La battaglia di Passu Funnuto del luglio del 1943

Gli italiani respinsero per un intero pomeriggio l’attacco americano

La testimonianza di un eroico carabiniere


Nel luglio del 43 la terza divisione USA, dopo aver annichilito la difesa italo-tedesca lungo la zona costiera della Sicilia, inizio ad avanzare nell’entroterra Agrigento-Aragona-Comitini fino a giungere in località “Passo Funnuto” dove si scontrò con un gruppo di Camice nere equipaggiate con mitragliatrici Fiat e pezzi da 149 riuscirono a respingere l’attacco USA per un intero pomeriggio e scappando poi la notte. 

Questa la testimonianza di un eroico carabiniere

La piazza e la via principale che attraversava il paese brulicava di macchine da guerra. 

I soldati americani adescavano le persone che, timidamente prima e più rassicurate e numerose poi, li attorniavano, distribuendo a tutti caramelle cioccolatini sigarette: era in verità un bizzarro sistema di fare la guerra! In cuor mio piangevo al vedere quella gente da me sempre protetta e aiutata, umiliarsi in tal modo per effimeri compensi. 

Il soldato Aquino, salito su un carro armato, mi chiese ancora una volta se fossi a conoscenza di eventuali armate tedesche sulla via per Campofranco che stavano per intraprendere. 

A chiare note gli risposi: “Ti ho detto che non so nulla essendo da otto giorni senza comunicazioni; tu hai i tuoi strumenti di osservazione, hai le armi, cos’hai dunque da temere?”. 

A quel punto dalla folla che nel frattempo si era attorniata partì una voce: “Ci lu dicissi c’à Passu Funnutu ci sunni li cannuna! Ci lu dicissi!”.

Voltandomi notai che la stessa frase me la ripeteva a voce più alta e quasi con ira un tale Scozzaro da Campofranco che stava a mio contatto di gomito: gli pestai un piede ingiungendogli di farsi gli affari propri e di allontanarsi, invito che estesi agli altri che gli stavano intorno e mi sollecitavano. 

Guardai gli americani cercando di scorgere l’effetto che in essi aveva prodotto quel breve dialogo fatto in dialetto; ed ebbi l’impressione che qualcuno di loro aveva capito.

Gli automezzi mossero avviandosi secondo il loro itinerario sulla strada Jannigallo-Amorelli- Casteltermini stazione-Campofranco. 

Dalla gente che riuscivo tuttavia a dominare, ottenni pieno rispetto dei miei ordini e tutti presero ad allontanarsi in silenzio; solo un timido applauso si levava a favore della poderosa colonna in partenza, quello di un mezzo scemo, che con un semplice scappellotto fu tolto di mezzo.

Appena l’ultimo automezzo scomparve nella polvere della strada, con il cuore in tumulto e pieno di neri presentimenti, corsi a rassicurare la mia famiglia. Volli riabbracciare mia moglie quella cara fanciulla di Ciminna, costretta a condividere con me così gravi peripezie ed i nostri bambini, ricchezza unica del nostro pur felice matrimonio.

Ero stato forse un irresponsabile? E pensai che forse li avrei lasciati per sempre.

Trovai in lacrime Lei e mia madre, e con loro, affranti e preoccupati tutti gli altri: sorelle cognati fratelli; tutti ad esortarmi a rifocillarmi, sapendomi a digiuno da tanto tempo e notando il mio stato di grande tensione.

Non avevo la forza di mangiare: un nodo mi serrava la gola e mi sentivo tutto scombussolato e in balia di un grande sconforto.

Arrendendomi alle insistenze di mia moglie – che mi parve invecchiata di 10 anni in quelle ore in cui eravamo stati separati – riuscivo a sorbire un paio di uova e a bere un po’ di brodo caldo.

Quando improvviso s’udì un nutrito fuoco di artiglieria dalla parte del Platani, seguito da raffiche di mitragliatrice. 

Era avvenuto l’irreparabile: la postazione di artiglieria di cui ventiquattr’ore prima mi aveva parlato l’ufficiale italiano venuto a Milena, aveva opposto resistenza agli americani in avanzata; come si poté notare da un enorme polverone sollevato sulla strada in forte pendenza. 

La grossa colonna – presa di sorpresa – non accettando il combattimento, ritornava per quella stessa via che poco prima aveva con orgogliosa sicurezza percorsa in discesa.

Si poté difatti scorgere la colonna ritornare verso il paese su per la serpeggiante strada ben esposta alla vista.

