Libri da leggere
“Popolo, democrazia, libertà.
L’impegno sociale e politico di Luigi Sturzo”
A cura di Massimo Naro
Don Massimo Naro, Lei ha curato l’edizione del libro Popolo,
democrazia, libertà. L’impegno sociale e politico di Luigi Sturzo pubblicato
dal Mulino. Nel titolo del libro riecheggiano le parole chiave di quello
che si può considerare un vero e proprio “lessico sturziano”: qual è il
senso profondo del popolarismo sturziano?
In effetti, il titolo del libro pone
in sequenza alcuni termini molto importanti, che si ritrovano disseminati nel
discorso sui Problemi della vita nazionale dei cattolici
italiani pronunciato nel 1905 da don Luigi Sturzo Sturzo
quand’era pro-sindaco di Caltagirone: appunto «popolo, democrazia, libertà».
Sono, come Lei opportunamente sottolinea, le parole-chiave di quello che
potremmo considerare un vero e proprio lessico sturziano, il vocabolario con
cui Sturzo esprimeva in pubblico il suo pensiero e il suo programma politico. E
sono proprio i termini che, messi a formare insieme un “discorso” politico,
esprimono il senso del popolarismo realizzato da Sturzo e poi ripreso anche da
De Gasperi. Soffermarci ad apprezzarne l’originaria semantica – con l’ausilio
dei contributi raccolti nel volume – ci può aiutare a riscoprire il significato
corretto di queste parole, anzi il senso più autentico, giacché oggi esse
rischiano proprio di rimanere svuotate di senso, oltre che deprivate di
significato, dentro la retorica politica.
Ciò non vuol dire soltanto recuperare l’etimo di
queste parole sorgivamente politiche: non sarebbe sufficiente, tante e tali
sono le metamorfosi culturali che ci separano dai tempi in cui esse
cominciarono a essere usate. Per esempio, considerare l’etimologia greca del
termine «democrazia» può portarci un po’ troppo semplicisticamente a parlare di
potere del popolo e, difatti, ci sono dei movimenti che nell’odierno confronto
politico si propongono di ridare «potere al popolo» per realizzare una
«democrazia reale». L’obiettivo di una vera democrazia è pienamente
condivisibile. Non è però chiaro cosa sia il popolo in una prospettiva del
genere: come ha insegnato Sturzo, dal suo punto di vista pluralmente classista
e perciò interclassista, il popolo non dovrebbe mai ridursi a una parte, a una
sola classe, ma abbracciare il tutto e quindi tutti. Per questo egli preferiva
qualificare la democrazia con aggettivi che ne potevano enfatizzare la portata
dialogica. Non a caso, tornando dell’esilio negli Stati Uniti, arrivò a parlare
in un’intervista televisiva di «democrazia solidale». Il popolarismo sturziano
rappresentava il “prodotto finito”, se così possiamo dire, dell’interazione
tra la realtà del popolo, inteso e organizzato secondo un
modello interclassista, nella cui configurazione le diverse componenti sociali
accettino di stare in rapporto reciproco e di cooperare tra di esse, l’aspirazione alla democrazia, vale a dire a un sistema
prima elettorale, poi politico e infine amministrativo, capace nel suo
complesso di valorizzare la rappresentanza di ciascun cittadino e di ogni parte
sociale, e la tensione alla libertà, che è
l’ideale fondamentale d’ogni impegno politico degno d’esser considerato tale,
basato su un programma serio e concreto d’impronta autenticamente riformistica.
Una concezione del popolarismo simile, ispirata
anch’essa da una visione cristiana del mondo, ha mostrato di avere papa
Francesco in alcune tra le più interessanti pagine della sua recente
enciclica Fratelli tutti, allorché insiste
nel mettere in guardia tutti dalla tentazione del populismo. Il papa, per la
precisione, non parla esplicitamente in questa sua nuova enciclica sociale di
popolarismo, ma si mantiene in continuità con l’insegnamento già prima proposto
nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium e
nell’enciclica Laudato si’, lì dove affermava il
principio secondo cui il tutto è maggiore non soltanto delle singole parti che
lo costituiscono ma anche della loro somma, quasi a dire che occorre
apprezzarne la sovreccedenza qualitativa prima ancora che quantitativa. Anche
alla realtà costituita dal popolo occorre rivendicare una tale sovreccedenza
qualitativa, essendo il popolo una realtà «poliedrica», come ama dire il papa
ricorrendo a un’immagine cui, metaforicamente, la sociologia più recente
associa proprio il concetto di coesione sociale. Sturzo non ne parlava ancora,
ma certamente – con la sua inclinazione all’interclassismo – avrebbe condiviso
la convinzione di Francesco circa la capacità del poliedro di tenere insieme
«il meglio di ciascuno». Il suo popolarismo, in fondo, si distingueva appunto
per questo dal populismo. E, d’altra parte, non si limitava a essere una sorta
di populismo buono, che per Sturzo non dovrebbe esistere affatto: il populismo
era per lui, in ogni caso, un disvalore. Non per niente, nel 1920, a Napoli,
durante il secondo congresso del Partito Popolare, definì il populismo di
destra e di sinistra come un «atteggiamento politico parlaiuolo e follaiuolo».
