Personaggi locali
Giovanni Petìx, mio zio

Ricordi e considerazioni di un figlio di emigrati

Giovanni Petìx (Montedoro, 1884 - 1970) fu un uomo di cultura - autodidatta - al quale il suo paese, vent’anni fa, intitolò la propria biblioteca. Ne sono trascorsi ormai più di 35 dalla scomparsa e i giovani non possono averne un’immagine viva. Credo sia il momento giusto per proporre al pubblico il ricordo, scritto nel 1996 su invito di mio cugino Giovanni Petix, che conserva a Montedoro i ricordi e l’archivio di suo nonno.

Come capita spesso a noi siciliani, gente di parentele vaste ed intricate, con Giovanni Petìx ero parente due volte. Era infatti primo cugino di mio padre, dato che sua madre era sorella di mio nonno paterno e nello stesso tempo zio di mia madre, essendo fratello di mia nonna materna. Anche a lui spettava dunque l’appellativo di “zio”, col quale io e mio fratello chiamavamo tutti i parenti delle generazioni precedenti, con due sole eccezioni: il nonno materno, l’unico dei quattro vissuto fino a conoscerci, e i miei padrino e madrina di battesimo, una coppia di cugini molto più anziani di noi che, per la maggiore familiarità, chiamammo sempre soltanto per nome, senza titoli.
Abitavamo lontano da tutti i parenti e l’unica occasione in cui ne incontravamo molti erano i soggiorni estivi che abbastanza spesso facevamo a Montedoro, dove erano nati ambedue i nostri genitori. Quanti zii allora! Già erano numerosi quelli veri, papà e mamma avevano ben otto tra fratelli e sorelle, tutti tranne una sposati. Ma si chiamavano zii anche tutti i cugini e gli zii dei nostri genitori. Erano in tutto qualche decina. Lo zio Giovanni Petìx era un parente stretto, faceva parte della cerchia interna della famiglia, anche se con lui personalmente non ci vedevamo spesso, ma la frequenza era molto assidua con i suoi figli: Lillì, Roberto e Arturo, che avevano la stessa età dei nostri genitori ed erano qualificati ovviamente anch’essi col titolo di zio.
Ora che ci penso bene lo zio Giovanni Petix era l’unico dei parenti che noi chiamassimo a quel modo: con appellativo, nome e cognome per esteso. Forse il fatto era nato per caso: per evitare confusioni qualcuno di casa doveva avergli aggiunto il cognome, perché per noi bambini lo zio Giovanni per antonomasia era un altro, un fratello di mio padre. Tutto sommato il nome così esteso a lui stava bene, lo portava bene, suonava un po’ austero come in effetti lui mi apparve sempre. Riflettendo così mentre scrivo si creano associazioni di idee attorno alle parole. Austero: lo zio Giovanni Petìx era proprio austero, non ricordo di averlo mai visto ridere e probabilmente non è vero, mi sarà capitato di sicuro, ma la memoria non ne ha ritenuta l’immagine. La memoria è selettiva, conserva solo certe cose, la mia ha voluto conservare un volto serio, quello di un uomo che pensa, anzi che sa pensare.
Quanto abbia giocato in questo il fatto che fin da piccolo tutti e soprattutto i miei genitori parlassero con rispetto, quasi con compunzione, della cultura dello zio è difficile dirlo, ma probabilmente deve aver pesato parecchio. Dunque per me, amante della lettura, la sua figura fu sempre un’immagine in positivo legata alla cultura ed ai libri, e non ad una cultura elargita, facile o riposante, ma conquistata e vissuta con immensa fatica. Ogni volta che c’era qualche difficoltà scolastica, e Dio sa quante ce ne furono a un certo punto, il dito ammonitore dei genitori si alzava ricordando quale fortuna fosse il vivere in una ricca città del nord, con tutte le scuole di ogni ordine e grado a pochi minuti di distanza a piedi. Spesso seguiva al rimprovero la narrazione dell’aneddoto dello zio che, da bambino, aveva dovuto interrompere gli studi alle elementari perché in paese non c’erano altre scuole.
