sono state pubblicate sui seguenti numeri: 483, Maggio - Giugno 2015; 484, Luglio - Agosto 2015; 485, Novembre-Dicembre 2015)