Quali vicende segnarono la breve esperienza del
Partito Popolare Italiano?
La durata del Ppi fu davvero breve, sviluppandosi ed
esaurendosi tra il 1919, allorché il 18 gennaio di quell’anno don Sturzo ed
altri suoi amici proclamarono a Roma l’Appello ai liberi e forti,
e il 1926, anno in cui cessarono ufficialmente tutte le sue attività e De
Gasperi dovette chiuderne i battenti. Questo pur esiguo giro di anni, tuttavia,
abbracciò numerosi avvenimenti che fecero della storia del Ppi una vicenda
molto più travagliata che breve.
Innanzitutto quelli drammatici che si svolsero sulla
scena politica nazionale, in un periodo in cui il Paese tentava affannosamente
di risorgere dalle macerie della Grande Guerra e di rivendicare un suo posto
nel nuovo scacchiere europeo. In Italia ci fu chi, come don Sturzo, si sforzò
di aprire un percorso per coinvolgere l’Italia in un internazionale progetto di
pace, e chi invece spinse il Paese verso un arroccamento nazionalistico che
covava già in sé l’aspirazione a un nuovo conflitto bellico. Funzionale a
quest’ultima prospettiva fu l’ascesa controversa e per molti aspetti drammatica
del fascismo, che arrivò rapidamente a posizionare i suoi esponenti tra i
banchi del Parlamento e a costituire persino il Governo, già nell’ottobre del
1922 guidato – potremmo dire anzi: impersonato – da Mussolini. In quel contesto
si svolse anche l’interlocuzione critica tra gli esponenti di spicco del Ppi,
in prima fila don Sturzo, e la Segreteria di Stato vaticana. Sappiamo come in
questo confronto serrato, spesso tenutosi in sedi appartate e tramite carte
riservate, il Ppi e lo stesso don Sturzo rimasero stretti tra l’incudine e il
martello. Fu una battaglia che infine il partito si rassegnò a perdere,
sciogliendosi. E di cui il suo fondatore dovette sopportare anche personalmente
le conseguenze, espatriando nel 1924, prima in Inghilterra e poi negli Stati
Uniti.
Importanti, però, furono anche gli avvenimenti interni
alla vita del Ppi. Tra questi si devono ricordare – per esempio – i congressi
annuali che furono fatti di volta in volta in varie città d’Italia, dal Sud al
Nord, a dimostrazione del fatto che il partito ideato e fondato da don Sturzo
aveva una indubbia portata nazionale e riusciva finalmente a convogliare le
istanze politiche e sociali che il movimento cattolico italiano aveva espresso
in maniera non sempre omogenea a cavallo tra Otto e Novecento.
È proprio in seno al partito che si sviluppò ciò che a
mio parere qualificò maggiormente la sua novità rispetto a tutte le altre forze
politiche italiane d’allora: vale a dire il dibattito, sempre acceso, mai
risolto una volta per tutte, sulla sua stessa «aconfessionalità», che era la
maniera sturziana di concepire la laicità dell’azione politica. In realtà,
l’aconfessionalità del partito non coincideva con la laicità della politica
come oggi la intendiamo. Secondo don Sturzo, i cristiani chiamati all’agone
politico, peraltro dentro un partito anch’esso d’ispirazione cristiana,
rimangono consapevolmente e convintamente tali, ma senza divise, senza
etichette, senza distintivi, senza bandiere, parlando la stessa lingua degli
altri soggetti politici, incontrandoli cioè sul loro stesso campo d’azione, nelle
scuole, nelle fabbriche, nelle zolfare, nei campi agricoli, nelle cooperative e
nei consorzi, nei consigli comunali e, finalmente, in Parlamento.