Mi riusciva difficile immaginarlo bambino, sembrava sempre che parlassero di un’altra persona. Comunque il piccolo Giovanni era così intelligente ed avido di sapere che leggeva e capiva tutto quel che gli capitava a tiro. Un giorno disegnò una carta geografica a colori così bella che i suoi genitori la fecero vedere all’uomo più ricco del paese, chiedendogli se per quel bambino così bravo non poteva trovare un posto in qualche collegio dove facessero studiare anche i bambini poveri. Si sapeva che esistevano, ma dove? E come raggiungerne uno ed esservi ammessi? Forse era più facile arrivare al castello delle fate. Quell’uomo era davvero ricco e potente, tra lui e gli altri c’era un autentico abisso, ma non fece nulla. Difficile dire se per semplice indifferenza oppure per calcolo: perché dare istruzione a qualcuno che domani potrebbe trasformarsi in un rivale? Non saprei quale delle due ipotesi configuri la colpa maggiore. Quanti talenti sprecati così, nei secoli dei secoli!
Quando i miei genitori raccontavano questa storia non lo facevano tanto per fare un esempio relativo ad una persona conosciuta e quindi più facile da ricordare, ma la narravano col tono accorato di chi parla di un fatto personale del quale non riesce a darsi pace. Il perché lo capii un po’ alla volta, quando con gli anni conobbi anche la loro storia, che era anch’essa una storia di giovani col desiderio di studiare ma senza scuole vicino casa, e con famiglie prive dei mezzi per mandarli in collegio. Dunque, qualche decennio dopo l’infanzia di Giovanni Petix, sotto questo profilo nulla era ancora cambiato in paese.
In una situazione del genere, per darsi un’istruzione, occorreva un’energia quasi sovrumana, ma lui l’aveva e con gli sforzi di una vita intera divenne un autodidatta, figura oggi quasi scomparsa e che forse riesce incomprensibile ai più giovani. Spesso questo comporta una vita da originale isolato, lui invece si sposò, ebbe numerosi figli e lavorò sempre duramente. Quasi non si capisce dove trovasse il tempo per studiare, ma non dimentichiamo che a quell’epoca la grande ipnotizzatrice, la televisione, non esisteva e chi veramente lo voleva il tempo per leggere a casa sua, anziché andare all’osteria con gli amici, poteva trovarlo. Oggi invece la trivialità dell’osteria ci insegue fin dentro le mura di casa con il chiasso futile e di basso livello vomitato senza soste dallo schermo opalescente. Il chiasso è il peggior nemico della cultura.
Spesso agli autodidatti resta un’aria provvisoria, parziale, che Giovanni Petix non aveva affatto: parlare con lui era come parlare, in tutto e per tutto, con un anziano professore in pensione. Ricordo una sera d’estate, quasi cinquant’anni fa, in cui passeggiavamo con altri che non rammento, su e giù per la piazza affollata da altri gruppi che discutevano anch’essi animatamente misurandola in lungo e in largo con i passi, mentre i giovani e le giovani si “guardavano” e varie persone passavano da un gruppo all’altro o dalla passeggiata ai tavolini dei caffè, come particelle nucleari che dalle orbite esterne di un atomo si spostino a quelle di un altro tessendo l’unità connettiva della materia.
Il nostro era, quella sera, un atomo culturale e ovviamente lui ne era il nucleo. Parlavamo delle dominazioni straniere in Italia e dei diversi effetti da esse prodotti; ad un certo punto lo zio citò la battaglia di Pavia del 1525. Pensando di fare bella figura, dimostrando che avevo capito di quale evento parlasse e ne valutavo correttamente l’importanza, mentre dubitavo che gli altri l’avessero capito con altrettanta prontezza, dissi: “Si, certo!” o qualcosa di simile “Quella in cui fu catturato il re di Francia”.
Lui si fermò, si girò di scatto verso di me e sibilò: “Non si cattura un re, ma un brigante, un re si prende prigioniero”. Se non ricordo male stavo per iscrivermi all’Università: incassai la correzione da un uomo che aveva frequentato le elementari. La sua pronta reazione non era dovuta a sentimenti politici, non era monarchico come lo era invece mio nonno materno, suo cognato, ex Reale Carabiniere dal quale non sentii mai dire “il Re”, ma sempre “Sua maestà il Re”, quando il discorso cadeva su quell'argomento. Non me la presi, non si trattava di mera pignoleria, ma di amore per la precisione concettuale. Feci tesoro della sua correzione, che spesso mi riaffiora alla mente, anzi è in quell’atto che per lo più lo ricordo, mentre mi invita alla precisione ed alla univocità di significato, senza la quale non può esserci onestà culturale né vera conoscenza, ma solo pressappochismo, cialtroneria o peggio, deliberato imbroglio. Nulla è più pericoloso della confusione, nulla è più grave dell’ambiguità.
