Il ficodindia e l’oro del Marocco
Crescono le colture specializzate in Sicilia
Il ficodindia o fico d’India, dal latino Ficus Opuntia, è una pianta grassa appartenente alla famiglia delle cactacee che gli antichi romani riscontrarono in una città dell’antica Grecia chiamata appunto Opunte.
Tuttavia il Ficus Opuntia originario da Opunte, sebbene appartenente alla stessa famiglia, nulla ha a che vedere con l’attuale fico d’India, che è di origine esclusivamente americana, in quanto portato in Europa dagli antichi galeoni spagnoli.
Quest’ultimi, fuorviati da Cristoforo Colombo che credette di sbarcare sulle coste orientali dell’India, chiamarono l’opuntia Ficus il ficodindia.
Il ficodindia si propagò subito in tutti paesi del Mediterraneo, specialmente in Sicilia, Tunisia e Marocco. Ed è in quest’ultimo paese dove sono realmente accaduti i fatti che mi accingo a raccontarvi. Un piccolo e povero villaggio dell’entroterra marocchino stava per essere inghiottito dalle sabbie del deserto. Gli abitanti del villaggio, per lo più donne e bambini, in quanto gli uomini erano quasi tutti emigrati, molto preoccupati per l’avanzata del deserto, chiesero aiuto ai loro governanti, i quali immediatamente inviarono un camion carico di “Pale di ficodindia” da collocare attorno al villaggio, al fine di arginare l’avanzata del deserto. Queste furono subito collocate attorno al villaggio con risultati eccellenti. Nel giro di pochi anni le piante, non solo crebbero formando un vero baluardo contro l’avanzata del deserto, ma iniziarono a fruttificare talmente tanto da superare di gran lunga il fabbisogno locale. Pertanto le donne del villaggio richiesero nuovamente l’aiuto del governo, al fine di sfruttare questa inaspettata risorsa. Un esperto inviato dal governo marocchino, valutata la grande abbondanza di frutti, si prodigò al fine di far realizzare sul posto una piccola fabbrica per la produzione di confetture di marmellata di ficodindia, gestita dalle donne del villaggio.
Tuttavia, quest’ultime si accorsero che venivano sprecati e buttati via ingenti quantità di semi di ficodindia. Anche questo problema fu prontamente risolto dal buon governo marocchino che inviò sul posto una specie di torchio per la spremitura dei semini. Il risultato fu che da un banale frutto che doveva servire per arginare il deserto, non solo si producevano confetture di ottima marmellata, ma anche un pregiatissimo e costosissimo olio che di norma viene utilizzato per la cosmetica. Praticamente, ad eccezione delle bucce, nulla veniva sprecato di quel prezioso frutto. Tuttavia, un giorno, qualche donna si accorse che anche le bucce erano particolarmente appetite dalle poche caprette che qualche famiglia possedeva, giusto per la sopravvivenza. Le poche scheletriche caprette, super alimentate dalle bucce, cominciarono a moltiplicarsi ed a produrre tanto latte da superare il fabbisogno familiare. Ancora una volta il buon governo del Marocco, dove probabilmente non esiste la nostra burocrazia, si prodigò per la realizzazione di un caseificio per la produzione di un rinomato formaggio al gusto di ficodindia.
In conclusione le donne, del villaggio per poter espletare tutte le nuove mansioni, furono costrette a richiamare i loro mariti emigrati, mentre altri villaggi che avevano lo stesso problema iniziarono anch’essi ad impiantare piante di ficodindia.
Bisogna dire che anche in qualche paese della Sicilia è avvenuto un miracolo simile. A San Cono, piccolo paesino del catanese, confinante con Mazzarino, sin dagli anni ’80, gli abitanti avevano cominciato a sostituire i campi di grano con le piantagioni di ficodindia. Oggi in quel paese non esistono più né allevatori né contadini, ma produttori di ficodindia, che esportano non solo in Italia, ma anche all’estero.
In un altro paesino alle pendici dell’Etna, Santa Venerina, gli abitanti si sono specializzati a ricavare dalla spremitura e bollitura del ficodindia un pregiato liquore.
In un altro paesino addirittura utilizzano anche le bucce del ficodindia per fare gustose frittelle impanate. Per non parlare di quei paesi dove annualmente si effettuano delle sagre per la degustazione del ficodindia e di altri prodotti locali che contribuiscono notevolmente alle economie locali. Purtroppo a Sutera, dove sebbene gran parte del territorio è di natura calcareo-gessoso, quindi particolarmente idoneo alla coltivazione del ficodindia, nessuno ha pensato a sfruttare questa risorsa, tranne il sottoscritto, il quale da alcuni anni, nel suo piccolo podere sito in contrada San Marco, si è dedicato alla coltivazione del ficodindia tardivo, utilizzando il metodo della cosiddetta “scozzolatura scaglionata”, riuscendo in tal modo ad ottenere frutti di ficodindia dal mese di agosto sino al periodo pasquale. Tuttavia per riuscire a far maturare i frutti che fioriscono nel mese di dicembre è necessaria la tecnica della “copertura”, la quale consiste nel coprire con delle semplici buste di plastica i frutti tardivi, che altrimenti verrebbero consumati dal gelo o divorati dagli uccelli. Da ricordarsi a fine raccolta di non disperdere le buste di plastica nell’ambiente.
Per ottenere frutti un po’ più grossi è importantissima l’innaffiatura e la concimazione, ma per chi non possiede acqua e relativo impianto d’irrigazione, può sempre affidarsi al metodo patriarcale. Esso consiste nell’ammucchiare in piccole cataste, alla base delle piante madri, tutte le pale superflue precedentemente “scozzolate”, che altrimenti radicherebbero, sottraendo sostanze nutritive alla pianta madre. Al fine di accelerare il processo di decomposizione, le piccole cataste vanno ricoperte con teli impermeabili scuri o anche con semplici cartoni. Nel giro di pochi mesi, tutta le cataste si saranno trasformate in concime naturale, nonché in uno strano liquido maleodorante che impedirà alle piante madri di soffrire durante il periodo siccitorio.
Spero con quanto sopra di aver dato a qualcuno una mezza idea di come sbarcare il lunario.
Salvatore Butera