La Sutera della mia infanzia
Ricordi, percezioni, intuizioni di un siciliano piemontese

Oggi a sessantadue anni suonati, approdato ad una stagione della vita che in un passato, anche abbastanza recente, preludeva al traguardo finale, sento il bisogno, quasi la necessità, di riordinare i ricordi e le immagini che sempre più numerosi e frequentemente si ripropongono alla mia mente. Provo quindi a mettere mano ad un archivio in cui ogni documento cerca e vuole un suo posto.
Purtroppo l’archivista è anche l’ultimo della famiglia a cui tutto ciò potrà interessare; ciò non dimeno, nutro la speranza che un giorno, qualcuno possa leggere questo scritto. Il breve tempo impiegato nella lettura, sarebbe un modo per ridare vita alle persone e riproporre gli avvenimenti e le situazioni di cui parlerò e che mi piace fare precedere da una riflessione sul mio essere siciliano. Un siciliano, senza radici, che ha sempre vissuto in Piemonte; un siciliano forse più piemontese di tanti.

Sono siciliano di questa terra dura e gialla.
Sono siciliano delle zolfare e dei
mandorli contorti nel vento.
Sono siciliano di questo vento che
sospinge imbarcazioni di erbe e
rocce scheggiate.
Sono siciliano di antica memoria
di arabi e fasci operai.
Sono siciliano di Barbato
Sono siciliano senza speranza
con il futuro che tramonta nel
sole d’estate e il passato negli occhi.

La mia famiglia, inizialmente solo mio padre e, successivamente, mia madre e mia nonna, dalla Sicilia si trasferirono a Torino, nel 1956, ossia quando avevo tre anni. Per un breve periodo abitammo in due stanze in via Corte d’Appello nello stesso stabile dell’Hotel Dogana Vecchia, nell’ala che guardava su via Bellezia; poi dopo alcuni mesi ci trasferimmo in via Botticelli 177 alla scala D.
Credo fosse l’inizio del 1957 e il primo ricordo che ho è una fredda ed uggiosa giornata invernale con tracce di neve gelata ai bordi di una via Botticelli molto più stretta e senza marciapiedi.
Mi rivedo mentre mi rincorro con un altro bambino all’incirca della mia stessa età Alfonso De Lucia, mentre sua mamma e mia nonna intercalano le loro impressioni del luogo, di noi delle case con  ….non correte … fate piano … attenzione…
Giunto al limitare di un’età un tempo considerata tarda ma che oggi tende a nuove velleità, vincendo timori e ritrosie, spesso venate da autentica commozione, provo a mettere su carta ricordi, immagini e alcuni tratti di persone che hanno caratterizzato e segnato le mie estati trascorse in un paese di piccole case grigie, incastrate le une nelle altre, abitate da persone che spesso molto sapevano di me, ma di cui io molto ignoravo. Scrigni di ricordi che col trascorrere del tempo assumevano i tratti della malinconia.
Gente che viveva in un paese che lentamente cambiava e in cui continuavano ad albergare ombre che mi intimorivano quando la sera, arrivava l’oscurità nella casa di nonna Giuseppina.
Mia nonna materna, Giuseppina, era nata a Sutera nel 1895, di cognome faceva Carruba, il che in paese equivaleva a chiamarsi Rossi, tanto il cognome era ed è diffuso.
I casi della vita hanno voluto che io nascessi a Caltanissetta e poi, all’età di tre anni, in seguito al trasferimento della mia famiglia mi ritrovassi a Torino, città nella quale ho vissuto fino a non molto tempo fa.
Eravamo una piccola famiglia implosa, racchiusa in sé stessa.  A Torino non avevamo parenti, le amicizie e le conoscenze provenivano da ambienti diversi da quelli dei circuiti dei paesani con i quali non avevamo contatti.
Forse, anche per questo, la mia infanzia fu scandita dai ricordi e dagli aneddoti che mia mamma, ma soprattutto mia nonna, mi narravano rievocando gli anni trascorsi a Sutera.
Chissà, se questo continuo riandare al passato, fosse un modo per non separarsi dal paese, da un mondo, da una cultura, dalle persone. La domanda è certamente retorica e la risposta non può essere che si.
