Personaggi di storia locale
Fra’ Rosario di Sutera
Notizie sul frate cappuccino secolare Salvatore Anzalone, nato a Ventimiglia Sicula e morto a Sutera
Le notizie riguardanti la sua famiglia sono scarse poiché il personaggio, oltre ad essere alquanto schivo, riservato, non disponeva di un vocabolario variegato atto a sostenere un colloquio; si esprimeva prevalentemente adoperando una forma di dialetto siculo a volte incomprensibile, era totalmente analfabeta. A volte alle insistenti richieste per avere notizie del suo passato rispondeva con una strana tiritera: "nun ti dicu d'unni vignu e d'unni vaiu, ma sacciu ca a quattru vintini c'è tuppiari". Sorge un dubbio: è stata una premonizione o casualità? Anzalone è morto a 78 anni.
Solamente più tardi, e per de relato, si è appreso dai padri cappuccini che Salvatore apparteneva ad una povera e numerosa famiglia, che ben volentieri ha acconsentito a che Salvatore fosse affidato ai monaci del convento di Caccamo (PA), i quali, appunto, cercavano un personale di fatica per recuperare e spaccare la legna per i bisogni del monastero.
Salvatore si dedicava anche a riparare ombrelli, vasellame, ma soprattutto coroncine del Rosario: con gli ossi delle olive confezionava i grani, infilzandoli con un esile fil di ferro o spago, e con gli ossi delle nespole le interdecine.
Le dava gratuitamente man mano che riusciva a confe¬zionarle e così nel convento, dopo il biennio di prova, per gratificarlo, al momento di ricevere cotta e saio fu chiamato Frate Rosario. Prima di arrivare a Sutera, fu ospite presso i conventi di Bisacquino e Castronovo, così come, più tardi, mi è stato detto dai nostri padri cappuccini Basilio e Daniele Carruba. A Sutera, frate Rosario venne più comunemente chiamato "fra' Rusariu" o " fra' Rusà ".
Ed è qui che è iniziata la mia quasi quotidiana frequentazione con il frate, che nei miei ricordi va dal 1935 al 1942, anno della sua morte.
Tale conoscenza è derivata dal fatto che mia madre, terziaria francescana, per procurargli un po' di ristoro, durante il suo consueto giro per il paese gli offriva una sedia ed un bicchier di acqua. Fra' Rosario, claudicante per una congenita forma di zoppìa, girava con una "virtula" a tracolla ove riponeva fette di pane, frutta e qualche biscotto, frutto della questua. Non accettava mai offerte in denaro; di denaro non ne ha mai posseduto; entrava ovunque e, o per consuetudine o per ingraziarsi una buona accoglienza, esordiva subito con il rituale saluto francescano: pace e bene, o con la esortazione "Gisù e Maria". E se la conseguente risposta tardava, la suggeriva lui: - ora e sempri.
Parimenti, fra' Rosario amava intrattenersi con i piccoli per i quali aveva escogitato un efficace metodo per avvicinarli: in cima al suo bastone aveva sistemato (formando una T) un comune tubo di circa 10 cm all'interno del quale aveva sistemato un'ancia, recuperata da una trombetta di plastica. Avvicinando, ora qua ora là, qualche gruppetto di ragazzi, l'invitava a soffiare per udirne il suono. Per noi ragazzi era un divertimento, per il frate una maniera di chiedere notizie delle varie famiglie: cu è to pa’, cu è to ma'; ci va’ alla duttrina?
A volte ricorreva, nel dare qualche lacunosa risposta, all'arguzia, alla facezia; come quando una signora si era lagnata perché il piatto grande, fangotto, che lui aveva riparato senza stuccarlo bene (per cui il brodo di carne versato in quel piatto era travasato fuori) fra' Rosario le rispose: e tu la prossima vota éttacci li cavatuna!!!