L’aconfessionalità, perciò, non era sospensione dell’atto di fede, né tantomeno
rinuncia al vangelo, che don Sturzo intendeva portarsi sempre dentro il petto,
come disse nel 1918, magari sgranando nel frattempo – da buon prete di
quell’epoca – il rosario con la mano destra infilata nella tasca della tonaca,
ma senza rinunciare a portare stretto sotto l’ascella il giornale con tutto lo
spessore “secolare” raccontato nelle sue pagine. L’aconfessionalità doveva
essere, semmai, una nuova postura e una nuova presa di posizione dei credenti
impegnati in politica: non più rintanati nel tempio o nei suoi paraggi (le famigerate
sagrestie), ma sospinti in piazza e, quindi, in seno alla città degli uomini.
Dopo la fondazione del Ppi, don Sturzo ribadì più
volte queste convinzioni, a cominciare dal suo discorso nel primo congresso
nazionale del partito, tenutosi a Bologna nel giugno 1919, dove spiegò perché
il Ppi non si chiamava “partito cattolico”, volendo appunto essere un partito
“non” cattolico eppure di ispirazione cristiana. Questo profilo alquanto
paradossale fece del Ppi un partito esposto a mille tensioni interne, a fraintendimenti
e a ripensamenti da parte dei suoi stessi sodali. Come fa notare in un capitolo
del nostro libro Giorgio Vecchio, sotto questo riguardo il Ppi rappresentò
un’unità politica del mondo cattolico italiano soltanto «fittizia». Infatti,
mentre don Sturzo insisteva sull’indole programmatica e riformistica del
partito – relativizzando quindi un’adesione dovuta esclusivamente a motivi
religiosi –, tanti accettarono di sostenere il Ppi come partito di tutti i
cattolici, mettendo invece al primo posto la condivisione della fede e la
prospettiva antiliberale e antisocialista e, perciò, relegando a un piano
secondario le questioni programmatiche. Fu questa un’incrinatura fatale, non
coerente alle intuizioni di don Sturzo, che accorciò di molto la vita del
partito. Per comprendere la parabola del Ppi, occorre tener presente questa
dialettica tra il popolarismo (immaginato laicamente da don Sturzo in senso
riformistico) e il Partito Popolare storicamente costituitosi: come ribadisce
più volte Vecchio, il popolarismo fu qualcosa di più e di diverso rispetto al
Partito Popolare.
In che modo la Democrazia Cristiana raccolse
l’eredità del popolarismo?
Quando si
svolse la vicenda del Partito Popolare il suo fondatore e chi lo accompagnava
in quell’avventura erano tutte persone in età matura con una esperienza
politica già forgiata nel crogiuolo della questione romana e, perciò, del
contrasto tra Stato unitario liberale e Santa Sede, un contrasto che
coinvolgeva ovviamente il movimento cattolico italiano. Don Luigi Sturzo era
nato nel 1871, Alcide De Gasperi nel 1881, tanto per citare due soli esempi.
Invece gli esponenti di spicco della Democrazia Cristiana, il nuovo partito
sorto sul finire della seconda guerra mondiale, negli anni del Ppi erano tutti
ancora bambini o poco più: di nuovo per esemplificare brevemente, si pensi a
Paolo Emilio Taviani nato nel 1912, a Mariano Rumor nato nel 1915, ad Aldo Moro
nato nel 1916, a Giulio Andreotti nato nel 1919. Questi semplici dati
anagrafici ci lasciano intuire che il salto generazionale tra le due diverse
classi dirigenti politiche ebbe inevitabilmente un suo peso, inducendo alcuni
democristiani a superare da subito le posizioni politiche che avevano connotato
il programma popolare. Si pensi a Giuseppe Dossetti, nato nel 1913, che in seno
alla Dc capeggiò una corrente nettamente progressista, che intendeva la
presenza e l’impegno dei cattolici in politica in termini diversi persino
rispetto all’aconfessionalità sturziana. E analoga osservazione si potrebbe
fare in riferimento a un altro democristiano come Giorgio La Pira,
anagraficamente un po’ più anziano di Dossetti. Questo vale anche per alcuni
esponenti che del popolarismo sturziano erano stati convinti e consapevoli
fautori, primo fra tutti De Gasperi, che pure dovette rimodulare il profilo
politico della Dc rispetto a quello del Ppi, vivendo delle significative
tensioni nel suo rapporto con don Sturzo, suo antico leader e amico. E in
questa scia seguirono De Gasperi alcuni giovani democristiani, come Taviani e
Andreotti. Faccio notare questo per dire che la questione dell’eredità
transitata dal popolarismo sturziano alla Dc non si lascia schematizzare
facilmente.