Non ebbi più dubbio alcuno sul fatto che sarei stato chiamato responsabile di quanto avvenuto. Non tremai ma ebbi la certezza che quanto mi aspettava non sarebbe stata cosa piacevole; strinsi a me i miei cari pensando che quello poteva essere l’ultimo mio saluto, e corsi verso il centro, mentre il carabiniere Sciuto, che mi veniva incontro da lontano, mi faceva segno di ritornare, urlando che gli americani erano tornati in piazza e chiedevano di me. 

Il carro armato MEDIO M4 era armato di un cannone da 75 mm e tre mitragliatrici: una coassiale, l’altra di prua da 7,62 mm e una terza da 12,7 mm per la difesa contraerei.

Avviandomi verso il centro urbano si unì a me il segretario comunale Lupo che finalmente lasciava il suo ufficio del municipio.

In piazza era stato messo in scena uno spettacolo del tipo di quelli che in seguito se ne poterono contemplare nelle pellicole americane di guerra 

La grande piazza era del tutto sgombra. 

Otto carri armati e molte autoblindo facevano quadrato, e gli sbocchi delle vie che vi affluivano erano presidiate da soldati dal fiero aspetto, immobili sulle gambe divaricate e con le armi puntate al centro, certamente in attesa del responsabile della ostacolata avanzata. 

Tra la sede del dopolavoro e la bottega della vedova Mantione, su uno dei carri armati stavano dietro una mitragliatrice spianata dei soldati dall’enorme elmetto.

Un tale spiegamento di forze non mi fece bene sperare. Sulla via proveniente dal mulino si poteva notare una piccola folla di gente: chi visibilmente impaurito, chi sghignazzante, chi semplicemente curioso: tutti in attesa certo di eventi straordinari. 

Con la calma che fui capace di impormi, seguito sempre dal Lupo, mi avviai verso il mio ufficio.

Davanti la porta della caserma vi era per terra la radioricevente in dotazione alla stazione: un soldato in atteggiamento aggressivo e l’arma spianata, al vedermi spinse la porta e blaterò nella sua lingua qualcosa. 

Venne fuori un altro militare, forse un ufficiale, il quale mi intimò a gesti di alzare le mani.

Finsi di non capire: era umiliante, io che per oltre nove anni, avevo, comandante di quella stazione, compiuto in ogni circostanza sempre e solo il mio dovere venendo non a parole ma con i fatti “incontro al popolo”, avrei dovuto alzare le mani come un comune delinquente sulla pubblica piazza ed al cospetto di quella stessa gente che in me aveva riposto con il massimo rispetto ogni fiducia: fui preso da una collera mai sino ad allora provata e un moto di intesa ribellione s’impadronì di colpo di me. 

Pensai a mia moglie che nel suo forte abbraccio m’aveva bagnato il petto delle sue lacrime, ed ai nostri bambini che aggrappati alle mie gambe gridavano: “papà, papà non te ne andare”. 


Di fronte a quell’arma contro di me spianata dovetti lasciarmi disarmare e fui costretto a salire su d’un automezzo, sul quale venne caricata la radio; e guardato a vista da otto soldati armati che mi trasportavano non sapevo dove. 

Non tremai, non essendo mia natura tremare, ma non speravo di essere trattato come prigioniero di guerra: per me si prospettava qualcosa di diverso. E dopo breve percorso sulla strada verso Jannigallo-Amorelli venni fatto scendere in mezzo ad un mandorleto nella campagna invasa da numerosi armati…

Da un radiotelefono che gracidava parole per me incomprensibili, un ufficiale trasmise forse notizie relative alla mia cattura e alle colpe a me attribuite. 

Difatti, dopo aver confabulato al telefono costui mi rivolse la parola e, indicandomi il punto dell’orizzonte in cui era avvenuta la sparatoria, apostrofandomi aspramente mi disse:

Tu germany… tu fascista… tu germany”.

Mi parve di capire tra l’altro – poiché accennava all’apparecchio radio deposto per terra – che secondo lui avevo avvertito i tedeschi, a mezzo di quella radio, della loro avanzata in quella direzione con l’intento di procurare loro i danni per colpa mia effettivamente subiti. 

Cercai di fare intendere a quello spietato accusatore che ero appartenente alla polizia militare italiana, ero un orfano della guerra combattuta contro i tedeschi, e non avevo notizie sull’esistenza in quel luogo di armati germanici: i soli – a quanto mi era dato di capire – ad essere da loro temuti. 