Raccogliersi con un libro in mano non è essere soli, in compagnia di un buon libro non si è mai soli. Da quelle pagine erompono infatti continuamente persone, a volte folle intere, che danzano sulle righe, parlano, in molti casi gridano, o interrogano, fanno sberleffi, si negano, si rivelano, danno consigli ed anche a chiudere di scatto le pagine, per farli una buona volta tacere, si continua a sentirne il brusio. Leggere, che c’è di più bello che leggere? Lo diceva sempre anche lo zio e con quegli occhi appuntiti come spilli era tremendamente convincente: leggi questo libro, leggi quest’altro e vedrai! I consigli non cadevano nel vuoto anche perché già a casa i miei genitori, parlavano di libri come dei golosi davanti alla vetrina di un pasticciere. Mio padre poi, quando li maneggiava, li accarezzava quasi inconsciamente come molti fanno col pelo di un gatto che tengono in braccio.
Quello della lettura e magari della scrittura, può essere un vizio di famiglia, quasi genetico e impossibile da reprimere. Anni fa il mio padrino disse: “Tuo padre è sempre stato amante di leggere, me lo ricordo da ragazzo, di sera, a leggere sotto il lampione a gas che illuminava la strada”. Storie degli anni Trenta, quando non c’era ancora la corrente elettrica. Mio padre non conosceva le favole e da bambino mi crebbe raccontandomi l’Odissea e la Divina Commedia. In alcune calde sere delle mie estati montedoresi mi capitò di sbalordire le vecchie di via Alighieri ripetendo loro la storia di Ulisse e Polifemo o quella del conte Ugolino e dell’arcivescovo Ruggeri. Ricordo quando, più grandicello, mi lesse da un’antologia che aveva usato nelle scuole serali, la lettera di Machiavelli a Francesco Vettori. La più bella mai scritta in tutti i tempi e nella quale il Segretario fiorentino narra anche come, toltasi idealmente la veste coperta del fango della quotidianità, si ritirasse di sera nella sua stanza, vestendosi dei panni più onorevoli e lì, attraverso i libri, fosse ricevuto dai grandi uomini dell’antichità e parlasse con loro.
A differenza di quanto avvenne al padre Pirrone del Gattopardo, l’istruzione non sradicò Giovanni Petix dal suo ambiente natio, pur avendone fatto un personaggio atipico. Oltre a parlare e scrivere in perfetto italiano, aveva imparato anche il latino; la cultura dell’epoca era del resto quasi esclusivamente classica e solo su quelle basi avrebbe potuto intendersi con l’altro uomo colto del paese nella sua generazione, l’Arciprete Alfano, col quale tenne stretti rapporti. Ma lo zio non disprezzava assolutamente il dialetto. Un’estate disse anzi a mia madre, sua nipote: “I tuoi ragazzi sono abbastanza cresciuti, sarebbe ora che imparassero il dialetto del loro paese”. Mia madre non volle assolutamente e neppure ci disse che lo zio si era offerto di farci da maestro, lo venimmo a sapere solo parecchi anni dopo. Imparammo comunque poi a capire il dialetto quasi alla perfezione ed anche a masticarne qualche parola, da forestieri ovviamente, la scioltezza e soprattutto la resistenza nelle frasi lunghe si acquistano solo con l’uso continuo.
Mi dispiace di aver perso le lezioni dello zio, certamente succose, ma non so dare torto a mia madre. Non dovevamo vivere in una società semplicemente urbana, come avrebbe potuto essere quella di Caltanissetta o di Palermo, ma metropolitana: al nostro orizzonte c’erano Roma e poi Milano. L’unico possibile veicolo di comunicazione in quei contesti era la lingua, infatti non sentimmo mai i nostri genitori parlare in dialetto, neanche tra loro: era una regola che s’erano imposta fin dal principio. In quella fase dello sviluppo della nostra società, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il dialetto ci avrebbe trascinati indietro verso il più antico mondo rurale, mentre noi dovevamo lanciarci in avanti per acquisire finalmente quell’istruzione che a loro, in quell’arcaico contesto, era stata negata.