Gli ombrelli li riparava, ma non ne possedeva; non era infrequente vederlo procedere sotto la pioggia ed al richiamo premuroso di qualcuno, come: fra' Rusà, nun lu vidi ca si vagna? Nenti ci fa,rispondeva, ora lu suli m'asciuca.
Fra' Rusariu di solito partecipava a tutte le processioni, mentre era in buona salute e spesso nelle principali ricorrenze, indossata la cotta e reggendo la croce, ne diventava il crocifero, fino a quando con il passare degli anni e per l'aggravamento della zoppìa si disponeva per ultimo, senza più né cotta e, soprattutto, né croce.
Stanco, si riposava ove era possibile, recitando qualche posta del Rosario, sgranando una lunga e grossolana corona che gli pendeva sul fianco destro.
Pregava adoperando sempre il suo antico dialetto; ricordo a malapena e non per intero l’Ave, o Maria ed il Pater Noster:
Diu mi sarvi o Maria
Matri di Cristu e matri mia
Biniditta tu
E binidittu Gisu’
Prega ppi nnu'
Ora e sempri.

Patri nosciu
Ca ‘ncielu stai
Liberacci sempri
Di tutti li guai
Ora e sempri,
Dunacci lu pani
E sia fatta la vuluntà
Di lu Patri, Figliu e Spirdu Santu.
Ma, ahimé, da lassù, le sue preghiere non hanno avuto una buona accoglienza, o verosimilmente lo si è voluto mettere a dura prova, per una sua futura maggior gloria. Ecco i fatti, anzi il fattaccio:
Correva voce che i padri francescani del monastero di Sutera, prima di abbandonarlo, avessero nascosto, in un remoto sito, dei marenghi di oro e argento allo scopo di sottrarli alla confisca dello stato italiano per gli effetti della legge detta «delle guarentigie» del 1871, la quale prevedeva l’esproprio dei beni appartenenti alla chiesa cattolica, e si vociferava anche che quell'innocuo, inetto ed inerme fraticello (fra' Rusariu), superstite, ne fosse «sapituri».
Allorquando i padri francescani decisero di abbandonare il convento, constatata la risoluta opposizione di fra' Rosario a trasferirsi nel monastero di Bivona, furono costretti a cercare un tutore per l'affidamento che viene trovato nella persona del sacerdote più anziano del clero sute-rese, tale Don Michela Diprima.
Ma fra' Rosario pagherà cara la scelta di vivere solo in convento: quella diceria, circa il tesoretto, allettò un paio di malavitosi per cui, in una brutta nottata, lo sorpresero ed a suon di bot¬te hanno intimato, a quella fragile creatura, di indicare ove fosse riposto il presunto tesoro. I furfanti, viste vane le minacce e le botte, hanno desistito, non prima di avergli asportato l'unico bene di cui di¬sponeva: un vecchio orologio.
Per giorni fra' Rusa’ non si è più visto in paese. Don Michele, allarmato, manda il giovane sacrista Totò Nicastro a fare una ricognizione: fra’ Rosario viene rinvenuto steso sul suo giaciglio di crine, tumefatto in più parti, un occhio pesto, smarrito e aggrappato a quella lunga corona del Rosario, appesa al cordone del suo vecchio saio (maggio 1938).
Subito fu disposto, dal suo tutore, il trasferimento in paese, ove fu al¬loggiato in un antro buio, privo di ogni servizio, sito in via Sant'Agata. Qui ha ricevuto tanta solidarietà quotidiana, ma non si è più ripreso.
Fra' Rosario muore nel 1942 all'età di 78 anni.
Più tardi ho appreso, dallo stesso Don Michele, che fra' Rosario in punto di morte si fosse sfilata la corona, che per una vita aveva custodita al suo fianco, per fargliene dono ; come se avesse voluto far intendere " te l'affido, a me non serve più: con la Vergine Maria ora potrò parlare tutti i giorni in cielo".

Giuseppe Ippolito