Giravo lo sguardo intorno e tra la folla intanto raccoltasi, vedevo visi ostili di gentaglia a me nota tra cui si trovava il bieco Davis e la meretrice che l’ospitava. La testa mi scoppiava e chiesi un’aspirina che mi venne data con un po’ di caffè (acqua di purpu). 

Dopo una conversazione al telefono della jeep, l’ufficiale mi fece accompagnare in ufficio, mi chiesero – presente l’italo-americano Amico – altre notizie sul mio territorio, riprendendomi l’ingiunzione di togliere dalla parete il ritratto di Mussolini, cosa che ordinai di fare ai miei dipendenti non appena fossimo tutti usciti.

Mentre si scendevano le scale interne, un altro militare veniva a confabulare con l’Amico: si trovava sulla stessa scala Carmelo Mattina, proprietario dell’appartamento che ospitava la vicina casa del fascio, il quale stava venendo a ringraziarmi per avergli fatto saldare la pigione con il pagamento delle mensilità arretrate da me sollecitate a chi di competenza in occasione della riunione scioltasi all’arrivo dei “liberatori”. 

Il Mattina, da buon cittadino, avendo ascoltato il colloquio dei due americani, parlandomi all’orecchio mi avvertì: “Stia attento che questi sono convinti di non potersi fidare di lei perché la ritengono un traditore”. 

I soldati avvicinarono poi un prete (Padre Girolamo Falcone, fratello dell’ostetrica del paese, Carmela, quella stessa che aveva assistito mia moglie in occasione dei quattro parti) al quale chiesero se vi fosse un ospedale, dovendo soccorrere alcuni loro militari feriti nello scontro poco prima avvenuto a “Passo Funnutu”. 

Nel riferirmi la cosa, il Mattina mi disse che in quello scontro gli americani avevano avuto danneggiati anche alcuni automezzi della colonna, che aveva fatto dietro-front davanti al fuoco degli italiani da loro ritenuti tedeschi. 

La mia posizione si faceva dunque più seria. 

Carmela Falcone regge il labaro tra un gruppo di donne. A sinistra la caserma a destra la casa del fascio. 

E mentre un ufficiale dal fiero aspetto e con aggressivo cipiglio mi muoveva le gravi contestazioni accusandomi di avere a mezzo di quella radio, che mi indicava, avvertito le postazioni di artiglieria del loro approssimarsi, d’improvviso fui costretto a voltarmi indietro udendo una fucilata alle mie spalle. 

Con vero spavento avevo notato che una specie di “gangster” sotto le spoglie di un soldato americano teneva ancora fumante in mano la sua arma rivolta verso l’alto perché il Mattina, afferrandogli il braccio lo aveva costretto a sparare in aria e nella sua stessa lingua l’aveva apostrofato, facendogli osservare che io non ero un traditore bensì il padre della popolazione alla quale avevo sempre fatto del bene. L’ufficiale poco si curò di richiamare l’impulsivo e focoso militare. 

Per il provvidenziale intervento dunque d’un buon cittadino, mi ero scansato una sicura morte, ma la mia posizione era pur sempre grave e pur preso di apprensione fui lieto di essere scampato ad una fine ingloriosa. 

Debbo subito dire come fossi rimasto grato al mio salvatore, che in seguito –quando ne ebbi la possibilità – lo ricambiai, riuscendo ad ottenergli il passaporto per sé e per i propri figli, nonché il visto per poter ritornare in U.S.A., tutte cose in quei momenti difficili. Il pomeriggio di quell’infausto 17 luglio del 1943 scampai dunque alla morte. Il sottufficiale, cambiando improvvisamente parere, per quella sera mi lasciò libero.

Prima di stendermi su di un letto trovato vuoto in una camera che dava sulla piazza, volli riunire tutti i documenti redatti in quei giorni di caos assicurando tutto unitamente ad un rapporto regolarmente firmato e posto in un astuccio metallico che andai a collocare in una anfrattuosità del muro rustico di un piccolo andito che portava al soffitto, una specie di colombaia che ci aveva fornito in gran copia i piccioni. 

Era presente un carabiniere richiamato, Farulla, (che mai più dovevo rivedere come pure per quante ricerche ne abbia fatto poi rividi questi documenti, né le armi nascoste in giardino, né i registri e i documenti sepolti al cimitero, né la bandiera tricolore pure nascosta).

Vestito com’ero quella sera mi lasciai andare dunque sul letto in cui riuscivo a dormire poco e male 

Elio Di Bella

(“Agrigento ieri e oggi - Storia Sicilia”, 30 aprile 2017)