Paolo Acanfora, nel volume cui qui stiamo facendo
riferimento, spiega efficacemente che la Dc fu sin dai suoi inizi quasi
refrattaria a prendere in consegna il lascito del popolarismo sturziano.
Resistendo innanzitutto ad accogliere tra i suoi ranghi lo stesso don Sturzo,
reduce dall’esilio: il suo piglio autorevole, più precisamente “autoriale”
rispetto al programma di un impegno politico e partitico dei cattolici
italiani, era avvertito più come un ingombro che come una risorsa. Sturzo era
stato e rimaneva un maestro del pensiero democratico-cristiano, ma restava
quasi estraneo a quello democristiano. In particolare la sua diffidenza verso
lo statalismo confliggeva con certe posizioni assunte da giovani democristiani
come Dossetti e La Pira e, dietro di loro, di molti altri democristiani anche
non afferenti all’indirizzo dossettiano.
Nondimeno non si può negare una certa continuità tra
il programma popolare di don Sturzo e la concezione politica democristiana
della prima ora, peraltro filtrata nel testo della Costituzione italiana. Si
pensi, per esempio, all’idea del regionalismo e dell’autonomia speciale
riconosciuta ad alcune regioni. Ma si pensi anche alla idiosincrasia nei
confronti dei totalitarismi, destrorsi o sinistrorsi che possano essere, che
pure ha informato per decenni l’azione politica della Dc.
Come si sviluppava la proposta costituzionale
del sacerdote di Caltagirone?
Giustamente
Andrea Piraino, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università
di Palermo, nel suo contributo al volume, ricorda che don Sturzo fu un
«costituzionalista non titolato» – come lo stesso prete siciliano si
autodefiniva –, spiegando che egli, ponendosi da autodidatta alla scuola ideale
di pensatori di matrice cristiana come Gioacchino Ventura, Antonio Rosmini e
Giuseppe Toniolo, elaborò innanzitutto una serrata critica alla sovranità
assoluta dello Stato moderno. In tal senso, don Sturzo fu anti-statalista, o
più precisamente contrario all’invadente e invasiva sovreccedenza dello Stato
nella vita del Paese reale, perciò piuttosto “anti-centralista”. Per questo fu,
di converso, fautore di un ordinamento sociale e amministrativo che partiva dal
basso, dotando di valore gli enti locali, dal municipio alla regione, e
rievocando i principi ispiratori di un certo costituzionalismo
contrattualistico, capace di salvaguardare non solo la sopravvivenza ma anche
l’incremento delle libertà individuali. L’accordo tra le parti e gli enti
sociali era per lui un fattore fondamentale per la vita del Paese e doveva
perciò essere adeguatamente codificato.
In questa prospettiva, don Sturzo lottò non poco per
un verso – già nei primi decenni del Novecento – affinché venissero recepiti,
anche a livello di un eventuale nuovo ordinamento costituzionale, il
federalismo regionale e l’autonomismo, per altro verso – negli anni americani e
successivi all’esilio – affinché si ponessero le basi per scongiurare in Italia
la deriva della centralizzazione della spesa pubblica di stampo keynesiano. La
sua tendenza anti-centralistica, però, oltrepassava l’ambito politico ed
economico e si estendeva anche a quello del sistema formativo ed educativo,
quindi al mondo della scuola. Insomma, per lui erano fondamentali le comunità
di base, se così possiamo dire: dalla famiglia alla scuola, dal municipio alla
cooperativa. Il famoso Programma municipale lanciato
a Caltanissetta, nel cuore della Sicilia, nel 1902, si può reputare a tal
proposito una sorta di manifesto di questa sua peculiare intuizione
“costituzionale”, cui rimase fedele sino alla fine.
Di quale attualità è la lezione di don Sturzo?
Dell’attualità della lezione sturziana ci sono – a mio
parere – due documenti importantissimi, che dovremmo tornare a rileggere e a
studiare con attenzione. Il primo è l’Appello ai liberi e forti lanciato
a Roma il 18 gennaio 1919 per sancire la nascita del Ppi. Il secondo è l’Appello ai siciliani pubblicato da don Sturzo
sulle colonne del «Giornale d’Italia» il 24 marzo 1959, pochi mesi prima di
morire, alla vigilia delle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea regionale
siciliana, nel quale suggeriva la strategia per vincere «la battaglia per oggi
e per l’avvenire».