Ho ancora nelle orecchie le loro voci, le espressioni e le sfumature di una lingua che rendeva vivo e palpitante il dipanarsi dei racconti. Suoni ed intonazioni che mi rendevano partecipe di avvenimenti facevano rivivere persone e parenti che non avevo conosciuto, mi parlavano di oggetti e di usi che in città erano ignorati.
Certamente grazie anche a quella atmosfera, al continuo narrare, a quei ricordi partecipati, nascevano in me curiosità e desiderio di conoscere e capire.  
Debbo ringraziare in particolare mia nonna Giuseppina, che inconsciamente per prima mi ha mostrato la storia delle persone e a lei sono debitore della mia passione per la storia.  
La storia di quelli senza storia, ma non solo; lei, alla quale non fecero concludere la seconda classe elementare, che diceva d’aver imparato a leggere quasi da sola e che per contrappasso aveva una passione sconfinata per la lettura, con l’esempio, mi ha, appunto, insegnato il piacere del leggere.
Leggeva qualunque cosa: libri, giornali, addirittura quelli con i quali, allora si usava così, era avvolta la verdura acquistata al mercato.
Aveva la volontà di coloro che hanno conosciuto la fatica della conquista.
Ho il rammarico di non averle potuto comunicare i miei sentimenti, di non averla potuta ringraziare. Troppo tardi, rispetto ai tempi della vita, sono arrivato a queste conclusioni.
Di mia nonna conservo immagini precise, nette come fotografie, che costituiscono l’album delle istantanee di una vita.
Una crocchia di capelli bianchi, piccola di statura, sempre in movimento, sempre indaffarata, sempre in qualcosa affaccendata.  
Ora preparava da mangiare, ora sferruzzava, spesso pregava, ricordava i suoi morti e poi raccontava e ancora raccontava. Io sovente le chiedevo di ripetere nuovamente ciò che già conoscevo. Il marito, il nonno, i due figli morti giovani, dei vicini di casa, aneddoti della sua gioventù che diventavano patrimonio dei miei ricordi.
La mia partecipazione, forse la precisione e la profondità della conoscenza di quegli avvenimenti era tale che, in estate quando arrivavo in paese, mi pareva di conoscere tutto e tutti e i conversari non mi avevano come ignorante uditore.
Fino a quando le forze glielo consentirono mia nonna è tornata, a Sutera, regolarmente ogni estate.
Partiva da Torino verso la fine di maggio e ritornava all’inizio di ottobre; diceva che andava in villeggiatura; ma non era solo un andare in vacanza.  Rivedere la sua gente, il monte San Paolino, calcare le strade del paese, parlare la sua lingua sicura di essere capita era, oggi ne sono certo, era il modo per tornare sé stessa.
Anche io sono stato legato a Sutera, in questo luogo ho trascorso molte estati della mia infanzia e della prima adolescenza.
Dalla stazione Porta Nova di Torino, la sera verso le ventuno prendevamo il Treno del sole, ventiquattro ore di viaggio - ritardi permettendo - l’esperienza del dormire in cuccetta, il treno che  a sud di Napoli era ancora a vapore, vedere il mare,  il convoglio che a tronconi viene stivato sul ferribotte.
A Messina la prima granita, siamo in Sicilia! Pensavo di essere arrivato, ed invece no …  dopo il lungo e faticoso viaggio, il bello doveva ancora arrivare. Scendevamo a Termini Imerese, aspettavamo una o due ore la coincidenza con un treno locale che, partito da Palermo diretto ad Agrigento, ci avrebbe portato fino a Sutera.
Arrivavamo alla stazione intorno alla mezzanotte. Ad attenderci c’era l’auto di un qualche parente o più spesso, per non disturbare, quella a noleggio di Alfredo Ferlisi.
L’automobile s’inerpicava e attraversato un paese addormentato ci lasciava a lu  Carminu  dove, nonostante l’ora tarda ci attendeva  Giovanna Vola Vola la quale ci aiutava a portare le valige fino a casa di nonna lassù, quasi in cima al Rabatello.
Il giorno dopo cominciava la vacanza.
Camminando per il paese incontravamo parenti ed amici: uno sguardo, un sorriso, il piacere di ritrovarsi, abbracci, baci, scambi di notizie.
Alcuni, ansiosi ma ingenui ci chiedevano se avessimo mai visto il proprio figlio emigrato magari a Milano o in un comune della cintura torinese.
