Seme di senape
Il collirio della grazia
A commento di un passo dell’Apocalisse (3,18), nella letteratura
patristica si incontra l’espressione «collirio delle buone opere»;
alquanti scrittori cristiani hanno proposto la metafora del collirio,
parola che viene dal greco; anzi, è un grecismo che in latino diventa
collyrium.
In un’omelia del II secolo si legge che i cristiani, pur conservando in
modo integro il senso della vista, hanno riacquistato l’uso degli occhi
spirituali. I fedeli, con il concorso della grazia divina, depongono il
fitto velame che ricopriva i loro occhi. L’occhio del cuore e della
mente diventi allora illuminato di luce divina (cf. Ef. 1,18). In altre
parole, solo lo sguardo della fede permette di vedere la gloria di Dio.
Inoltre, dagli scrittori greci e latini il battesimo veniva considerato
come illuminazione. San Giustino dice per esempio che i neofiti, nella
fase di apprendere la dottrina del vangelo, «vengono illuminati nella
mente»; ovvero, gli occhi interiori si illuminano, abbandonando le
concupiscenze naturali e divenendo figli della libertà e della sapienza
(cf. 1 Apol. 61, 12).
A sviluppare di più l’immagine del collirio è sant’Agostino, vescovo di
Ippona. Egli tenne al popolo dei sermoni fra il 414 e il 417 d.C. per
spiegare il vangelo di Giovanni; tali testi formano il suo In Iohannis
evangelium tractatus. Il nostro teologo si basava sul cap. 9 del
vangelo di Giovanni e commentava l’episodio del cieco nato; nella
cosiddetta Omelia 34 Agostino sviluppava l’immagine del collirio della
grazia.
Collirio della fede o della grazia è l’icona della salvezza dell’uomo.
Gesù ha mescolato la sua saliva con la terra; e cioè, all’umana e
terrestre condizione delle creature Dio chiedeva di lasciarsi plasmare
dalla grazia divina (34, 9); il collirio viene pure dalla terra, cioè
dall’opera umana: «omnia enim collyria et medicamenta nihil sunt nisi
de terra»; e, nel desiderio di guarire, la stessa situazione aiuta il
malato: «de pulvere caecatus es, de pulvere sanaris; ergo caro te
caecaverat, caro te sanat» (2, 16).
In altre parole, per Agostino Dio non salva l’uomo in modo magico, ma
come un medico. Il malato agli occhi deve collaborare al medico che lo
guarisce. Questi suscita nel malato il desiderio della luce ed applica
un collirio agli occhi in modo che sia di stimolo al malato per
guarire. Insomma, il desiderio diventa la cura migliore e il malato è
ben disposto a sopportare terapie dolorose, per amore della luce (18,
11). Effetto del collirio divino è la pratica delle buone opere; perciò
la luce divina è salute degli occhi («valetudo oculorum»).
In breve si può dire che quel Gesù che si è fatto debole con i deboli,
attraverso la sua passione e morte ha fatto del suo corpo una sorta di
collirio di grazia (35, 6).(76)
Salvatore Falzone sac.