Oggi con l’ampia scolarizzazione acquisita, i dialetti, pur essendo popolari per definizione, non costituiscono più un pericolo perché sono un veicolo di comunicazione solo accessorio. Anzi, usarne una spruzzata nel discorso anche tra persone istruite, sembra quasi una finezza ed un’eleganza. Come tutti gli uomini veramente colti, Giovanni Petix era in anticipo sui tempi: già negli anni Cinquanta non viveva più il dialetto come un rischio e si muoveva con scioltezza in ambedue gli ambiti linguistici. Tra le tante cose di cui gli siamo debitori c’è quindi anche l’attenzione al dialetto, sul quale lavorò con grande interesse per gli aspetti tecnico professionali del lavoro minerario, che conosceva così bene e sul quale ci ha lasciato una ricca messe di informazioni raccolte appena prima che quel mondo, che così a lungo ha caratterizzato la nostra terra, sparisse nell’oblio.
Il dialetto era la naturale espressione della comunità: il paese, scena e teatro sul quale si è svolto il plurisecolare spettacolo della vita, una gigantesca recita a soggetto, con migliaia di attori che si sono continuamente passati la battuta l’un l’altro, sparendo di scena a volte tra gli applausi a volte tra i fischi degli altri, tutti contemporaneamente attori e spettatori. Pirandello è certamente colui che meglio di tutti ha capito e saputo restituirci questa autoteatralità di noi siciliani, gente che fa spettacolo della vita quotidiana, trasformata in una recita continua in cui ognuno assume vari ruoli ed impersona diversi personaggi, a volte recita perfino con sé stesso guardandosi allo specchio. Lo zio, che non era un artista, invece che con la letteratura cercò di ricostruire con la storia le caratteristiche della sua comunità di villaggio, vista come un organismo da esaminare in tutti gli aspetti.
Della sua passione storica, ampiamente condivisa, divenni partecipe per quel poco che me lo consentirono la rarità e la brevità dei soggiorni a Montedoro. Quando gli manifestai l’intenzione di studiare la mia famiglia per conoscere cosa ci fosse nel suo passato, visto che la memoria orale dei parenti non andava oltre mio bisnonno, mi consegnò tutti gli appunti che aveva raccolto sull’argomento. Scoprii che, esaminando i libri parrocchiali, aveva ricostruito degli alberi genealogici completi: non nascondo che mi fece una certa impressione trovare anche me stesso in fondo ad una ramificazione. Provai un curioso senso di sdoppiamento della personalità: ma io chi ero, il soggetto o l’oggetto della ricerca? Anche questa fu una rivelazione: la distinzione tra misuratore e misurato non è più possibile quando si scende nell’infinitamente piccolo, come nella fisica subatomica e toccai con mano come questo fosse il singolo individuo, negli studi sociali.
Che quelle dello zio non fossero le conoscenze e le idee di un banale erudito locale, lo capii a fondo quando ebbi in mano i suoi documenti ed ancor meglio quando anch’io mi misi a raccogliere documentazione ed a scrivere. Giovanni Petix non pubblicò mai una “Storia di Montedoro” e mi piace credere che lo abbia fatto volutamente, sarebbe stata una delle tante storie di paesi che lasciano il tempo che trovano, perché non può dire tutto una sola persona in un’unica opera. Egli passò invece la sua vita a raccogliere materiale e soprattutto ad elaborarlo, lasciandoci in tal modo una ricchissima eredità, perché si fece carico del lavoro più lungo, difficile e meno gratificante. Lui ha zappato e vangato a fondo il terreno, ora bisogna seminare e far crescere le piantine. Quando mi fornì i suoi appunti, mi risparmiò anni di lavoro consentendomi di passare subito alla fase successiva, certamente più piacevole e produttiva, quella delle conclusioni. La stessa cosa vale per la storia del paese nel suo insieme.