Per un siciliano, che non aveva mai varcato lo stretto, il continente era un altrove,  il nord era un’entità lontana, una nebulosa dai limiti indefiniti: Torino, Milano, Beinasco, Corbetta….sempre continente è…
Tutti invariabilmente mi ripetevano la medesima litania:  … cumu si fici ranni lu carusu, te chi ti dugnu na vasateddra.  
Questo era solo un aspetto del ritorno, fino ad allora avevamo incontrato solo mezzo paese; l’altro mezzo veniva a trovarci a casa; chi portava un coniglio,chi sei uova, quattro acculazzati, un panaro di ficudinnia, gli immancabili taralli - che a me non sono mai piaciuti - un pacco di caffè.  Per qualche giorno quasi non facevamo la spesa.
Erano quelli giorni in cui si riannodavano legami e si testimoniavano affetti che né il tempo, né la distanza avevano troncato, ma se possibile, parevano addirittura aver rinsaldato.
Ogni estate ritrovavo i miei compagni di gioco, Onofrio Milioto emigrato in Germania; Vincenzo Turone di cui ho perso le tracce; Marco Mantione che oggi mi dicono direttore del Convitto Umberto I di Palermo e altri di cui non ricordo i nomi.   
Talvolta mi sentivo a disagio per via della lingua, loro parlavano siciliano, io non ero e non ne sono capace.
I miei genitori, volevano che mi esprimessi in italiano; soprattutto mio padre che addirittura, forse per evitarmi qualche battuta o qualche discriminazione, a quel tempo Torino non si affitta ai meridionali mi insegnò a dire che ero nato a Torino e non a Caltanissetta.
A Sutera, quindi, forse mio malgrado dovevo esprimermi in italiano cosa che mi faceva immediatamente riconoscere per forestiero, una condizione che sentivo come di esclusione e di emarginazione. In un’occasione ad un ragazzino mio coetaneo, che mi scrutava con curiosità, appunto perché diverso, lo apostrofai in piemontese: còsa t’lass?,  còsa t’veuli?,  mi guardò stranito, ed  un sorriso di commiserazione si dipinse sul suo viso; non ci fu una seconda volta.
Il parlare italiano mi metteva anche in difficoltà nei negozi o quando mi mandavano a fare qualche commissione.
Entravo nella putia, proferivo il mio buon giorno e immediatamente scatenavo la domanda: dunni si? Di cu si figliu? Pazientemente, per l’ennesima volta, rispondevo: sono figlio di Peppuccia Rocchi del Rabatello, quindi,quasi riconosciuto come membro della comunità,ogni problema di comunicazione veniva risolto.
Le mie giornate suteresi erano scandite dai giochi e dalle corse lungo le ripide e talvolta scoscese strade del paese. Prive dei pericoli della città le vie erano un parco giochi, talvolta, esse stesse erano gioco quando si correva prendendo a calci un barattolo vuoto di conserva o quando si giocava a bagnarci con l’acqua di lu canale. Era questa una fontanella che il comune aveva fatto costruire nel quartiere Rabatello al fondo di via San Rocco - in uno slargo prima di u cuozzu - per ovviare al fatto che molte case erano ancora prive di acqua potabile.
Per noi ragazzi costituiva un richiamo irresistibile, il gioco consisteva nel bagnarci vicendevolmente. Il gioco era breve, durava fino a quando una signora, molto anziana, che abitava proprio di rimpetto, immancabilmente si affacciava e ci sgridava perché sprecavamo l’acqua. Oggi, a distanza di anni, ho il sospetto che il vero divertimento consistesse non tanto nello spruzzarci vicendevolmente, quanto piuttosto, nel farla arrabbiare e gridare. Spero ci abbia perdonato.
Tornavo a casa subivo i rimproveri e la riprovazione di mia nonna la quale non gradiva che fossi maleducato ed irrispettoso.
Sutera era il luogo ideale per giochi che a Torino erano oramai scomparsi.  Non conoscevo: il cerchio, le corse dei carrozzoni o la piriddra. Bambino di città non possedevo la trottola, me la regalò e, ancora la posseggo, un nipote di Giovanna Vola Vola, Onofrio Milioto.  Un anno, ritornando a Sutera, non lo trovai più, era emigrato in Germania con la famiglia mi dissero; non l’ho più rivisto.
