Invito
alla riflessione
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In
Paolo Borsellino la legalità s’intrecciò effettivamente con la
giustizia
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La
sua “giurisprudenza” non si risolse soltanto in dottrina
giuridica e non fu meramente teorica, attenta cioè esclusivamente
alla lettera dei codici e ai cavilli che vi si nascondono. Il suo
sapere giuridico, piuttosto, fece tutt’uno con il suo vissuto di
persona giusta, la sua osservanza delle leggi fu l’abito di cui si
rivestiva la sua interiore giustizia. Fu così che la legalità,
nella sua vicenda - come in quella di Giovanni Falcone e di tante
altre vittime innocenti delle mafie -, non si travisò in retorica e
men che meno degenerò in tornaconto carrieristico, ma s’intrecciò
effettivamente con la giustizia
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Fu
il più giovane giudice italiano, quando – nel 1963 – vinse il
concorso per entrare in magistratura. Da lì in avanti avrebbe
maturato un’esperienza grandissima, specialmente in materia di
reati di stampo mafioso. Dico “esperienza”, mentre penso a Paolo
Borsellino, perché la sua “giurisprudenza” non si risolse
soltanto in dottrina giuridica e non fu meramente teorica, attenta
cioè esclusivamente alla lettera dei codici e ai cavilli che vi si
nascondono. Il suo sapere giuridico, piuttosto, fece tutt’uno con
il suo vissuto di persona giusta, la sua osservanza delle leggi fu
l’abito di cui si rivestiva la sua interiore giustizia. Fu così
che la legalità, nella sua vicenda – come in quella di Giovanni
Falcone e di tante altre vittime innocenti delle mafie -, non si
travisò in retorica e men che meno degenerò in tornaconto
carrieristico, ma s’intrecciò effettivamente con la giustizia.
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È
per questo motivo che hanno parimenti ragione coloro che lo ricordano
come un eroe della legalità e quelli che invece cominciano a
reputarlo un vero e proprio martire della giustizia, nell’accezione
peculiarmente cristiana che all’espressione diede Giovanni Paolo II
quando, nel maggio 1993, durante un suo viaggio apostolico in
Sicilia, riferendosi al “giudice ragazzino” Rosario Livatino,
ammazzato dalla mafia agrigentina nel 1990, parlò appunto dei
“martiri della giustizia e, indirettamente, della fede”.
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È
certamente opportuno salvaguardare la distinzione tra eroismo civile
e martirio cristiano, senza però esasperarla in distanza. Per
riuscirvi bisogna ricomprendere il senso del martirio cristiano nel
quadro della moderna secolarizzazione, la quale – nell’Occidente
di antica ma svigorita tradizione cristiana – ha metabolizzato così
a fondo le istanze evangeliche da giungere a concepirle quasi
“naturalmente”, in termini ormai impliciti, non più
consapevolmente riferiti all’esempio di Cristo. Si pensi allo
slogan attribuito a Voltaire – “Non la penserò mai come te, ma
sono disposto a morire affinché tu dica il tuo parere” – che,
mentre assimila l’insegnamento di Gesù secondo cui occorre porgere
l’altra guancia e amare anche i nemici, rende paradossalmente
superflua o almeno improbabile la possibilità di essere uccisi –
in un Paese come l’Italia di oggi – a causa delle proprie
convinzioni d’ordine religioso.
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In
una tale situazione culturale l’intreccio tra legalità e giustizia
impersonato da Borsellino mi pare giunga a tradursi in una
testimonianza molto significativa.
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La
legalità si può considerare come la facciata esterna di un
monumentale palazzo che ha la sua parte più bella nelle stanze più
interne. Ma si sa: una facciata non sempre corrisponde a ciò che sta
dietro.
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Si
può dare addirittura il caso di una facciata che non ha nulla
dietro, puntellata debolmente come le scene cartonate di un teatro,
destinata prima o poi a cadere e a svelare il vuoto che nasconde.
Oppure, più ottimisticamente, pur annerita dallo smog e usurata dal
tempo, una facciata può custodire inopinate bellezze. Insomma, si
possono immaginare legalità e giustizia rispettivamente come la
facciata esterna e come le dimore interne di una casa. O, per
tradurre la metafora, come il viso e come il cuore di una persona.
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Legalità
e giustizia esprimono le due dimensioni etiche, diverse e tuttavia
complementari, dell’essere umano. Del resto, la parola ethos,
in greco, si scrive in due modi, facendola iniziare con due diverse
lettere dell’alfabeto: con la epsilon e
con la eta.
Nel primo caso significa “abito”, modo di vestirsi, modo pubblico
di comportarsi; nel secondo caso significa “abitazione”, modo
privato di vivere. L’esteriorità deve affondare le radici
nell’interiorità, il come etico
dell’essere umano deve esprimere il suo essere etico,
la sua condotta deve corrispondere alla sua coscienza morale. Di
conseguenza la legalità deve radicarsi nella giustizia, dev’essere
la prassi concreta ed efficace che dà visibilità e credibilità al
valore fondante della giustizia.
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L’integrazione
fra legalità e giustizia mette la prima al riparo dal rischio di
essere solo una posa di facciata. E di abortire nel suo contrario,
cioè nella corruzione.
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Che
è ciò che Papa Francesco ha detto stando in mezzo alla gente di
Scampia, a Napoli, nel marzo 2015: “È una tentazione, è uno
scivolare verso gli affari facili, verso la delinquenza, verso i
reati, verso lo sfruttamento delle persone. Una cosa corrotta è una
cosa sporca… e puzza anche. La corruzione puzza! La società
corrotta puzza! Un cristiano che lascia entrare dentro di sé la
corruzione non è cristiano, puzza”.
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E
anche Borsellino, direi non a caso, parlando nell’atrio della
Biblioteca Comunale di Palermo – il 25 giugno 1992, un mese dopo
l’assassinio di Giovanni Falcone e qualche settimana prima di
essere a sua volta ucciso – affermò: “La lotta alla mafia, il
primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e
disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di
repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse
tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte –
proprio perché meno appesantite dai condizionamenti e dai
ragionamenti utilitaristici che fanno accettare la convivenza col
male – a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà
che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza,
della contiguità e, quindi, della complicità”.
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Massimo
Naro
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(SIR,
19 luglio 2018)