Se penso che l’utilizzo sistematico dei libri parrocchiali con i dati sui matrimoni, le morti e le nascite fu elaborato in alcune Università inglesi e francesi negli anni Sessanta, si diffuse nei decenni successivi, ma in Italia era osteggiato, come tutti i metodi di analisi storica su basi quantitative e constato dai suoi appunti che lui se l’era inventato da solo verso il 1950, quasi mi vengono i brividi. Riesco a stento ad immaginare cosa avrebbe potuto elaborare con quel cervello e quella volontà se fosse nato in una ricca famiglia parigina o londinese. Uno dei pezzi più belli ed utili tra i suoi appunti, tutt’ora inedito, è la serie storica delle quantità di nascite, morti e matrimoni di Montedoro dal Seicento al 1950. Grazie a quella base di dati mi è stato possibile applicare una tecnica di analisi messa a punto da uno storico toscano e giungere alle conclusioni in poche ore, grazie all’uso di un personal computer.
Giovanni Petix era dotato di un sicuro senso storico, anche nella quotidianità. Basta leggere il suo diario dei giorni di guerra, scorrere gli appunti sulla rivoluzione dei prezzi seguita allo sbarco angloamericano in Sicilia nel 1943 e ci si trova proiettati nel cono visuale di certi antichi cronisti come l’Anonimo romano ed il Burigozzo milanese o di certi sconosciuti del Settecento o dell’Ottocento che mi è capitato di incontrare in polverosi scartafacci e dei quali sono divenuto amico e confidente. Ma quel che differenzia Giovanni Petìx da un qualunque cronista, così come lo differenzia da un qualunque erudito locale, è proprio la sua attitudine ad elaborare e sistematizzare i dati e le informazioni: non ci ha lasciato zibaldoni impressionistici di parole, ma elenchi organizzati di affermazioni significative, tutt’ora in attesa di un interprete di razza che sappia utilizzarle in modo proficuo.
In una cultura storica come quella italiana, nemica giurata dei numeri e proclive a saltare ancor oggi alle conclusioni, senza affrontare né la fatica del calcolo né la costrizione dei suoi risultati, che impediscono poi i voli pindarici in libertà, la lezione dello zio deve esserci preziosa. Se in ogni paese un Giovanni Petix avesse raccolto anche solo i dati quantitativi delle nascite e delle morti di cui si diceva prima, la storiografia avrebbe ben altra base da cui muovere. Si continuano invece a sentire ed a leggere chiacchiere basate sul nulla. Ma l’amore per i dati statistici è una caratteristica borghese ed in Italia, in particolare in Sicilia, di borghesia vera ce n’è sempre stata poca o niente del tutto.
Nei paesi della nostra isola la nicchia sociologica che altrove fu appannaggio del ceto medio fu occupata dalla categoria dei “mastri”, specifici gruppi di famiglie, di solito povere come le altre o poco meno, che si trasmisero per generazioni soprattutto le professionalità artigiane. Furono loro a fungere in Sicilia da ceto medio, anche dal punto di vista “intellettuale”, in assenza di una borghesia vera, che l’isola non ebbe mai e questa mancanza la pagò sempre cara e cara la paga tutt’oggi. Fu colpa di qualcuno che li schiacciò o debolezza intrinseca di questo gruppo sociale dei mastri, che si dimostrò sempre incapace di rendersi indipendente, generando almeno un po’ di borghesi? Penso che la storiografia locale siciliana debba soprattutto rispondere a questa domanda, ma temo che non se la sia ancora neppure posta.
Lo zio apparteneva a quell’ambito sociale e credo che ne fosse ben conscio. Nelle sue carte ho visto ricorrere, in un modo che mi è parso compiaciuto, la firma “Giovanni Petix Capomastro”: una qualifica che si poteva acquisire solo per merito e per esercizio delle funzioni sul campo ed a cui penso tenesse più che ad ogni altra. Secondo me quel titolo onora la sua fatica più di quello di professore “honoris causa” che pure avrebbe meritato, visto che in vecchiaia arrivò ad aiutare i nipoti in difficoltà col latino. Immaginatevelo così il vecchio capomastro, con gli occhiali sul naso a dar lezioni di latino ai nipotini, poi chiudete gli occhi e provate ad immaginare anche un’altra Sicilia, nella quale queste figure e non altre, che ci sono ben note dalla cronaca, avessero costituito il modello di riferimento.

Giampietro Morreale (Novara)