Ogni volta trovavo un gioco diverso, un anno era in voga giocare con i tappi a corona delle bibite che raccoglievamo per strada o che andavamo a chiedere nei bar, l’anno successivo c’erano le figurine, e l’anno dopo ancora scoprivo un'altra novità.
A calcio andavamo a giocare a lu chianu di lu Carminu; a me non piaceva molto perchépiù che partite di calcio erano solo un gran correre, senza regole, dietro ad un pallone che talvolta rischiava di finire a li fosse.
Un anno divenni un protagonista, da Torino portai i pattini a rotelle, nessuno li aveva e io ero quasi un’attrazione.
Li usavo a u palummaru o a lu Carminu producendomi in evoluzioni intercalate da qualche ruzzolone.
All’inizio degli anni sessanta qualcosa cominciò a mutare. Un’estate scoprii che qualche famiglia aveva acquistato il televisore. Per una straordinaria similitudine, esattamente come accadeva qualche anno prima a Torino, il nuovo oggetto diveniva un punto di ritrovo attorno a cui si radunavano i vicini di casa..
Una delle prime famiglie che al Rabatello possedette il televisore fu quella dei Turone. Con grande pazienza ci accoglievano per guardare qualche programma. Di quegli anni ricordo L’amico del giaguaro, era un programma musicale, mi pare del sabato sera, con Raffaele Pisu, Marisa Del Frate ed un giovane e pingue Gino Bramieri, nomi che forse ai giovani dicono poco o nulla ma che allora riscuotevano notevole successo. Più avanti, col tempo, anche le case di Ciccina e della Marrapuccia, anche se con minore intensità, divennero luoghi di ritrovo.
Ciò nonostante la sera gli adulti stavano ancora volentieri seduti davanti le case, al fresco della vaneddra. Appollaiati sulle sedie impagliate intessevano chiacchiere, qualche pettegolezzo, raccontavano qualche barzelletta, narravano aneddoti e ricordimentre noi ragazzi, nella giornata che volgeva alla fine, instancabili, proseguivamo nei giochi e nelle corse.
Già la vaneddra, metafora del tempo che passa. Ogni casa una storia, ricordi e persone che hanno incrociato la mia vaneddra: all’inizio la casa dei Turone, di fronte a Modica, poi appena il ricordo, immagine sfocata, di una ragazza bionda, morta in un incidente stradale a Milano, più avanti Marco morto sul lavoro in Germania; poi Ciccina, la casa di mia nonna e a seguire quella di la Gagliana e di suo figlio Giuanni Lampadinu. Due mani d’acciaio, una coppola, un viso cotto dal sole, un foglio di cuoio che spiccava sul candore della camicia bianca della domenica e una gran voglia di parlare, di filosofeggiare sulla vita. Di fronte la casa ranni del mio bisnonno, Carmelo Carruba u Bingulu, dove abitava il figlio Totò e la moglie a ‘zza Maruzza  e ancora la cassa di Nofria  a Vilanga e del marito Vincenzo Turone.
Le strade non erano solo un luogo di gioco e di socialità, erano altresì luoghi di commercio.
Quando ancora era cosa consueta incontrare vistie, soprattutto muli o asini, non fa differenza,  alcuni commercianti ambulanti percorrevano, con il loro furgoncino a quattro zampe, le strade del paese preannunciandosi con alte grida: oh che beddra tinnirume…, pumadoru…, acculazzati.., milinciani.., oh chi pira chi haiu…, cucuzzeddri…, miluna di iauru, che traevano dalle ampie visazze.
Al venerdì mattina il suono stridulo di una trombetta annunciava il pescivendolo, aveva pesce povero, sarde, cefali, poco altro; qualche volta gamberi o pesce spada.
A giorni fissi, segno evidente di percorsi definiti e costanti, passavano commercianti di stoffe: belli abbiti, belli vestiti per uomo.  
Le donne uscivano dalle case chiedevano, valutavano la merce, si informavano sui prezzi, contrattavano, qualcuna acquistava; talune comperarono da questi commercianti parte del corredo da sposa.