Rileggere l’Appello ai liberi e forti –
cioè a quegli italiani «d’alti e forti caratteri», che – già a partire dal 1860
– avrebbero dovuto fare dell’Italia, senza riuscirvi appieno, una «nazione
ordinata, ben amministrata, forte, libera e di propria ragione», non
condizionata da potentati occulti e da accordi sottobanco, come aveva scritto
nelle sue memorie Massimo d’Azeglio all’indomani dell’Unità – e rileggere l’Appello ai siciliani, è un esercizio molto simile
all’esame di coscienza, da fare con un certo pudore e sentendo affiorare il
rossore della vergogna sulle guance. Sono, infatti, entrambi ancora
attualissimi. Ma più che per la loro innegabile forza ideale, per la loro
urgente concretezza sociale e politica, disattesa ormai da troppi decenni, anzi
quasi mai presa veramente in seria considerazione.
Per questo motivo, sembra di sentirlo con i nostri
orecchi e rivolto proprio a noi l’invito sturziano a «congiungere, nell’amore
alla patria, il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano
internazionalismo», come leggiamo nell’appello del 1919, dato che – affermerà
don Sturzo, dopo esser tornato dall’esilio – la democrazia è autentica solo
quando è «solidale». E sembrano uscite sul giornale di oggi le osservazioni che
quell’ormai anziano prete esperto in sociologia faceva sul «punto principale»
della situazione siciliana, come scriveva nel 1959, ossia la «formazione di
tecnici, di studiosi, di specializzati»: «costino quel che costino, la Regione,
invece di tenere due o tre mila impiegati più o meno senza titolo nei vari
dicasteri ed enti che ha il piacere di creare a getto continuo, ne tenga solo
mille; ma contribuisca ad avere mille tecnici, capi azienda specializzati,
professori eminenti, esperti di prim’ordine». La lucidità intellettuale e
l’acribia morale permettevano a don Sturzo di prevedere ciò che si sarebbe poi
trasformato da improbabile indizio a rovinosa evidenza. Ai suoi occhi, il
regionalismo autonomo, che egli aveva prima propugnato come antidoto nei
confronti della «mala bestia» dello statalismo, rischiava di tradursi – e di
tradirsi – in una versione peggiorata dello stesso statalismo, applicato con
metodo ancor più asfissiante su scala insulare. Davvero si finisce per avere
l’impressione che quei suggerimenti sturziani permangano attuali perché
inattuati.
La ricerca, che il libro cui ci stiamo qui riferendo
illustra, rappresenta il tentativo di recuperare la memoria dell’impegno civile
di Sturzo e di rivisitare una stagione politica che non poche analogie va
mostrando con quella che ai nostri giorni stiamo attraversando. E si offre
quale contributo per recuperare il senso del popolarismo sturziano, che torna
ad essere invocato da alcuni osservatori come l’antidoto più efficace contro i
populismi di varia matrice che di nuovo imperversano in Parlamento non meno che
negli altri spazi di pubblico confronto, dalle piazze ai salotti televisivi,
dai social network ai media che plasmano l’opinione pubblica nel mondo ormai
globalizzato.
In realtà, il pensiero di Sturzo, le sue battaglie in
difesa delle autonomie locali, l’esperienza breve e travagliata del Ppi e la
lotta per salvaguardare la democrazia contro ogni forma di autoritarismo, si
proiettano oggi al di là della semplice rilettura di una pagina della nostra
storia trascorsa. Quel pensiero e quelle vicende ci suggeriscono ancora non
poche indicazioni per la difficile elaborazione di un progetto in grado di
recuperare e realizzare una cultura politica attenta alle regole del vivere
bene insieme, all’effettiva competenza, al rispetto delle persone, della loro
libertà e della loro dignità.
Massimo Naro insegna teologia
sistematica a Palermo nella Facoltà Teologica di Sicilia e
dirige il Centro Studi «A. Cammarata». A Caltanissetta ha diretto la scuola
diocesana di formazione socio-politica. Recentemente ha pubblicato Introduzione alla teologia (EDB 2020) e Scienza
della realtà. La riflessione di Romano Guardini sul senso della teologia (EDB 2020); per i tipi San Paolo il libro-intervista ad
Andrea Riccardi: Tutto può cambiare (2018). Per Il Mulino ha
curato Il municipalismo di Luigi Sturzo. Alle origini delle
autonomie (2019, assieme a N. Antonetti) e Popolo,
democrazia, libertà. L’impegno sociale e politico di Luigi Sturzo (2020).