Anche il latte si poteva acquistare per strada. Ogni sera un gregge di capre faceva ritorno in paese, mia nonna usciva sull’uscio di casa con un pentolino ed il pastore lo riempiva mungendo direttamente la prima capra che gli capitava a tiro. Oggi sarebbe impossibile, evidentemente allora germi e batteri erano meno combattivi.   
Vi era poi una figura professionale particolare, un mestiere che non saprei definire ma di cui ricordo un nome: Peppe Alongi.
In un’epoca in cui la motorizzazione privata era molto scarsa e recarsi in città richiedeva molto tempo, oltre a fare praticamente da tassisti, persone come quella giravano il paese e raccoglievano ordini per l’acquisto di un oggetto particolare o introvabile; non solo, in città sbrigavano piccole commissioni o, grazie alle loro entrature riuscivano a spidugliare qualche pratica arenata in un ufficio pubblico tipo, catasto, INPS o altro.
Numerose erano le putie, solo al Rabatello. Quella di  Nino Saia Varvachiatta, l’altra di Cerasella, un'altra in piazza del Carmine, ma soprattutto, nella mia memoria rimane il negozio di Francesca Carruba, detta Ciccina e di suo marito Paolino Carruba, Garrubbinu.
Ciccina, aveva il commercio nel sangue. Casa e negozio un tutt’uno proprio di fianco alla casa di nonna. Una famiglia di sette persone abitava in una camera e una cucina soppalcata che in sostanza erano il retro del negozio. Nel soppalco sopra la cucina dormivano le cinque figlie: Nofria, Peppuccia, Melina, Mimma e Rosetta  che la diaspora dell’emigrazione e dei matrimoni ha disperso fra Inghilterra, Germania, Capaci e ….. Mussomeli.
Negozio, certo fuori dai certi parametri.  Insomma un bancone di legno in una, nemmeno grande, stanza quadrata ingombra di merci. In un angolo il bidone del sapone in pasta e poi, più avanti, un frigorifero che serviva per produrre i ghiacciolini che per cinque o dieci lire, a seconda se piccoli o grandi, ti facevano gustare improbabili sciroppi di frutta. In quel piccolo bazar si acquistava quasi di tutto. Pasta, zucchero, e caffè rigorosamente sfusi; caramelle e qualche dolciume, sarde salate, tumazzo e mortadella, detersivi, ma anche qualche capo di abbigliamento: calze, canottiere e poi quaderni, penne a sfera e mollette per i capelli.
A San Giovanni c’era a macelleria di Gilormu; sull’altro lato della piazza c’era Alfredo Ferlisi. Vendeva le bombole del gas che un ragazzotto recapitava ai clienti. Alfredo era il fiduciario della modernità e delle novità tecnologiche; da lui molti acquistarono i primi televisori, le prime lavatrici.
Come erano poi diverse, dalle attuali le tabaccherie, le ricordo al Rabato e a lu chianu diSantaita, con un semplice arredamento fatto di cassetti e poche scansie mi apparivano austere, sobrie come un tempio calvinista. Ambienti spogli, soffusi del lieve e persistente aroma dei trinciati; locali, dove si vendevano ciò che allora erano definiti Generi di Monopolio, sale, tabacchi, fiammiferi, chinino e, per un tempo in cui ancora si scriveva, francobolli, carta da lettera e cartoline.
Fino alla metà degli anni sessanta c’era anche il cinema,credo che aprisse solo la domenica. Io non ci sono mai andato, conobbi però chi lo gestiva, Antonia Pardi, due occhi scuri, mobili, penetranti come aghi.
A poche centinaia di metri c’è la chiesa di lu Carminu in cui la domenica mattina officiava l’arciprete padre Carruba e a cui talvolta servii messa. Non molto alto, rotondetto, la sua tonaca compariva caracollando per le vie del paese salutata dai s’abbenidica parrì. Con la sua morte si è forse voltata una pagina della storia di un paese oggi scomparso, come credo siano scomparse quelle figure di donne che vestite di scuro, spalle e testa avvolte da uno spesso scialle di lana nera, forse retaggio mediorientale, incontravo per paese chiedendomi il perché di tale abbigliamento.
Quando all’inizio dell’estate tornavo a Sutera, benché giovanissimo, percepivo nette e tangibili le differenze con Torino.  Disagi che solo successivamente, crescendo in età, in esperienza ed acquisendo strumenti conoscitivi adeguati ho saputo analizzare, metabolizzare, storicizzare ed inserire nel contesto  di quegli anni.
Il doppio registro, Torino – Sutera, non paia azzardato il paragone, sul quale si sono snodate la mia infanzia e la mia adolescenza costituisce per me il paradigma delle trasformazioni  sociali che hanno investito il nostro paese a cavallo fra la metà degli anni cinquanta e la fine dei sessanta.
Ho vissuto inconsciamente ed inconsapevolmente la transizione, fra modelli culturali e sociali diversi e la conseguente modificazione della la società italiana. A Torino vivevo in pieno il boom economico. Cominciavano a diffondersi gli elettrodomestici, il televisore in ogni casa. La motorizzazione privata, con enormi profitti per la FIAT, procedeva spedita, i consumi crescevano evolvendo, spesso, verso l’inutile ed il superfluo.  Evolvevano altresì i modelli culturali e sociali.
Da quella città dinamica ed in movimento, tornando a Sutera, approdavo in mondo diverso, una società ancora pienamente agricola e per alcuni aspetti quasi arcaica. Un luogo dove l’arrivo di un’automobile di turisti, novità assoluta, creava curiosità come in effetti accadde quella volta che in piazza del Carmine giunse un’automobile di colore chiaro, scoperta.
Probabilmente erano tedeschi, sostarono pochi minuti, nemmeno scesero dalla vettura. Immediatamente furono circondati da una torma di bambini vocianti. Decine di mani toccarono la lucente carrozzeria, altre ricevettero alcune caramelle.
Chissà cosa pensò la signora bionda seduta a fianco del conducente? Forse ritenne di essere giunta al limite del mondo.
In fondo quei miei coetanei si comportarono come ancora oggi si comportano i bambini di uno sperduto villaggio di un qualunque paese del sud del mondo al comparire di un qualche turista.
Rimasi discosto, visibile ma appartato, non capivo tanta curiosità, cosa c’era di così strano in quell’automobile ed in quelle persone, mi sentii profondamente umiliato.  
Il frigorifero era un lusso, i telefoni privati quasi inesistenti, forse lo aveva il medico, la farmacia, la parrocchia, qualche notabile. Per telefonare a Torino, dovevamo recarci al posto telefonico pubblico e prenotare la telefonata; talvolta si attendeva una, due ore e anche più.
Anche i giornalini erano un problema. Non sempre all’edicola della signorina Nannina al Giardinello, l’unica del paese, arrivavano i miei fumetti preferiti.
Le mie incursioni al Giardinello spesso avevano per obiettivo il bar di Pascuzza che di fianco alla chiesa di Sant’Agata vendeva gelati e granita.
Alcuni prodotti alimentari, forse anche per questioni climatiche, erano sconosciuti. Non c’era il burro, né lo yogurt, il prosciutto era sostituito dalla più modesta mortadella.
Quando ero ancora piccolo in paese al posto del cioccolato consumavo il surrogato; un prodotto della Ferrero che del cioccolato conservava all’incirca il colore e, vagamente, il sapore.
Come era però fragrante il pane impastato da mia nonna. Un impasto giallo e compatto, una crosta spessa e rugosa, ricoperta di paparina e giuggiulena. Tornando dal forno divoravo, ancora caldo, un mezzo piscitiddru.
Del paese di allora mi colpiva la povertà.
Ero un ragazzino ma, per mia sensibilità personale, riuscivo a cogliere aspetti, sfumature, particolari e a pormi domande che, rimaste in me, solo in seguito avranno risposte.
Ancora all’inizio degli anni sessanta vedevo bambini e ragazzi della mia età camminare a piedi nudi per le vie del paese. Le scarpe erano un lusso riservato, forse, ai giorni di festa.
Parimenti l’abbigliamento era alquanto raffazzonato. Quanti indossavano una maglietta sdrucita ed un paio di calzoncini corti, magari ereditati da qualcun altro, sorretti da una sola bretella.
I contadini partivano all’alba e tornavano al tramonto. Fatiche inenarrabili per vite intessute di speranze e desideri inesauditi. Visi rugosi simili alla terra riarsa. Mani grandi, dure e callose, più che mani, utensili, prolungamento del manico della zappa.  
Alla fine di ogni giornata affacciandomi alla finestra, guardando verso San Marco, li vedevo tornare in groppa ai muli.
Le strade di Sutera non risuonano più di quei passi, scanditi dall’eco degli zoccoli.
Di quei contadini ho ancora visto il gesso delle loro povere case. Casuzze di un piano con l’ingresso dalla stalla, con a fianco alla porta un buco dal quale passavano le galline ed il gatto di casa.  Dalla stalla per il mulo si saliva all’unica stanza che era nel contempo cucina e camera da letto.
In un angolo, rivestito da piastrelle bianche e blu, il fornello in muratura che oggi non sfigurerebbe in una casa finto rustico; al fondo della stanza l’alcova ed il pagliericcio sorretto dai tripi.
Il resto dell’arredamento era costituito da un tavolo, il braciere per scaldarsi in inverno, una giara, due quartare per l’acqua, qualche seggiola e l’immancabile cascia.  Questo era il mobile che serbava la biancheria di casa ed il corredo. Pochi possedevano una radio.
Questa è la Sutera che ho conosciuto, il paese della mia infanzia, bello, pittoresco e contraddittorio. Fiero del suo passato, povero nel presente, ed apparentemente immobile, quasi avesse timore di perdere la presa e staccarsi dalla rupe.   
Un paese dove le cristallizzate differenze, di censo e di classe, erano percepibili, ancorchè, negli aspetti materiali, nei processi di formazione e cooptazione del locale ceto dirigente. Il titolo di studio significava prestigio. Il maestro elementare diventava professore, il geometra veniva promosso ingegnere.
Molti genitori parlando del figlio che aveva studiato, c’avia arrinisciutu, per sottolinearne il titolo tralasciavano il nome, ma figghiu rraggioniere, oppure ma figghiu parrinu, o ancora u professuri. Il nome, Nofriu, Peppe o Turiddru, non esisteva più, valevano solo i titoli e professioni quali manifestazione di elevazione e promozione sociale.
Il medico, il parroco, il farmacista, il possidente terriero, avevano autorevolezza sociale e spesso, ruolo politico, amministrativo e di orientamento delle opinioni. Anche questo però l’ho compreso dopo, con il trascorrere degli anni e grazie all’accumularsi di esperienza e conoscenza.
Ad ogni ritorno vedevo qualche casa sprangata e sentivo di qualcuno che era andato via, partito, emigrato, chi in Germania, chi in Inghilterra o in Belgio, altri al nord Italia; Polinu partì pa Germania…, ma frati s’innii a Melanu…travaglia in frabbica..abbusca bbuono.
Era un continuo travaso di persone ed energie, che lasciavano il paese verso lontane destinazioni. Un progressivo sfilacciarsi di rapporti sociali, il tramonto di tradizioni e culture che solo legami amicali e di parentela, hanno in parte salvaguardato nella memoria di chi li aveva vissuti  ma che ora, con il trascorrere del tempo e il succedersi delle generazioni, rischiano di scomparire definitivamente.
Ho come la sensazione che la cultura del paese, anche se non scomparsa, sia cristallizzata. Sutera, come molti paesi, è diventata un palcoscenico su cui, caparbiamente, rappresentare senza modifiche ed evoluzioni, alcuni aspetti di una società scomparsa.
Ciò che in passato era la vita oggi rischia di diventare spettacolo a beneficio di coloro che visitano la riserva indiana. Complici la lontananza e la mancanza di contatti, forse esagero. Vorrei sbagliarmi.
Mi accorgo di stare travalicando i confini originari delle mie intenzioni; mi sto avventurando in ambiti sociologici i cui attuali limiti mi sono poco noti.  Meglio fermarsi qui e non inoltrarmi in un paese che non conosco se non in modo parziale.
Prima di fermarmi voglio però ricordare alcune persone umili e semplici che, per quanto mi hanno voluto bene, rimangono in me indimenticate ed indimenticabili.
Comincio da Ciccina, quella del negozio. Le vicende familiari di Ciccina furono inscindibilmente intrecciate a quelle di mia nonna e mia mamma in un legame che travalicava le normali relazioni di vicinato e che, ancora oggi, a distanza di anni, rimane forte e solido nei ricordi miei e delle sue figlie.
Seduto al scaluni della porta, io carusu, intessevo con lei lunghe chiacchierate. Ciccina non si era mai spostata da Sutera, diceva di non aver mai preso il treno e nemmeno visto il mare. Mi chiedeva di Torino, come si viveva, come era il tempo, se vedevo i paesani. A mia volta le chiedevo del paese e delle persone di cui mi forniva le ingiurie per la raccolta che andavo completando. Mi difendeva dalla severità e dalle sgridate di mia mamma; per lei ero un nipote.
Troppo tardi per partecipare al funerale, ho saputo della sua morte.
Di Nofria Turiddruzza, non  ricordo nemmeno il cognome, di lei ho un vago ricordo suffragato da una fotografia che la ritrae già anziana; avanti negli anni, con i capelli bianchi ed una lunga gonna blu.
Credo non avesse una famiglia propria, forse non si era mai sposata e per questo viveva da sola in una minuscola casetta del Rabatello, due strade sotto la nostra.
Oggi si direbbe che lavorava come colf; in realtà era qualcosa di più, era una persona di casa, quasi di famiglia.
Ritengo che fin dalla giovinezza avesse come dire, bazzicato, per casa, questa era almeno la conclusione che posso trarre da quanto mi sovviene riandando a ciò che dicevano mia mamma e mia nonna che la ricordarono sempre con grande ed immutato affetto.
Quando ancora piccolo, Nofria morì, lasciò cinque mila lire, forse tutti i suoi risparmi, pi lu picciliddru, così mi chiamava!  
Si chiamava Giuseppe Alessi, ma in paese era conosciuto come zi’ Peppe Puddricinu.
Era il mezzadro di mia nonna; mezzadro. Brutto vocabolo che rimanda ad ingiusti patti agrari di medioevale memoria e che, per certi versi, non rende giustizia alla sua figura, alla sua cultura contadina e alla sapiente autorevolezza. Caratteri che emergevano e che faceva valere, ogni qual volta c’era da prendere decisioni relative alla conduzione della terra.
Lo ricordo già anziano, in procinto di smettere di lavorare. I capelli bianchi, l’andatura un poco affaticata da anni di lavoro ma, sempre gentile e disponibile, in un rapporto fatto di vicendevole rispetto con mia nonna, la quale, come del resto faceva con i diversi mezzadri che si succedevano, gli si rivolgeva sempre con il voi.
Ero ancora un bambino, u zi’ Peppe mi faceva salire in groppa al mulo, sistemandomi davanti a lui, e iniziava il viaggio, bellissimo, verso il Piriposto.
Giovanna Vola Vola, di lei mi sfugge il cognome, ricordo solo il nome e l’ingiuria che, fra l’altro, le si addiceva perfettamente. Piccola sempre affaccendante e sempre in movimento, quasi di corsa, sembrava proprio volare sui selciati.
Come tutti parlava quasi esclusivamente siciliano, l’italiano era una grande fatica, lingua delle carte e del Governo, che però utilizzava in modo scolastico generando espressioni inconsuete quasi accademiche. Quando parlava di suo marito, Giovanna lo definiva il mio sposo, espressione corretta, ma che alle mie orecchie suonava inconsueta ed antiquata.
Giuseppe Guarino, del Rabatello, fu l’ultimo mezzadro di nonna. Un grande sorriso, occhi vivi, un paio di calzoni di velluto, una mano che solleva il berretto a darsi una grattatina alla testa prima di prendere una decisione o esprimere un parere. Le parole avevano valore!
Gli sono debitore della grande fiducia che accordò ad un ragazzino di circa dodici anni, cittadino e ignorante di animali e di cose di campagna, acconsentendogli di fargli cavalcare da solo un mulo vincendo timori e rimostranze della nonna.
Donna Pippineddra, ‘n zi preoccupassi, la vistia manza è…, disse per tranquillizzare mia nonna.
Due veloci spiegazioni, monto in groppa, una pacca sul collo, l’animale ubbidiva. Mi insegnò a rispettarlo, a mettergli la vardeddra, montarlo a pelo.
Ero orgoglioso di rendermi utile, trasportare bisacce di mandorle, accudire l’animale, sellarlo, condurlo all’abbeverata.
Conservo una fotografia che mi mostra, fiero nel mio far-west, cavalcare accanto a Giuseppe Guarino.

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